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Pandori e moda. La camorra spa.

di Roberto Saviano

Panettone_2.jpg Le merci imposte ai commercianti, con le minacce ma anche con gli sconti. Le fabbriche nascoste in periferia per produrre gli abiti delle grandi marche. Che poi vanno a finire nel mercato nero. Il sistema funziona, senza bisogno di pistolettate. E si espande anche in Cina.

Giuseppe Gala detto showman era diventato a Marano e nella zona nord di Napoli uno dei più apprezzati e richiesti agenti nel business alimentare. Rappresentante di due note ditte dolciarie e del più grande produttore nazionale del latte, in una conversazione telefonica depositata dai magistrati della Dda di Napoli nell’autunno del 2003, Gala si vantava: «Li ho bruciati tutti, siamo i più forti sul mercato». Le ditte infatti che si rivolgevano a lui avevano la certezza di essere presenti su tutto il territorio da lui coperto e la garanzia di un elevato numero di ordinazioni. D’altro canto i commercianti ed i supermarket erano ben felici di poter interloquire con Peppe Gala poiché forniva sconti assai più alti sulla merce, avendo possibilità di fare pressione sulle aziende e sui fornitori. Aveva infatti un argomento in più: era un camorrista. E poteva assicurare, controllando anche i trasporti, prezzi favorevoli ed arrivi tempestivi. Il clan non impone con l’intimidazione il prodotto che decide di «adottare» ma con la convenienza. Le aziende rappresentate da Gala dichiarano di essere state vittime del racket della camorra, di aver subito il diktat dei clan. Ma osservando i dati commerciali – rintracciabili nelle pubblicazioni annuali di Confcommercio – le ditte che si sono rivolte a Gala nel lasso di tempo che va dal 1998 al 2003 hanno avuto un incremento di vendite annuale che va dal 40% all’80%. Con le sue strategie economiche Gala riusciva persino a risolvere i problemi di liquidità monetaria dei clan. Arrivò a imporre un sovrapprezzo sul panettone nel periodo natalizio per poter pagare la tredicesima alle famiglie dei detenuti del clan Nuvoletta. Il successo però fu fatale a showman. La sua potenza commerciale lo portò – secondo il racconto di alcuni pentiti – a tentare di diventare esclusivista anche nel mercato della droga. La famiglia, i Nuvoletta, non apprezzò. Lo trovarono nel gennaio del 2003 bruciato vivo nella sua auto.

Bevete più latte. Ma solo Parmalat.

Il 2 marzo 2004 i carabinieri di Caserta hanno arrestato 18 persone con l’accusa di far parte dei clan camorristici dei Casalesi e dei Moccia. E’ emerso dalle indagini che grazie all’alleanza aziende-camorra il latte distribuito prima dalla Cirio e poi dalla Parmalat aveva conquistato nelle zone gestite commercialmente dai casalesi (tutto il casertano, parte del napoletano, tutto il basso Lazio, parte delle Marche e dell’Abruzzo, parte della Lucania) il 90% del mercato. Le aziende versavano oltre le cifre dovuto anche una tangente di 400 milioni di vecchie lire ad ogni agente concessionario. In questa inchiesta vennero coinvolti diversi marchi (Centrale del latte di Napoli, Latte Berna, Latte Matese…), ma tutti riconducibili all’impero Eurolat, l’azienda passata nel 1999 dalla Cirio di Cragnotti alla Parmalat di Tanzi. I magistrati disposero il sequestro di tre concessionarie e diverse aziende per la distribuzione e la vendita del latte, tutte, secondo l’accusa, controllate dalla Camorra.

Il cartello criminale dei “casalesi”, gruppo imprenditorial-criminale del casertano che per la Dia di Napoli è «paragonabile come forza militare ed economica alla sola Cosa nostra» si compone come una confederazione di famiglie unite nel vertice dal boss di Casal di Principe Francesco «Sandokan» Schiavone. L’uomo che faceva da unione tra camorra e imprese era secondo le accuse Raffaele Capaldo, cognato di Michele Zagaria, latitante da un decennio ed attualmente reggente della confederazione dei casalesi. Con Capaldo hanno trattato i dirigenti prima di Cirio e poi di Parmalat per ottenere il ruolo di «cliente speciale». Alla concorrenza rimaneva soltanto un 10% del mercato del latte. Il trattamento di favore era conquistato innanzitutto attraverso politiche commerciali. Anche in questo caso come con Peppe Gala a Marano i marchi Cirio e Parmalat concedevano ai distributori uno sconto speciale che andava dal 4 al 6,5 per cento, invece del consueto 3 per cento circa, oltre a vari premi di produzione. In questo modo anche i supermercati e i dettaglianti potevano strappare buoni sconti sui prezzi. Grazie al patto con la camorra – secondo le indagini – in dieci anni il marchio Parmalat si è guadagnato un mercato monopolistico senza mai entrare in crisi e sapendo con certezza di anno in anno quanto avrebbe fatturato. Mai una denuncia. Nel 1998 un funzionario della Cirio, Giuseppe De Cesare, era stato vittima di un’aggressione nella sua abitazione nel casertano: era stato pestato selvaggiamente sotto gli occhi della moglie e della figlia perché non aveva rispettato i dettami del clan. Tutto passò sotto silenzio. Anche in questo caso le aziende risultavano parti offese. Eppure Parmalat tra le documentazioni che garantivano la solidità dell’azienda presentava come fiore all’occhiello le vendite nelle zone controllare dai casalesi. Per le ditte estranee al patto ovviamente era impossibile distribuire latte. Minacce, estorsioni, distruzione dei camion, aggressioni ai camionisti e rapine a Tir servivano a far cambiare idea.

Antistato sociale

La camorra dispone di un rodato sistema di welfare, lo si scopre leggendo il decreto di fermo utilizzato per il blitz di Scampia del 7 dicembre scorso. Un welfare particolarmente efficiente capace di garantire lo stipendio alle famiglie di ogni affiliato in galera. La struttura mutualistica sostituisce completamente quella assente dello stato. Nei comuni del napoletano, Melito, Casavatore, Caivano, Cardito, Sant’Antimo, quasi tutti egemonizzati dai clan, sono migliaia i lavoratori a nero nelle centinaia di fabbriche di scarpe, vestiti, confezioni, che producono a ciclo continuo. Queste fabbriche lavorano con personale specializzato prodotti di griffe di fama internazionale. L’unica possibilità per questi lavoratori irregolari di accedere ad un mutuo per la casa o a una fideiussione per aprire un piccolo esercizio commerciale è ricorrere alla mediazione della camorra. Così in comuni dove oltre il 40% dei residenti (stime Cgil) vive di lavoro nero, sei famiglie su dieci (dati Formez) riescono ugualmente ad accendere un mutuo per l’acquisto della casa.

Negli Anni Novanta questo territorio della provincia di Napoli era definito la Las Vegas del sud. E’ ancora facilissimo aprire una fabbrica di vestiario senza alcun permesso. E con un sistema collaudato assicurare ricchi guadagni ai clan e alle griffe più celebri. Funziona così: le griffe (immaginate i più celebri marchi della moda made in Italy) consegnano a diverse fabbriche i prodotti da ultimare, ma soltanto la fabbrica che riuscirà a rispondere alla domanda al prezzo più basso e nel tempo minore dell’azienda verrà pagata. Le altre potranno tenersi il materiale e riproporlo sul mercato nero. Da qui l’esigenza di molti imprenditori di organizzare turni massacranti di lavoro per venire incontro ai tempi di consegna. Il blitz dello scorso 7 dicembre a Scampia iniziò all’alba, quando i primi turni di lavoratori a nero entrano in fabbrica. Quella mattina le saracinesche di molte fabbriche di Melito restarono abbassate, per precauzione. Nessun blitz però riguardava i lavoratori a nero. Mai nessuna operazione dagli Anni Settanta a oggi è stata portata avanti per scardinare il sistema fabbriche clandestine o semiclandestine della provincia di Napoli. La camorra è un elemento fondamentale nell’accordo tra la grande griffe e la fabbrica a nero. Perché fornisce liquidità agli imprenditori che altrimenti ricevono il pagamento del lavoro solo alla consegna dei prodotti. Racconta Michele C., ex proprietario di una fabbrica di scarpe di Melito: «Il clan ti presta i soldi a un tasso identico a quello che farebbero le banche, in cambio di questa clemenza sui tassi d’interesse devi assumere qualcuno che ti segnalano loro e devi dare al loro giro clandestino i prodotti che la fabbrica non è riuscita a consegnare alla griffe, così la piazzano sul mercato del falso. La camorra però non vuole comprare le fabbriche a nero in crisi, non ne vuole sapere nulla».

Alla conquista dell’est.

Che i clan non abbiano voglia di investire negli indotti clandestini utilizzati dalle grandi griffe lo dimostra il fatto che molte fabbriche in questa zona stanno chiudendo. La parte maggiore delle griffe emigra all’est – Romania, Macedonia, Polonia – ma anche in questa emigrazione la mediazione dei clan risulta fondamentale. Le imprese della camorra sono state le prime ad avere rapporti con l’est. Antonio Bardellino e Carmine Alfieri, leader della Nuova Famiglia, riuscirono a insediarsi nel territorio rumeno, polacco e ungherese ancor prima della caduta del muro di Berlino. Oggi le aziende italiane che utilizzano i clan come promoter ricevono enormi benefici perché la camorra ha ottimi rapporti con le autorità locali e riesce a velocizzare le pratiche burocratiche. Conferma la forte centralità della camorra nel trasferimento delle imprese italiane all’estero l’arresto avvenuto nel marzo 2004 a Krosmo in Polonia di un dirigente del clan dei casalesi Francesco «Cicciariello» Schiavone, cugino del boss Sandokan. Cicciariello, come si legge nel rapporto investigativo della Polizia, «aveva un forte interesse per il controllo di attività commerciali ed imprenditoriali in Germania, Austria, Ungheria e Romania».

Nell’indagine a carico di Schiavone sono segnalate le sue riunioni negli alberghi rumeni e polacchi dove incontrava imprenditori italiani interessati a investire in alberghi, masserie, allevamenti di bufale, proprio nei paesi dove le ditte del clan avevano già affrontato il mercato con ottimi risultati.

Il clan di Paolo Di Lauro, protagonista della feroce guerra in corso a Scampia, ha molti rapporti di affari nei paesi dell’est grazie alla sua capacità, come ha spiegato il magistrato della Dda di Napoli Giovanni Corona, di esportare in Romania e Polonia macchine fotografiche prodotte in Cina. Il potere di Di Lauro ad est si fonda anche sulla capillare presenza criminale che ha consolidato nella gestione del contrabbando di sigarette, mercato completamente esaurito in Italia ma ancora florido nell’Europa dell’est.

L’investimento in Cina dei clan camorristici napoletani Di Lauro e Contini – messo a fuoco in un’inchiesta della Dda di Napoli del luglio 2004 – dimostra lo spessore imprenditoriale dei boss. Che in questo caso hanno anticipato l’entusiastico invito rivolto alle imprese italiane dal presidente Ciampi ad investire in Cina. Le aziende ed i capitali della camorra sono arrivati a Pechino già da dieci anni.

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Pubblicato su Il manifesto il 16 dicembre 2004

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