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CARLO LEVI: architettura, società, restauro

di Gianni Biondillo

carlolevi.jpg 1. I Sassi di Matera

A sessant’anni dalla pubblicazione (fu proprio nel 1945, per Einaudi) forse oggi non riusciamo a capacitarci di come le poche, drammatiche pagine dedicate a Matera nel Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi furono alla base di una polemica che pose la città e i Sassi al centro dell’attenzione nazionale ed internazionale. Di certo ciò che sappiamo è che il legame fisico ed emotivo fra Matera e Levi sarà da quel momento assolutamente indissolubile.

La storia di Matera, la sua evoluzione urbanistica, sociale, e tutte le questioni sullo spopolamento ed il restauro dei Sassi passano ancora oggi inevitabilmente da quelle poche lucide pagine Leviane: “… mi misi finalmente a cercare la città. Allontanatami ancora un poco dalla stazione, arrivai ad una strada, che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case, e dall’altra costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera. […] La forma di quel burrone era strana; come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso in un apice comune, dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca, Santa Maria de Idris, che pareva ficcata nella terra. Questi coni rovesciati, questi imbuti, si chiamano Sassi: Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Hanno la forma con cui, a scuola, immaginavamo l’inferno di Dante.”(1)

L’orrore per le impossibili condizioni igieniche degli abitanti dei Sassi, colpiti dalla malaria, dalla dissenteria, dalla sottoalimentazione; abitanti di grotte condivise da uomini, donne, bambini e animali, con bambini grinzosi come vecchi deturpati da malattie tropicali; l’orrore di tutto ciò si somma alla consapevolezza dell’unicità del panorama: “Eravamo intanto arrivati al fondo della buca, a Santa Maria de Idris, che è una bella chiesa barocca, e alzando gli occhi vidi finalmente apparire, come un muro obliquo, tutta Matera. Di lì sembra quasi una città vera. Le facciate di tutte le grotte, che sembrano case, bianche e allineate, pareva mi guardassero, coi buchi delle porte, come neri occhi. E’ davvero una città bellissima, pittoresca e impressionante.”(2)

Il Cristo innescò una reazione a catena. Nel 1949 giunse a Matera l’antropologo Friedmann dell’Università dell’Arkansas e si costituì la Commissione di Studi sulla città e l’agro di Matera. La città fu visitata da De Gasperi e da Togliatti. varie Missioni e Commissioni si susseguirono nel corso di pochi anni. Adriano Olivetti si farà promotore della costruzione del villaggio la Martella che verrà terminato nel 1955 sotto la direzione di Ludovico Quaroni. Nel 1956 il Piano Regolatore Generale di Piccinato viene approvato, negli stessi anni Giancarlo De Carlo realizza il quartiere Spine Bianche. La letteratura neorealista di Levi trasformò, in pochi anni, la città di Matera in una città neorealista.
Ma dopo lo spopolamento il risanamento dei Sassi ed il relativo ripopolamento era ancora lungi a venire. Altri intellettuali “non organici” (al potere, o alle questioni accademiche-architettoniche) denunciarono tutto ciò con precisi atti poetici-polemici. Nel 1964, ad esempio, Pier Paolo Pasolini gira nei Sassi Il vangelo secondo Matteo associando Matera a Gerusalemme, sicuramente memore della definizione leviana di Matera come “capitale della civiltà contadina”.

Dopo l’elezione a Senatore della Repubblica, l’impegno civile si fa in Levi impegno politico attivo: in una relazione che tenne in Senato alla Commissione Istruzione e Belle arti nel novembre del 1966 chiede l’approvazione del disegno di legge sul risanamento dei Sassi di Matera. Le leggi precedenti, secondo Levi, “… videro, quasi unicamente, e non abbastanza organicamente, i lati igienici e sociali”, mancò una visione totale che si preoccupasse “…della tutela dei valori storici ed estetici […] Questo complesso urbano, costituitosi attraverso millenni, ricco di chiese rupestri, di documenti storici e etnologici, è una realtà architettonica e urbanistica di valore unico e tale da rappresentare il più importante esempio di architettura popolare del nostro Paese. Il suo inestimabile valore deve essere tutelato e ripristinato: nessuna norma o iniziativa potrà essere considerata troppo difficile o onerosa a tale fine.”(3)

Se da una parte lo sgombero degli ambienti insalubri è un atto dovuto dall’altra non possiamo rinunciare al patrimonio di questa città: l’abbandono più che decennale delle case ha già creato un rapido deterioramento che deve essere subito tamponato. Bisogna operare, attraverso un concorso nazionale, per una rapida “… sistemazione e conservazione dei Sassi.” Una “conservazione” nel nome del “loro valore storico, archeologico, artistico, paesistico e etnico […] Deve essere cioè esplicito che lo scopo della legge non è di svuotare progressivamente e totalmente i Sassi, ma, al contrario, di ripopolarli e renderli vivi per quanto possibile. […] i Sassi devono essere salvati non tanto e non solo come oggetto di museo, ma come realtà urbanistica vivente”(4)

In realtà la legge n. 126 del 28 febbraio 1967 non darà molto ascolto a Carlo Levi e ancora una volta la priorità verrà data alla costruzione di nuovi alloggi. Del verdetto del concorso (internazionale) si saprà qualcosa nel 1977, dopo la morte dello scrittore, avvenuta nel 1975.

2. Da Gobetti a Persico

Messo in questo modo pare che l’interesse per le sorti architettoniche di Matera sia maturato in Levi per ragioni strettamente autobiografiche: il confino nel 1934 in Lucania (ad Aliano), il primo impatto con la realtà e la arretratezza della cultura contadina meridionale, la scoperta di Matera… ma non è semplicemente così. Il binomio architettura-società (per la precisione arte-società) è presente in Levi sin dalla gioventù. Binomio desanctisiano maturato, insieme alla profonda cultura antifascista, nel particolare ambiente torinese dei primi anni Venti che vedeva al suo centro Pietro Gobetti e il settimanale La rivoluzione liberale che verrà poi soppresso dal regime nel 1925.
Si veda, per fare un esempio, la descrizione di Torino (ai tempi di Carlo Felice) che il giovane Levi fa in un articolo del 1924 che non è di semplice natura nostalgica ma è profondamente (gobettianamente) polemica nei confronti della borghesia torinese che ha accettato supina l’avvento mussoliniano. Il tutto è visualizzato proprio dalla conformazione urbanistica della città socialmente stratificata(4).

Sul versante architettonico un altro incontro fondamentale di quegli anni è per Levi quello con Edoardo Persico. Proprio grazie alla loro profonda, sincera e stimolante amicizia (“La nostra amicizia è stata fra le più pure, il suo attaccamento a me è stato commovente”), Levi pubblicò 5 articoli fra il 1932 e il 1934 su Casabella: due trattano di scenografie cinematografiche, uno di tappeti e gli ultimi due di architettura in senso stretto. Uno di essi è sul progetto di Lurçart di Scuole a Villejuif: un articolo cioè assolutamente immerso nelle polemiche sul razionalismo e sull’architettura moderna (6).
E di queste polemiche Levi era attento osservatore: in una lettera del 17 dicembre del 1934, indirizzata a Persico, Levi dichiara il suo entusiasmo sul suo saggio Punto ed a capo per l’architettura: “Debbo dirti che da molto tempo non leggevo un scritto così profondo e coraggioso e intelligente come il tuo; e che tutta questa tua polemica sull’architettura, per quello che vale e per quello che significa, è cosa di cui bisogna esserti grati.”(7)

La prematura morte di Persico stroncherà (momentaneamente) l’interesse da parte di Levi sulle questioni di architettura militante. La pittura, il confino, la guerra presero il sopravvento: gli anni della Resistenza lo trovano militante sul fronte fiorentino dove scriverà Cristo si è fermato ad Eboli.

3. Resistenza e rovine

Gli anni della Resistenza sono per Levi una chiave di volta, un punto di svolta unico e fondamentale per la crescita della cultura civile del nostro Paese. La rottura col passato si palesa fisicamente nelle nostre città deturpate dalla guerra: “Le città non sono più un dato, una eredità accettata naturalmente, ma un problema, che non è soltanto di ricostruzione, di architettura, di piani regolatori, ma il problema stesso dei rapporti umani, della vita sociale. Dietro l’apparente ritorno, c’è un problema della città, di cui appaiono l’ossa, la vita interna, il meccanismo. Esse si stendono sotto il sole come animali che mostrano, attraverso le ferite, le interiora aperte.”(8)

Lo sguardo alle città italiane umiliate dalla guerra è in questo saggio di Levi più tecnico; più vicino al periodo di Casabella. Levi chiede esplicitamente agli architetti di raccogliere la sfida lanciata dalle rovine urbane; per una ricostruzione architettonica finalmente democratica e moderna. C’è nella tragedia, per assurdo, un aspetto positivo che scaturisce dalle rovine urbane; la città si presenta a noi sotto un aspetto assolutamente nuovo: “spazi vuoti avvicinano cose lontanissime, fanno saltare secoli di storia”, la ricostruzione della nuova città implica la costruzione di “nuovi rapporti umani”(9); ora più che mai. Mentre prima della guerra il dibattito sulla città moderna assumeva toni tipici delle utopie rivoluzionarie “… è tuttavia singolare che, oggi che questi problemi sono tanto più urgenti, la polemica dell’architettura sembra abbia perso di tono e di interesse”. La guerra ha spezzato la fiducia illuministica per il futuro: “La tradizione è rotta […] è finito il progresso, la beata continuità dell’infanzia”(10).

A questa generazione di architetti Levi chiede un atto di coraggio, chiede di essere motore propulsivo della nuova civiltà che, rispettosa delle stratificazioni del passato, è conscia della rottura, della crisi avvenuta con la guerra. Gli architetti non devono aspettare indicazioni dalla società ma darne, attraverso tutti i mezzi possibili: “Un piano regolatore è insieme un’opera di critica storica, di previsione politica, di creazione sociale e di critica artistica. Partendo dai bisogni attuali e regolandoli, si pone un’ipoteca sull’avvenire.”(11)

Questo è il monito che sgorga proprio dalla contemplazione delle rovine della guerra. Analoghi sentimenti si ritrovano in Levi, un decennio oltre, di fronte alle rovine berlinesi: “… la grande chiesa fatta dall’imperatore per il culto privilegiato dei ricchi, è ridotta a una gigantesca rovina. Era, pare, una orrenda e pretensiosa architettura neogotica; ora, annerita, privata della sua pelle e della sua struttura, ha preso la rispettabilità drammatica del tempo, e si leva oscura nell’aria asciutta, frizzante, eccitante, che avvolge e fa viva la città e le sue rovine.”(12)

Le macerie di Berlino sono il simbolo di un popolo che si è autodistrutto. Il crollo non è una semplice punizione (nulla potrà restituirci i morti), è semmai un monito: sotto le macerie, se dimentichiamo, il male può ancora covare, non solo in Germania ma nell’intera Europa.

4. L’arte e gli italiani

L’esperienza della Resistenza è per Levi l’esperienza della solidarietà. Levi ha uno spirito positivo, fiducioso nel popolo italiano. E’ la stessa bellezza dell’Italia che fa del popolo che l’ha costruita un popolo straordinario. Il nesso preciso e palese fra la storia culturale e la storia civile del nostro Paese è chiarificato in un saggio scritto nel dicembre del 1954; saggio che risente della rilettura di De Sanctis ripubblicato proprio in quegli anni da Einaudi e Laterza.
In Italia l’arte è da sempre modello alla vita quotidiana. Se altri popoli vivono attorno ad un’idea dello stato, o ad una religione, od un dogma, o ad una particolare concezione del mondo, si direbbe che questo non accada in Italia, che a differenza trova la sua prima espressione, la sua origine, proprio nell’arte: “Qui non vi furono mai, per quanto si possa risalire nei tempi, e nella memoria storica, interruzioni di civiltà, ma continui mutamenti; come onde dello stesso mare si sono seguite le generazioni, e ognuna si è sovrapposta alla precedente senza cancellarla, costruendo, per successive stratificazioni, come una immensa armonica e colorata conchiglia; […] per gli italiani l’arte ha sempre avuto un valore esistenziale: nella loro esistenza di uomini vi è sempre stato un primato del momento estetico.”(13)

Ecco spiegato perché i Sassi non devono tramutarsi in un morto museo ma continuare ad essere una realtà urbana vitale. L’italiano vive contemporaneamente tutti i tempi del passato: “L’opera d’arte è motivo e origine di vita: si vive, spiritualmente, dentro le opere d’arte: ci si vive dentro anche materialmente. […] Le rovine non sono mai morte, neanche nelle acqueforti del Piranesi: rimangono come cose attuali, adoperate, vissute, come radici di antiche parole in una lingua moderna.”(14)

E’ questa la differenza con le altre nazioni. In Italia la rovina viene rimessa in gioco, riprogettata a nuove funzioni, come l’antico Teatro di Pompeo trasformato in ristorante che suscita l’entusiasmo di Sartre, ospite di Levi: “… per quanto gli adattamenti diano a quel locale un’aria finta, i resti autentici dell’opus reticolatum del muro a cui ci appoggiavamo mangiando, e i rocchi di colonne antiche che ornavano la sala, davano, allo scrittore che non vi era, come noi, abituato, l’emozione del senso fisico della presenza del tempo”(15).

5. Dov’era com’era

L’attualità della rovina sta, per Levi, nella sua autenticità materica e qualunque intervento nuovo non deve essere mimetico ma dichiaratamente moderno. Almeno così dovrebbe essere sempre, e la stessa militanza a Casabella di Levi non dovrebbe porci dubbi in merito. Ma non è sempre così. Ancora una volta è la guerra che fa la differenza in Levi.
Gli anni della Resistenza hanno reso cosciente il popolo italiano di quell’incredibile patrimonio da difendere, a costo della propria vita, che era la loro stessa patria. La guerra ha distrutto molto e molto di più avrebbe distrutto se non fossero intervenuti oscuri funzionari, popolani, intellettuali, operai che hanno fatto di tutto per difendere la realtà materica delle loro città storiche: “Si traversava l’Arno sulle macerie del ponte di S. Trinità; si guardavano per la prima volta case e palazzi e statue e monumenti come a fratelli in pericolo”(16)

Ora che la guerra è finita Levi è cosciente che nulla potrà restituirci i capolavori perduti: “Nessuno darà più agli uomini gli affreschi di Mantegna di Padova, e il chiostro di Santa Chiara di Napoli, o il cimitero di Pisa, o il centro di Firenze, e Montecassino, o le mirabili case antiche di Viterbo, di Treviso, di cento città”(17); eppure almeno in un caso lo sguardo pietoso di Levi chiede l’impossibile miracolo e nella più assoluta buona fede accetta l’ipotesi della falsificazione: “si deve alla burocrazia italiana se il ponte di S. Trinità, dopo dieci anni dalla sua distruzione, malgrado la volontà unanime dei fiorentini, e il parere dei tecnici e degli studiosi, e malgrado i denari versati generosamente dagli americani, non è ancora stato ricostruito, come fu deciso, com’era e dov’era”(18).

Il ponte diventa così una sorta di copia romana delle sculture elleniche dove, anche se di riflesso, ancora un po’ di luce si spera possa illuminare le coscienze degli italiani. Il ponte fu in effetti ricostruito ed il mostruoso miracolo compiuto. Da qui alle polemiche decennali sulla ricostruzione della Fenice o sulla ristrutturazione della Scala (per fare due degli infiniti possibili esempi) il passo è breve. Se gli atti di buona fede da parte dei non addetti ai lavori si possono anche comprendere, noi non possiamo tacere: il disegno di legge presentato da Levi nel 1966 sul risanamento dei Sassi di Matera parlava esplicitamente di “conservazione totale”(19) della realtà urbanistica dei Sassi.

Ormai sono passati quasi vent’anni dalla approvazione del primo programma biennale di Attuazione della legge 771/86. Molto si è fatto a Matera e poco se ne è parlato: anche in nome della fiducia che Levi riponeva verso il popolo italiano occorre di nuovo concentrare la nostra attenzione verso quella città per trarre le giuste somme. E’ lo stesso pensiero di Levi che ce lo chiede.

(1) C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945 (1985), Einaudi, Torino, pag. 75.
(2) C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, op. cit., pag. 77.
(3) C. Levi, I Sassi di Matera, “Lares”, aprile-giugno 1989, pag. 240.
(4) C. Levi, I Sassi di Matera, op. cit., pag. 241.
(5) C. Levi, I torinesi di Carlo Felice, “La rivoluzione liberale”, n° 17, 22 aprile 1924.
(6) C. Levi, Scuole a Villejuif, Casabella, anno VI, n° 11, novembre 1933.
(7) La citazione è contenuta in B. Zevi, Carlo Levi e l’architettura, in Editoriali di architettura, Einaudi, Torino, 1979, pagg. 323-326. Editoriale a cui rimando per una migliore interpretazione del pensiero di Levi in quel periodo.
(8) C. Levi, La città, in Dopo il Diluvio, (a cura di) D. Terra, Garzanti, Milano, 1947, pag. 16.
(9) C. Levi, La città, op. cit., pag. 17.
(10) C. Levi, La città, op. cit., pag. 18.
(11) C. Levi, La città, op. cit., pag. 21.
(12) C. Levi, La doppia notte dei tigli, Einaudi, Torino, 1959, pagg. 105.
(13) C. Levi, L’arte e gli italiani, in Coraggio dei miti, De Donato ed., Bari, 1975, pag. 76.
(14) C. Levi, L’arte e gli italiani, op. cit., pag. 76-77.
(15) C. Levi, L’arte e gli italiani, op. cit., pag. 77.
(16) C. Levi, L’arte e gli italiani, op. cit., pag. 81.
(17) C. Levi, L’arte e gli italiani, op. cit., pag. 78.
(18) C. Levi, L’arte e gli italiani, op. cit., pag. 82.
(19) C. Levi, I Sassi di Matera, op. cit., pag. 242.

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6 Commenti

  1. “E’ la stessa bellezza dell’Italia che fa del popolo che l’ha costruita un popolo straordinario.”
    Ci sono speranze, Gianni, che la fiducia di Levi non venga tradita (architettonicamente parlando s’intende)?

    Kanji.

  2. È un articolo straordinariamente interessante. Conosco un po’ la Lucania m’è capitato di sentir nominare Carlo Levi come se avesse scritto soltanto “Cristo si è fermato ad Eboli” e fosse ormai figura del passato legata ad un superato neorealismo. Alcuni lo ricordavano con ammirato rispetto ma come imbalsamato in una cultura datata da Italia degli anni Cinquanta, altri con infastidita sufficienza.

  3. caro Gianni,
    tu hai scritto un articolo quanto mai esauriente mettendo in evidenza la grande statura civile/ intellettuale di Carlo Levi.
    Da parecchio non se ne parlava.
    Aveva pure una bella faccia e degli occhi limpididissimi. Era persona gentile.
    Una volta gli ho stretto la mano timidamente, perchè con amici dovevo fare un lavoro per lui, qui a Torino.
    Aveva una toscanella tra le dita e fu il primo uomo che vidi che portava una spessa camicia a scacchi con su una cravatta coloratissima: mi sembrava strano.
    Mi piacque moltissimo.
    Tralasciando, ora, la sua opera narrativa, io lo ammiravo tanto come pittore e amavo specialmente i dipinti ariosi, leggeri che aveva fatto nel periodo precedente al confino, alla guerra.
    MarioB.

  4. Il sud è un luogo mentale. Un inferno. Un paradiso abitato da domeni (Nelson Moe). Un luogo dove fuggire, e tornarci in vacanza, per qualche giorni. Il sud è medesimo, perenne. Toùrovi ancora le orme di Giordano Bruno e Spartaco. Ed anche la munnezza degli anni’80.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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