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incontro con dio e con i miei morti a biancade

trascritto da Tiziano Scarpa

bianc.jpgNel suo intervento intitolato Fuori s’è abbassata la temperatura, Davide Bregola chiede un po’ a tutti delucidazioni su letteratura e verità. Prima o poi pubblicherò anche in questo sito cose che ho già scritto sull’argomento. Intanto, siccome Davide Bregola invita a fare “un giretto anche voi in cimitero”, gli propongo di leggere il giretto che ho fatto io. Non si tratta di versi, ma di frasi trascritte camminando, o seduto in riva a un fiume, o in piedi da fermo, negli spazi bianchi di un opuscolo, nel febbraio dell’anno scorso, a Biancade (comune di Roncade, provincia di Treviso). Si va a capo per praticità, non per versificazione.

____________________________________________

arrivo a biancade a piedi
cammino per qualche chilometro sul ciglio della strada

sotto il cavalcavia
nel breve tunnel
ci sono manifesti di orchestrine
la loro concezione dei suoni come sorrisi
l’idea che la musica sia una cosa ammiccante

il muggito amplificato delle auto che passano
nella cassa di risonanza di cemento del tunnel
foderato di orchestrine
accelero il passo
faccio una corsetta per uscire presto
per non farmi investire

arrivo a biancade
non c’è una piazza in questo paese
c’è la curva della strada non faccio la curva
vado dritto in via dary
arrivo alla casa dei miei nonni
l’ha costruita mio nonno

guardo il cancello
hanno prolungato verso l’alto il cancello d’ingresso
era troppo basso
non cancellava
non nascondeva abbastanza

quelli che ci abitano adesso hanno fatto crescere le siepi
tutto intorno alla casa
mi domando se hanno lasciato la rete arrugginita
sotto le siepi
a fare da concime metallico per le piante
hanno intonacato la casa di bianco
prima era verde oliva
adesso è una casetta bianca
ci sono solo due inserti di mattoni a vista sulla facciata al primo piano
i mattoni sono rimasti quelli di trent’anni fa

e il portoncino che dà sulla terrazza è ancora quello
non l’hanno cambiato
immagino le stanze dentro
dietro il portoncino
come devono essere arredate adesso

lì dentro c’è anche il mio fantasma che corre
il fantasma di me bambino e di mio fratello bambino

faccio un giro intorno a due lati della casa
faccio finta di niente
tocco con le dita un paletto che sostiene la rete di recinzione

sono ancora quelli vecchi
riverniciati
sembrano nuovi ma sono ancora quelli vecchi
vi riconosco
siete ancora voi vecchi paletti
non posso dire che siate miei vecchi amici
siete comunque i miei vecchi paletti

attraverso le siepi
vedo l’orto minuscolo e uno spiazzo asfaltato
e il pozzo dove si buttava l’anguria
galleggiava
si rinfrescava
rotolava nell’acqua del pozzo

escono dalla porta un padre e un figlio nanerottolo
con il berretto da russo
il copriorecchi abbassato sotto il sole
è febbraio
domenica
filo via

ascolto nelle cuffie del giradischi digitale portatile una cosa di xenakis
suonata con la marimba
sono campane da stanza
campane da camera
ce le ho in testa
xenakis

dall’altra parte della casa
il giardino
il fantasma dei giochi anche nel giardino
tre alberi in tutto e il fantasma di me bambino e di mio fratello bambino
anche qui

la porticina secondaria del cancello di lato
dove il nonno aveva attaccato la cassetta della posta
con il coperchio della buca
sul coperchio aveva scritto in stampatello
preciso
geometrico
LETERE

con una T sola
ma precisa
fatta bene
in stampatello
con gli angoli perfetti
dritti
LETERE

giro dietro
guardo gli infissi di alluminio
la finestra delle scale
il retro della casa

il mistero dei retri delle case che hanno meno finestre di tutti gli altri lati
il nord
l’ombra
mi manca un po’ l’aria

vado avanti
mi lascio di fianco la casa
me la lascio alle spalle
vado avanti accanto alla fila di casette
lungo lo sterrato
dietro i retri delle casette

la terra inumidita dallo stare all’ombra
difesa dai retri delle case
non piove da un mese ma la terra è bagnata
ha dentro l’ombra
ha conservato l’ombra

vado avanti
c’è il piccolo fiume chiamato musestre
le rive rapate di erba secca
i campi spianati
costruiranno anche qui
ci sono già i tombini
i marciapiedi
la terra pelata
soltanto i tombini e i marciapiedi
ma senza la strada

i marciapiedi contornano il campo sterrato
la terra marrone incorniciata dai marciapiedi
il caos già addomesticato
pronto

dall’altra parte del fiume sei capre adulte e due appena nate
un caprone nero
con la barba
dio

adesso gli vado incontro
dall’altra parte del fiume
sono sulla sponda opposta
di fronte a lui
ma voglio rompergli i coglioni
lo voglio innervosire

voglio che creda che sono venuto a fottergli le capre
accoppiarmi con loro
presocratico

dio si pianta sulle zampe davanti
alza un po’ il mento
la barba nera che spiove
mi guarda

dio è legato a una catena di tre metri
fissata a un piolo piantato per terra
dio gira intorno a quello
sempre intorno a quello
deve difendere le sue donne
tenersele tutte per sé
girare sempre intorno alla circonferenza del suo fallo di legno
imperniato a terra

due caprette nuove buttano la testa sotto la pancia di una mamma
le danno testate alle mammelle
alzano la bocca
pretendono il capezzolo
hanno diritto
non c’è discussione
le caprette sono padrone del latte
padrone delle mamme

le capre spaparanzate brucano
si fanno i fatti loro

è finito il disco di xenakis
è stato sostituito dalle campane della chiesa
appena dopo l’ultimo pezzo di marimba le campane da camera
campane della mia testa
si sono spalancate improvvisamente
sono diventate mezzogiorno
campane dell’orizzonte
un mio pensiero ha allagato il paesaggio

squilla il telefono
è giuseppe
dice dove sei
sono in riva al fiume
in un paesino in provincia di treviso

ti invidio
stasera a milano gli intellettuali si trovano a teatro

stasera gli intellettuali parlano della tivù pubblica
delle immagini pubbliche trasportate nella sede del nord
è una grande occasione per le immagini pubbliche
per il nord pubblico

ci sarà il comico televisivo
il poeta televisivo
il critico televisivo
c’è un dibattito a teatro
stasera prendono posizione per le immagini pubbliche
io voglio andare
dice giuseppe
voglio dare fastidio
vieni anche tu stasera
ce la fai a dare fastidio anche tu?

sono davanti a dio
gli rispondo
sto dando fastidio a dio

ci sono molti tipi di alghe nel fiume largo dieci metri
mi piacerebbe saper riconoscere i tipi di alghe del fiume

se ti siedi sulla riva del fiume ad aspettare l’acqua che passa
a un certo punto ti accorgi dell’acqua
c’è l’acqua
guardi l’acqua
pensi l’acqua
se la pensi vuol dire che è arrivata
l’hai sentita arrivare
ti sei seduto sulla riva del fiume e hai visto
hai sentito succedere il fiume
l’acqua

la pelle dell’acqua non è liscia
ha le rughe
le fossette

le capre si allontanano
dio le chiama impalato al suo piolo di padrone sessuale

due maschi giovani si impennano
si danno una leggera cornata

da lontano si sentono strisciate di rumore
a destra
a sinistra
le automobili
le motorette
lontano
ma non tanto lontano
abbastanza lontano

dio ha starnutito

odore di erba che evapora
boschi cedui all’orizzonte
due turbine
le grondaie industriali
due torri di silos
i tralicci della luce
cavallette metalliche alte venti metri
con le zampe sottili
piccole tour eiffel campagnole

i fili elettrici scavalcano la campagna
hanno un itinerario tutto loro
devono andare
devono andare
non ha senso pensare che arrivi un gigante e ci stenda il bucato

mi alzo
vado al cimitero
a salutare la superficie delle tombe
la parte esterna delle tombe
dei miei nonni
dei miei zii

eccomi
sono di fronte a voi
sto scrivendo di fronte a voi
i miei morti di vecchiaia
i miei morti di giovinezza
di suicidio
di incidenti stradali
mi state leggendo miei morti?

state leggendo questo che scrivo di fronte a voi?

i miei bisnonni ai piani alti del condominio di morti
numeri senza senso
nato nel milleottocentottantuno
fotografie spiritate
che faccia sto facendo io?

di fronte alle vostre facce
sento la mia pelle tirare
sento una smorfia
non riesco a vederla
voi sì?

eugenio assunta renato ernesto luigi maria antonio alessandro

mi siete venuti a trovare tutti insieme
come mi trovate?

alessandro maria ernesto
nato nel milleottocentosettantanove
non vi conosco
presentatevi
mi avete lambito
mi avete sfiorato
morti a lunga gittata
siete morti prima che io nascessi

vi porgo la schiena
va bene?

guardo le altre famiglie di morti
va bene?

mi volto di nuovo verso di voi
vi guardo di nuovo negli occhi
va bene?

l’unico che sorride è quello che si è suicidato

i sassetti
ci mettono i sassetti nei cimiteri
perché sia impossibile non fare rumore
ce li mettono per rendere impossibile il silenzio

poi quando si arriva davanti ai morti si sosta
si sta fermi
e allora anche il mondo sotto i piedi smette di scricchiolare
sta zitto
fa silenzio
per ascoltare meglio i morti

_______________________

Pubblicato in AA. VV., Il tuffatore, No Reply, 2004.

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16 Commenti

  1. Tiziano, ti prego, se non l’hai ancora fatto, leggi il “Canzoniere della morte” di Salvatore Toma, un poeta di Maglie, delle mie zone. E’ ossessivo, paranoico, struggente. Eccone un pezzettino:

    La morte ghermisce
    ma forse è innocente
    si muove senza malizia
    perciò di innocenti
    a volte si nutre
    come di premure un malato.
    Forse la morte è innocente
    la sbandiera senza malizia
    la sua falce beffarda e dolorosa
    e da noi esala già forse concepita
    quest’ossessione bellissima
    che è vita.
    Forse la morte è già in noi
    quando senza malizia
    una sera si annuncia da lontano
    coi suoi sonagli d’oro.

    La vita per innocenza
    va goduta dormendo
    e lui si è solo girato di fianco.
    Sì meglio dare il fianco
    alla morte
    insegnarle il perdono
    che darle le spalle per viltà
    o il petto per arroganza.

  2. toma è un grandissimo. le sue poesie, sulla morte e sugli animali le so a memoria. leggetele tutti.

  3. Complimenti a Tiziano per la sua drammatica, sofferta (così l’ho sentita) passeggiata tra fiumi e sconosciuti avi, e a Salvatore Toma. Bellissimo il finale, soprattutto, quel dare il fianco alla morte insegnadoLE il perdono!

  4. Strano. Non ho sentito sofferenza. A me sembra quasi che, diventando fantasma, si sia messo a dialogare. Con bestie, dio e morti. Mi è piaciuto, di solito fatico a leggere Scarpa. Piaciuto.

  5. Va beh, giacché ci sono posto una mia personale poesia. Non è un granché, metto avanti le mani, però mi sembra carina….

    Acqua-planing

    È questa la pozzanghera d’acqua di vetro
    su cui le gomme schizzarono via
    senza suono né attrito, pattinando.

    All’inizio fu uno scatto di nervi, tutti i sensi
    convocati a gestire il caso: sterzate,
    freni premuti a tavoletta e una foga

    di marce ingranate. Finché arreso tolsi le mani
    dal volante per seguire con calma la scena
    in prima fila, l’Inevitabile messo in onda

    sul parabrezza. Poi lo schianto. Il mio sguardo
    era lo stesso di mio padre quando pensava al peggio
    nel letto di malattia: una rassegnazione

    prima stupita, poi adirata, infine quieta,
    muta, di colpo invasa dall’inerzia
    con cui ci si guarda morire.

  6. Medito sull’innegabile importanza, nella tua poetica, di fallo/suzione/suicidio. In attesa di trarre qualche conclusione, aggiungo il mio

    RIPENSAMENTO
    DI TUTTA
    L’INFANZIA

    Pioveva sul fico
    sul moro
    e su
    Angiolo
    Silvio
    Novaro
    ornato di
    gemmule
    d’oro

    (Quel mondo incubava tutte le cose sinistre che sono maturate poi… ):-)

    P.S. Domani, per fortuna, una bella ferrata.

  7. Era una torrida serata estiva, il 19 giugno del 2003. A villa Litta Flavio Giurato doveva fare il suo primo concerto milanese dopo 20 anni. Ci andai solo soletto, non conoscevo nessuno che si ricordasse di lui. Alternate al concerto c’erano delle letture di scrittori ispirate a pezzi di Giurato. Fu lì che vidi, fisicamente, per la prima volta Tiziano. Lesse proprio questo pezzo. Mi ha fatto molto piacere “ritrovarlo” qui.
    Ma, aspettate un attimo, vi allego cosa scrissi il giorno dopo sul forum dedicato a Flavio Giurato:

    IL FLAVIONE A MILANO
    Dapprima mi rendo conto di aver fatto una cazzata. Con la fretta lascio a casa il portafogli e quant’altro. Embè? Potreste dirmi… tanto il concerto è gratis. Certo. ma la maglietta nera con su la citazione del Tuffatore? Come la compro?

    Tranne ciò, il resto della serata è più che piacevole.

    Ogni tanto alcuni scrittori salgono sul palco e leggono qualcosa. Il Primo è Aldo Nove. La sua è la lettura più circostanziata, quella più legata al tema della serata. Più avanti arriverà Tiziano Scarpa che leggerà la cosa più bella, forse, non ostante la sua recitazione spiritata, fin troppo sopra le righe. In fine Giuseppe Caliceti, il più divertente e frizzante. Tutti e tre sono volgari alquanto. Non che la cosa mi scandalizzi, ma vedo fra il pubblico anche dei bambini. Un nonno porta via una nipotina un po’ indignato dalle parolacce. Sorrido. mi accorgo che un paio di bimbe ridono come matte quando sentono tutte quelle parole “proibite”. Massì, siamo in libera uscita.

    Nel frattempo è arrivato il Flavione nazionale. E’ altissimo. Si siede, ha un’aria un po’ smarrita, un po’ timida e un po’ fuori di zucca. Tipo il fratello, non so se mi spiego.

    Io sono lì in seconda fila. Da solo. Non so se guardare lui o chi mi sta dietro. Mi volto spesso, lo spettacolo di questo gruppo di fanatici 35-45enni che lo segue ovunque mi entusiasma. Flavio inizia a cantare di spade abbandonate per strada. C’è chi approva nel pubblico, chi si guarda in faccia felice. Fra i reading e le canzoni il tempo passa con pacatezza, fra amici.

    Io mi rendo conto che l’ufficialino è in mi bemolle. Per un chitarrista è una tonalità assurda, scomoda. Ma certo, lui ha le dita così lunghe che forse neppure se ne accorge. E’ solo. Nessuno lo accompagna. La cosa rende ancora più precario il concerto. Anzi, decide ci parlarci di Orbetello senza neppure strimpellare la chitarra. Ha una voce potente, bella. Forse la sua cosa più bella. Poi canta d’altro, di Pier Paolo, di Praga, etc…

    Tira e molla decide che il concerto è finito, ma non gli crede nessuno. Torna subito e ci sbatte in faccia un Tuffatore che gli esplode fra le mani. Freme, batte i piedi, è come se il pezzo avesse bisogno dei berliner per capirne la sua potenza. Ma lui lavora per sottrazione, abbandona la chitarra e la canta urlante vis a vis col pubblico. Un po’ mi incazzo, la chitarrina in questo caso la volevo proprio sentire. Perché? Forse perché volevo vedergli gli accordi, o forse perché… perché… ecco: perché, mi rendo conto ora, quella chitarrina mi ricorda quella di wish you were here (che non c’entra un cazzo lo so, però la associazione è proprio quella). In realtà va bene così. Lui ululante e un po’ fuori di zucca (tipo il fratello, avete presente?).

    Il concerto è finito. Non riesco ad alzarmi dalla sedia. Vedo i gruppetti formarsi. Mi avvicino ad un banchetto per bere qualcosa, sento che il Flavio nazionale ha subito una operazione fastidiosa da pochi giorni, altri vanno da lui e si fanno autografare il disco.

    Potrei avvicinarmi anch’io ma decido di lasciar perdere. Va bene così. Dopo vent’anni l’ho risentito cantare. Lasciamo ancora un po’ di mistero intorno a tutto ciò. Intorno ai volti amici, alle faccie da ingegnere, da informatico, da impiegato, che vedevo attorno a me. Va bene così mi dico.

    Torno mesto e pacificato verso la fermata dell’autobus, affianco a me c’è un tipo con addosso la maglietta. Avrei voluto salutarlo, dirgli: “hey, ma quanto costa la maglietta? Come ti chiami? Cosa fai domani?” Ma ho preferito di no. Meglio così. Sto bene. A casa mi aspetta mia figlia.

  8. L’ambientazione crea diverse risonanze, si prospetta un racconto che pone in primo piano il sentire, che prende a pretesto una finta narrazione per dar vita ad una poetica del divenire.
    Tutto ha un senso perché è ricordo.
    E ricorda la poesia epico-narrativa di Pavese, ricorda “I mari del sud”.
    Scarpa, forse, senza averne coscienza – non so quanto questa mia affermazione (che mi spaventa, come ogni proposta verità)- si proietta in una dimensione diversa, inaspettata : essere equivale a vivere.
    Sembra scontato. Invece capovolge la prospettiva di una letteratura che è vittima di una esitenza che non si può mutare.
    Fino ad oggi ci hanno proposto, Scarpa e gli altri, il vivere per il vivere, che spesso porta a fatali conseguenze, in questo frammento trovo una nuova prospettiva: quello che siamo è una divagazione ambientale, sonora, linguisitca, di quello che eravamo.
    Un unico consiglio, i consigli non sono mai ben accetti, rivisiti il suo testo, che ha diverse lacune, sembra una prima stesura, nata dall’istinto-sentire, che necessità di qualche revisione.
    Il solco è tracciato, basta avere la forza di poterlo percorrere.

  9. premetto che non sono un grande esperto di poesia. spesso i poeti che preferisco sono quelli morti giovani e suicidi, forse perché mi sembra che i loro componimenti non siano solo un balletto di parole, ma che i loro versi contengano il dolore, la ferita originaria, quindi la verità. non dimenticherò mai “inverno dello scrivere nemico” di beppe salvia, o “preghiera alla poesia” di antonia pozzi, due poeti generazionalmente lontani che hanno saputo difendere la loro malinconia, il loro senso di smarrimento, anche a costo di rimetterci la vita. e sicuramente non dimenticherò “canzoniere della morte”, la raccolta di liriche di salvatore toma, poeta magliese morto suicida nel 1987, a 36 anni. l’ho scoperta per caso: io sono come woody allen in “io e annie”, compro tutti i libri con la parola morte nel titolo.

  10. Per come la vedo io, è bello e vero.
    Qui non ci sono solo i morti e i fantasmi di Tiziano Scarpa, c’è qualcosa di tutti noi.
    Prima, durante e dopo gli infissi in anticorodal.
    E poi la forma. È un racconto, è un diario, è un quaderno di appunti, è prosa poetica, è riflessione filosofica.

  11. In questa sorta di diario di impressioni ci sono alti e bassi. Momenti di vera poesia come il finale o il passo in cui Scarpa descrive la campagna intorno al fiume e la sua personale angoscia – ma annotata con somma leggerezza – che presto tutto ciò lascerà posto a strade e città: “vado avanti /
    c’è il piccolo fiume chiamato musestre / le rive rapate di erba secca / i campi spianati / costruiranno anche qui / ci sono già i tombini / i marciapiedi / la terra pelata / soltanto i tombini e i marciapiedi / ma senza la strada / i marciapiedi contornano il campo sterrato / la terra marrone incorniciata dai marciapiedi / il caos già addomesticato / pronto” (dove quel “pronto” finale, staccato e isolato dal resto, è caricato di inquietudine dalla reticenza – ci si aspetterebbe che continuasse la frase: “pronto a…”). Ma ci sono momenti in cui il livello si abbassa, come nel dialogo coi suoi morti: la retorica dell’interrogazione ai morti (“mi state leggendo miei morti?” “state leggendo questo che scrivo di fronte a voi?” “voi sì?” “come mi trovate?” “va bene?”) è un po’ banale, e vuote, banali e retoriche sono anche le domande rivolte.

    Condivido, dunque, l’opinione di chi ha scritto che questo diario d’impressioni ha l’aspetto di una prima stesura, andrebbe un po’ rivisto, smussato in qualche parte, lavorato un po’ di pomice.

    Poi c’è una cosa che mi è piaciuta molto, non so quanto in Scarpa sia stata volontaria. Quasi tutto il diario è una sfilza di impressioni soprattutto acustiche: “ci sono manifesti di orchestrine / la loro concezione dei suoni come sorrisi / l’idea che la musica sia una cosa ammiccante // il muggito amplificato delle auto che passano / nella cassa di risonanza di cemento del tunnel / foderato di orchestrine” “ascolto nelle cuffie del giradischi digitale portatile una cosa di xenakis / suonata con la marimba / sono campane da stanza / campane da camera / ce le ho in testa / xenakis” “è finito il disco di xenakis / è stato sostituito dalle campane della chiesa / appena dopo l’ultimo pezzo di marimba le campane da camera / campane della mia testa / si sono spalancate improvvisamente / sono diventate mezzogiorno / campane dell’orizzonte” “squilla il telefono” “se ti siedi sulla riva del fiume ad aspettare l’acqua che passa / a un certo punto ti accorgi dell’acqua / c’è l’acqua / guardi l’acqua / pensi l’acqua / se la pensi vuol dire che è arrivata / l’hai sentita arrivare / ti sei seduto sulla riva del fiume e hai visto / hai sentito succedere il fiume / l’acqua” “da lontano si sentono strisciate di rumore / a destra / a sinistra / le automobili / le motorette / lontano / ma non tanto lontano / abbastanza lontano” “dio ha starnutito” e poi tutto il dialogo coi morti. Alla fine, contro tutte queste impressioni acustiche rilevate nella passeggiata, contro i rumori di macchine, musica, campane, caprone, scorrere d’acqua ecc., si staglia il silenzio finale del cimitero, il silenzio dei morti, il contrasto con la restante e precedente descrizione – se si pensa – è molto forte:

    i sassetti
    ci mettono i sassetti nei cimiteri
    perché sia impossibile non fare rumore
    ce li mettono per rendere impossibile il silenzio

    poi quando si arriva davanti ai morti si sosta
    si sta fermi
    e allora anche il mondo sotto i piedi smette di scricchiolare
    sta zitto
    fa silenzio
    per ascoltare meglio i morti

    Ecco, per tornare a quello che diceva nel suo intervento Vasta, anche in questo caso, se Scarpa sfrondasse e incentrasse il suo diario d’impressioni su elementi come questo contrasto rumore del mondo-silenzio dei morti, farebbe davvero alta poesia. Ma dentro questo diario, purtroppo, c’è un dippiù che non è poetico, che non è poesia (cazzo, sto facendo un discorso quasi crociano! ma no, non è la stessa cosa, la non-poesia di Croce non è quello che intendo io): è la vita, dirà Scarpa, sono le impressioni come io le ho sentite in quel momento, vive, reali, non posso toglierle, anche se qualcuna non lega con le altre, anche se qualcuna è più bassa delle altre. Ma, come nel narrarare, anche nel poetare non tutta la realtà – per il fatto in sé di essere poetata – diventa arte. La poesia è anche artificio, retorica, costruzione…

  12. IL GABBIANO DEL FARO

    STUDIO TRASCENDENTALE IIA SERIE

    Di un gabbiano l’innumere volo non s’arresta
    tra le notturne e sideree tinte di un faro
    la cui luce l’oblio, solo, conobbe tra le pupille di un cristallo
    in dinamica e perpetua stasi alare, senza principio né fine.

    Spezzasi, così, l’ala di colui che l’aere sublima in placido moto
    finché irradiata venga la purpurea livrea maculata
    dal sanguigno coagulo di un lontano esilio;

    Così, come eterni continenti alla deriva
    si ricongiungon gl’estremi di un’infinita meta
    finché squassata e divelta sia la fibula
    che di quel cosmo ambrato avvince
    una singola ed immutata stella.

    Negl’occhi di codesto gabbiano, si spengono
    i cosmi solitari, collisi in un muto strato d’orizzonte,
    finché di quell’unica e sola fulgida stella
    a divampar il ricordo, lento, s’estingua.

    (dall’opera inedita “Studi Trascendentali”)

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