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La macchina e i funzionari

di Carla Benedetti

(E’ il testo del mio intervento all’incontro di Torino La restaurazione” che si è svolto al salone del libro il 9 maggio. Potete leggere una cronaca dell’inconto, più o meno completa, sui siti di Alderano e di Lipperini c.b)

Questo incontro è per lanciare un allarme, non per dire che siamo spacciati. Quando si dice che zone della terra sono a rischio di desertificazione, non vuol dire che ci sia già il deserto.
Il cosiddetto mondo della cultura, quello “ufficiale” s’intende, sembra non rendersi conto della desertificazione crescente provocata in questi anni da certi meccanismi economici e di mercato che agiscono intrecciati alla macchina pubblicitaria e mediatica, e che stanno restringendo le possibilità di espressione, di pensiero e di circolazione della cultura, imponendo formati, operando selezioni (non naturali) di strutture e di forme, anche mentali, clonando ciò che è già stato collaudato in vista di profitti facili e senza sforzo, cancellando possibilità. E tutto questo in una maniera così pesante da far impallidire il vecchio concetto di “industria culturale” introdotto da Horkheimer e Adorno nel 1947.
Non sono meccanismi ineluttabili e nemmeno invincibili. Però se non li nomini non puoi combatterli.

Sono anni che sentiamo ripetere che non ci sono più scrittori o intellettuali in Italia (qui leggi le risposte di Scarpa, Moresco e mia). E’ venuto il momento di dire che ci sono, ma che sono attivamente repressi dalle forze della restaurazione.

“Restaurazione” è allora una parola che serve a nominare un campo di forze in conflitto, mentre molti sembrano far di tutto affinché questo scontro resti invisibile, e che quei meccanismi appaiano come una cosa normale, che fa parte del corso naturale delle cose.

Parlare di “restaurazione” è già in sé una dichiarazione di guerra. E infatti, vedi che tipo di reazioni ha suscitato. Se è uno scrittore a parlarne gli dicono che parla così perché è invidioso degli scrittori che vendono più di lui. Se è un critico gli dicono che parla così perché ha un’idea elitaria di cultura e disprezza ciò che piace alle masse. Oppure che non sa accettare serenamente il ruolo marginale che ormai la letteratura, la filosofia e l’arte hanno nel mondo…. Come se quello che sta succedendo fosse una necessità epocale, e non il prodotto di forze, che agiscono anche in modo da cancellare la possibilità di pensare alternative all’esistente.

Dove stanno i restauratori? Non solo nell’editoria e nella distribuzione, ma anche nei giornali, nelle televisioni, nelle università… e anche nella mente di chi scrive in forma di divieti introiettati.

Ma in qualunque luogo essi stiano sono dei funzionari. Questa è la loro caratteristica principale e trasversale. Sono individui in cui la logica del funzionariato prevale sulla logica specifica dell’attività che svolgono. Nel caso delle grandi concentrazioni la sostituzione di editori con funzionari è addirittura letterale. In altri avviene in modo più sottile, nella forma di vincoli che determinano scelte obbligate. Sono vincoli di profitto (per esempio il 15% di rendimento immediato, calcolato libro per libro, i cui effetti devastanti sono stati ben descritti da Shiffrin nel suo libro Editoria senza editori), vincoli di mercato, di audience… Vincoli che vengono gerarchicamente anteposti a quelli specifici dell’essere editore, dell’essere giornalista, dell’essere critico, scrittore, studioso ecc., fino quasi a sostituirli.

Vincoli resi ancora più tirannici dalla necessità di conservare la propria postazione, di restare a galla, di mantenere il posto di lavoro (sempre in pericolo). Sappiamo bene come la precarietà del lavoro sia diventata una tecnica di controllo sociale. Anche nel campo della cultura ci sono schiere di persone ricattabili (vedi una delle tante interviste di Aldo Nove)

Ma la cosa ancora più importante da notare è che le forze della restaurazione, con tutte le loro procedure selettive e di censura, nel loro insieme formano una macchina (o una megamacchina, nel senso in cui usava il termine Gunther Anders nel suo libro L’uomo è antiquato ). Inutile quindi ragionare solo per settori e per singoli fenomeni separati. Perché se non vedi la macchina nel suo insieme, rischi di non vedere nulla.

Se parli di editoria non parli di narrativa – diceva per esempio Ferruccio Parazzoli su “Liberazione” del 29 aprile, rispondendo alle domande di Jacopo Guerriero. E anche la distribuzione – aggiungeva – è “un problema autonomo” che con “l’editor c’entra marginalmente”. La sua massima preoccupazione sembrava quella di tener separati i problemi. Invece è solo se non separi che riesci a vedere ciò che sta succedendo.

E’ ovvio che l’editor non può condizionare le scelte dei distributori, per esempio di ciò che la catena Feltrinelli decide di mettere in mostra, però è vero che le scelte dei distributori possono condizionare l’editor, portandolo a pubblicare solo quei libri che, secondo il suo fiuto, hanno più chances di passare attraverso quei cancelli. E se lo fa, diventa anche lui un agente di uniformità.

La normalizzazione dei formati è attiva in tutti i gangli della macchina, perché ognuno è in rapporto con l’altro e in grado di condizionarlo.

Il campo della cultura è tutto attraversato da selezioni e procedure di questo tipo, che agiscono a livello capillare, in una serie di reazioni a catena che si vincolano a vicenda. Comprese le pagine culturali dei giornali e dei media, compresi i cosiddetti “critici”, anch’essi dipendenti dalla stessa macchina, ormai trasformati in mediatori o in “fantini del libro” (come li ha definiti Tiziano Scarpa giocando con l’etimologia di disc jokey, fantino del disco”). Non occorre pensare che il critico di un importante quotidiano venga pagato dagli editori per promuovere libri che sono solo dei cloni di esemplari americani di successo. Basta la sua dipendenza dal consenso del pubblico e da altri mediatori a tenerlo dentro alla corrente, a farlo sottostare a dei vincoli che sono altri rispetto alle ragioni della sua attività. Soprattutto vincoli introiettati.

Già gli italiani, antropologicamente, non sono molto coraggiosi, né troppo inclini a prendersi libertà individuali. Preferiscono stare nella corrente. Si credono meno liberi di ciò che potrebbero essere. Le soggezioni e le autocensure sono molto forti. E’ una nazione molto disciplinata. La macchina della restaurazione, che è anche una macchina disciplinante, e che agisce sugli individui anche attraverso autocensure, trova dunque qui terreno facile, forse più facile che altrove.

Anche tra gli scrittori, certo. Costretti dalla macchina a fare qualche rinuncia, a sradicrasi da se stessi e dalle necessità della propria scrittura.

Ma anche in altri campi è lo stesso. Dovunque si cerca di imporre agli individui una rinuncia volontaria al proprio peso, alla necessità della propria voce, si richiede loro di staccarsi dalla radice, di non essere quindi più in alcun modo “radicali“.

Ma questo è appunto un altro aspetto della restaurazione, effetto di meccanismi che stanno entrando violentemente nella vita, nel bios, nelle forme mentali e di espressione. Persino in rete si assiste alla rinuncia volontaria all’identità, e quindi alla forza politica della propria parola, attraverso l’uso dei nickname (rimando a un mio pezzo). A riprova di come certe forme di potere sull’individuo siano state massicciamente introiettate sotto l’apparenza ingannevole di una pratica liberatoria.

Quindi cosa si può fare? Moltissimo. Quando si diagnostica un’infezione è per tentare di curarla. L’importante è decidere da che parte si sta. Perché non ci sono solo altre strade da percorrere, ma addirittura autostrade lasciate vuote per chi avesse voglia di puntare su qualcos’altro.

Ci sono nell’aria, mi pare, inquietudini e vibrazioni che debordano da tutte le parti rispetto ai formati impoveriti delle colture industriali del libro. Libri capaci anche di parlare a un vasto pubblico, in barba a tutti coloro che pensano che fuori dai romanzi clonati ci siano solo i noiosi sperimentalismi culturalisti da chiudere a pagina 3. Non è vero. Anche questa è un’idea-trappola con cui si cerca di chiudere il mercato del libro attorno a quei due o tre formati collaudati da cui di ricavare il massimo profitto con la minima energia. Invece i libri più vivi sono anche quelli che affascinano di più. Aspettano solo di arrivarci, fino al pubblico, se appena qualcuno in tutta la catena, non solo tra gli editori e i distributori, ma anche tra i critici e i giornalisti culturali, avesse appena un po’ più di coraggio…

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137 Commenti

  1. Quelli che fino a ieri erano ultrà berlusconiani e adesso si preparano al salto della quaglia e al riciclaggio. Tutto un abbandonare la nave, un imbellettarsi per piacere a sinistra. Giorgino che prende le distanze da Mimun, Sgarbi che passa col centrosinistra, la De Rosa… Massimiliano “Domenicale” Parente che scrive su Nazione Indiana e va ai loro convegni come relatore… E quelli lo assecondano. Ancora un po’, e Berlusconi nessuno ammetterà mai di averlo votato, sostenuto, omaggiato, venerato. Nessuno è mai stato berlusconiano. Questi mi fanno più schifo di Berlusconi. Questi, e chi li appoggia.

  2. Da l’Unità del 15 Maggio 2005

    Poveretto, come s’offre
    di Marco Travaglio

    Più che una notizia, sembra una barzelletta: Vittorio Sgarbi entra nel centrosinistra per fare il sottosegretario nell’eventuale governo Prodi. L’ha annunciato lui stesso (Sgarbi, non Prodi) al Corriere: “Con Prodi ci siamo parlati, mi ha detto che è d’accordo”. Sia chiaro che noi, all’ennesimo trasloco del pacato ed equilibrato critico d’arte, non crediamo. Ma qui non si può fare una battuta che subito qualcuno la prende per un suggerimento. E allora, nella malaugurata eventualità, ecco un breve promemoria. Vita e opere del Gondrand della politica italiana.
    Agli albori della carriera, fine anni 80, il giovane Sgarbi flirta con il Pci di Pesaro. Poi s’intruppa come indipendente nelle liste del Psi, per fare il sindaco a San Severino Marche. Alla fine riesce persino a guidare un monocolore Dc. Poi nel ’90 entra in Parlamento, nelle liste del Pli. Dura un paio d’anni, poi arriva Mani Pulite e crolla tutto. Con agile guizzo, Vittorio Zelig tenta l’aggancio con Bossi, agevolato dal celebre “Forza Etna” urlato per invocare la distruzione degli antiestetici paesini sulle pendici del vulcano. Memorabile il suo colloquio col Senatur, in un camerino della Fininvest: “Grandissimo Umberto, sei l’unico che porta avanti le idee liberali, che dice cose sensate”. Ma Bossi non apprezza e si lascia sfuggire il Genio ferrarese. Che nel frattempo è sgattaiolato alla corte del Cavaliere, come misurato opinionista televisivo e candidato alla Camera per Forza Italia. Bossi, da grandissimo liberale, diventa “scemo”, “tordo tonto”, “ladro” e “razzista”.
    Dell’inossidabile coerenza sgarbiana fa le spese anche Berlusconi: appena eletto grazie a Forza Italia, Vittorio Gondrand lascia il partito e s’iscrive al gruppo misto. Ma continua a difendere i martiri della malagiustizia (Andreotti, Craxi, De Lorenzo, Berlusconi, Previti, Dell’Utri…) e a insultare i magistrati. Famoso un suo comizio a Palmi: “Ripetete con me: affanculo il procuratore Cordova!”. Dal pulpito armato di “Sgarbi quotidiani”, vomita improperi contro il pool di Milano (“Assassini!”) e di Palermo. Per lui il “vero mafioso” è Gian Carlo Caselli, “una vergogna della magistratura italiana, un colonnello greco, un fascista…I suoi atti giudiziari hanno portato alla morte” (8-12-94).
    Bastona chiunque si metta di traverso sulla strada del Cavaliere. Il presidente della Repubblica Scalfaro è “una scoreggia fritta”. Indro Montanelli “è un vigliacco, uno che ha tradito, fascista, razzista, antisemita. Sempre fascistissimo, nero come la pece! Un modesto giornalista, il più mediocre storico italiano. Adesso, fascista ancora, è guardato con tenerezza e ammirazione dalla sinistra che gli si è attaccata solo perché traditore… È il solito vecchio fascista che, nella sua turpe vecchiaia, sputa con impudicizia nel piatto in cui ha mangiato” (31-3 e 29-7-94).
    Il 7 aprile ’95, sempre a “Sgarbi quotidiani”, addita Caselli come il mandante morale dell’omicidio di don Pino Puglisi. La prova? Una lettera anonima che lui legge integralmente, senza neppure precisare che è anonima: anzi, dice con fare circospetto che non può rivelarne l’autore. Nel dicembre ’95 fonda il Partito Federalista con Gianfranco Miglio, poi non se ne sa più nulla. Nel febbraio ’96 partorisce la Lista Pannella-Sgarbi, cui aderiscono subito statisti del calibro di Idriss e Don Backy, e annuncia il divorzio da Forza Italia. Poi divorzia da Pannella e rientra precipitosamente in Forza Italia per trovare un posto sicuro in lista e in Parlamento. Lì rimane, fra alterne vicende, fino a due anni fa, quando compare a “Otto e mezzo” per annunciare che il ministro dei Beni Culturali, l’odiato Giuliano Urbani, avrebbe un’amante e per descriverne minuziosamente le prestazioni. Lo cacciano da sottosegretario e l’impresa traslochi Sgarbi & C. riapre i battenti. Fonda con Giorgio La Malfa il Partito della Bellezza, subito abortito per mancanza di belli. Allora abborda il bel Mastella, che ha appena imbarcato Pomicino, ma non se ne fa nulla. Ora, dice,”ho deciso di puntare sulla Sbarbati”. Repubblicani europei (Fed). Avendo una condanna definitiva per falso e truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato (in due anni di “lavoro” alla Sovrintendenza di Venezia si presentò in ufficio due giorni, risultato: 6 mesi e 10 giorni di reclusione) e qualche centinaio di processi per i suoi insulti a destra e a sinistra, ha un problema piuttosto impellente: conservare l’immunità parlamentare. Il solito idealista.

  3. Fino al giorno del convegno, o meglio fino al momento in cui hai letto il tuo intervento, io non ero completamente d’accordo con le tue tesi. Mi parevano viziate da un eccesso di pessimismo
    e di toni apocalittici (vedi la scelta lessicale di “genocidio”), dietro al quale si suggeriva implicitamente la presenza di una sorta di cabina di regia, o di grande vecchio, di un potere politico-editoriale, insomma, che faceva di tutto per boicottare la letteratura radicale promuovendo invece una cultura di massa costituita da prodotti consolatori e rassicuranti. Sarà che non conosco
    bene l’ambiente editoriale, e sarà pure che non amo le conspiracy theories, ma ero portato a credere che questa situazione, che così bene descrivi, fosse unicamente dovuta a mere logiche
    di mercato, piuttosto che a precisi indirizzi di politica culturale. L’effetto di asservimento delle masse, cioè il fatto che una persona priva di abitudini di lettura (giornali e libri) operi delle scelte con minor libertà ed autocoscienza, e quindi sia più condizionabile (dalla pubblicità o dalla televisione), è lo stesso in entrambi i casi; è solo che io non scorgevo alcun disegno in questo senso, mentre tu sì. Forse questo dipendeva dal fatto che nel mio lavoro (l’antiquariato), quella del restauratore è quasi sempre una figura nobilissima e specchiata, non certo il losco figuro che tratteggiate tu e Moresco. Ad ogni modo c’è stato un passo del tuo discorso, che qui hai ribadito, che ha messo un po’ in crisi il mio ottimismo, e cioè quando hai fatto il parallelo col lavoro precario e interinale, affermando che non nasce e si diffonde esclusivamente per ragioni economiche (il risparmio sui contributi per il datore di lavoro), ma anche e soprattutto come forma di “controllo sociale”. Questo non può essere un aspetto marginale del fenomeno, perchè chi è alle dipendenze con quel tipo di contratto è sicuramente più “ricattabile”, come dici tu, rispetto alle forme di assunzione tradizionale, tutelate dai sindacati e da una legislazione del lavoro più garantista.

    C’è, per esempio, chi ha parlato di flop, o di fallimento, a proposito del convegno sulla restaurazione, e questo perché è stato interrotto prima del dovuto, cioè prima che si sviluppasse una discussione sul tema, con la seconda tornata degli interventi, che avrebbero per forza di cose replicato ai precedenti, e con l’intervento del pubblico, che mi sembrava numeroso e competente. Non è stata questa una conferma della “repressione degli intellettuali”
    (quelli meno allineati)? Non è stato questo un modo repressivo e violento di trattare un evento del genere, negando la parola dopo averla accordata (e fra l’altro per cederla alle solite 4 chiacchiere col politico di turno)?
    Altro esempio illuminante: mi è stato detto che le ragioni per cui una testata ingessata e tradizionalista come il Corriere della Sera (anziché per es. Repubblica, che mi sarei aspettato più attenta al fenomeno della letteratura in rete) abbia ripreso la polemica sulla restaurazione e la monocultura dei bestseller, partita da qui e da L’Espresso grazie ai tuoi interventi, erano dovute unicamente al fatto che le direttive impartite dal nuovo vicedirettore (P.G. Battista)in materia di cultura erano “polemiche e scandali”, per cui lo scontro fa sì audience ma viene depotenziato, ridotto a caricatura, e in ultima analisi reso innocuo.

    E poi c’è la questione dell’autocensura, dei “divieti introiettati”, e anche in questo senso mi pare sia difficile contraddirti. Forse il parallelo più chiaro potrebbe essere quello dei telegiornalisti che taroccano le notizie a favore del governo, quasi sempre senza aver avuto precise direttive in questo senso (la tardiva e sospetta denuncia di Giorgino su Mimun di questi giorni). Questo spiegherebbe perché gli editor si adeguino a un certo tipo di letteratura di evasione promuovendo solo quel genere di libri e ostacolando invece la diffusione di opere più radicali. Ora, io non so se il pubblico dei lettori italiani, che secondo le ultime statistiche è il più miserabile d’Europa, sia maturo per certi libri, sta di fatto che se non glieli propongono nemmeno questa maturità resterà sempre una chimera. E’ un diallele insomma,
    un cane che si morde la coda, e dentro questo meccanismo ci stanno tutti: funzionari editoriali, editor, critici, distributori, librai etc. Se a tutto questo aggiungi poi che, antropologicamente, l’italiano non è mai stato un “hombre vertical”, secondo la definizione di Ortega y Gasset, cioè uno con la schiena dritta, hai allora l’esatta percezione della gravità del fenomeno.

    L’unica cosa su cui mi sento di dissentire è la questione dei nickname, che non mi pare c’entri molto, e la cui diffusione credo sia dovuta a motivi molto più futili (l’anonimato consente tante cose: l’impunità per l’insulto gratuito, il fingersi sostenitori di se stessi etc.)

  4. Ripropongo un contributo già inviato a Lipperatura:

    “Ricordo che anni fa, quando ancora *mi pregiavo* di frequentare la Fiera, a una presentazione dei Corti (EL) o Shorts (Mondadori Ragazzi), la magica Orietta Fatucci disse: “Sono l’editore, ovvero colei che COMMISSIONA ai propri autori i libri che di volta in volta le servono per le proprie collane”. Io, per fortuna, ero già stato estromesso (per indisciplina) dalla EL/Emme/Einaudi Ragazzi come autore, ma quella definizione di editore mi lasciò interdetto. La segnalo perché mi sembra ancora esplosiva e chiarificatrice dopo TANTO CONVEGNO:-)»

    Detto ciò, aggiungo che trovo stringato e calzante l’intevento della Benedetti, benché, allargando il campo e considerando la situazione ***mondiale***, vi SAREBBERO BEN ALTRE e PIU’ SPAVENTOSE MACCHINE da evidenziare, con particolare riferimento a quelle che attaccano e maciullano direttamente i bisogni PRIMARI (bere, mangiare, respirare), anziché limitarsi a condizionare la produzione delle opere con cui soddisfare il cosiddetto bisogno di affabulazione.

    Tu chiamalo, se vuoi, BENALTRISMO…

  5. Mi piace molto il finale del pezzo. Posto che mi trovo in uno stato di confusione, lo stesso in cui a mio modo di intendere e di volere (per ora…) versano gli stessi “operatori del settore”(dai funzionari editoriali ai critici agli stessi scrittori), è importante rimarcare più e più volte quello che Carla Benedetti ha sottolineato nel suo finale: spesso manca il coraggio, e da parte di tutta la “catena alimentare” del libro. Tenendo presente che l’editoria è un industria con le tipiche regole dell’industria: ma, essendo un’industria assolutamente atipica, si presta come nessun altra a variazioni, a esperimenti, a prove di coraggio imprenditoriale – e non solo. Anche il coraggio puo’ “pagare”, diciamolo. E non solo in termini di qualità dell’offerta, ma anche di risultati in termini di guadagno. Io di questo – nonostante la confusione- sono convinto, dacché sono anche convinto che il pubblico va stimolato adeguatamente, e in base ai giusti stimoli puo’ rispondere, appunto, positivamente. Ma in Italia si tende, un po’ in tutti i settori, a cercare di ottenere il massimo ( o medio) risultato col minimo sforzo. Tutto questo ci sta portando, meritatamente, allo sfascio.

  6. .. mi trovo costretto ad essere supremamente banale: se accettiamo – anche solo in parte – la tesi della Benedetti (in particolare quando riflette sulla origine “antropologica” di molti comportamenti restauratori e disciplinati degli italiani) allora mi sembra che se ci si ragiona fino in fondo, radicalmente, c’è una sola, UNA SOLA, possibilità, UN SOLO possibile campo di intervento: la scuola.
    Se è davvero così drammatica la condizione dell’industria culturale l’unica maniera per immaginare una produzione letteraria differente e dal successo e dalle ricadute culturali differenti è aumentare vertiginosamente nel giro di due generazioni il grado di facilità e gusto per la lettura degli italiani – che ricordiamo leggono i giornali circa sette volte meno dei tedeschi, per dirne una, e che non hanno aumentato l’abitudine alla lettura dal 1955 (dati forniti dall’Aie insieme all’Istat).
    Ma questo, secondo me, significa anche che l’editoria di progetto, che un blog letterario come N.I. possono avere il merito di averlo intuito questo problema, ma non sarà risolto da loro. MAI. Dunque, perché continuare a puntare il dito contro l’editoria e la critica militante..?.. tutto sommato, fanno esattamente quello che gli viene chiesto: interpretano una società, rispecchiandone le esigenze e le peculiarità, immaginando e producendo oggetti che possano incontrare il suo favore. Oggi.
    Per il domani…

  7. A mio modo di vedere MarcoV. centra il problema in due parole.
    La letteratura( in buona parte) non è che lo specchio di una realtà di cui il clima è discretamente mefitico da molto anni per di più molti intellettuali italiani si adattano parecchio(vecchia malattia) anzi si iperdattano e perdendo di vista gli obiettivi di valore e ricerca si attardano, si perdono spesso in repellenti polemiche che alla fin fine sembrano palcoscenici in cui si vuole soltanto che emerga il proprio nome in caratteri luminosi, magari numinosi.

    A meno che non si usi il nick, che io detesto, che più che maschera è spessissimo copertura infantile a spetazzamenti e virulenze.

  8. C’è qualcosa che non gira: l’industria culturale asseconda un gusto generico, non ben identificato, ma dovrebbe essere più attiva nella formazione di un gusto più variegato. E’ qui che s’innesta il discorso sul coraggio. Caro Marco, non possiamo attendere un paio di generazioni. Per mia esperienza personale, quando a scuola ci andavo anch’io – e cioè vent’anni- fa gli stimoli a una lettura attiva erano veramente risibili. Non c’è mancanza di proposte di grande valore, l’industria sforna i suoi “panini pensanti” a getto continuo. Ma vi siete accorti che spesso si privilegia proporre lo straniero a scapito dell’italiano? Perchè lo straniero è già stato “testato” in mercati editoriali molto più accoglienti (penso soprattutto a quelli dei paesi anglosassoni). E se loro, gli stranieri vincitori, sono internazionali perchè partono da risultati importanti ottenuti “in casa”, anche i nostri “prodotti editoriali” potrebero essere internazionali, allo stesso modo. Ma se non vengono valorizzati qui da noi, come possiamo sperare in un’esportazione degli stessi? In conclusione, l’industria culturale italiana (così mi pare di capire al momento) è vittima di un’esterofilia anche comoda, quando potrebbe invertire la rotta dando più risalto al “prodotto italiano”. E’ mai possibile che, oggi come oggi, il nostro Paese debba essere sempre citato ed elogiato all’estero soprattutto per le auto di lusso, il metodo champenois dei suoi vini, il Parmigiano Reggiano? Eccheccazzo!Dove la mettiamo la nostra arte, la nostra immensa tradizione culturale e artistica? Manca un po’ d’orgoglio nazionale? Direi proprio di si. L’arte italiana, ancora oggi, non ha nulla da invidiare a quella di altri paesi, anzi. I francesi potrebbero insegnarci, nel senso di una difesa diciamo così protezionistica, molte cose: da una coraggiosa ed orgogliosa difesa, il passaggio a una coraggiosa proposta è a mio avviso concettualmente breve.

  9. Carla Benedetti:

    “Persino in rete si assiste alla rinuncia volontaria all’identità, e quindi alla forza politica della propria parola, attraverso l’uso dei nickname”

    Sergio Garufi:

    “L’unica cosa su cui mi sento di dissentire è la questione dei nickname, che non mi pare c’entri molto, e la cui diffusione credo sia dovuta a motivi molto più futili (l’anonimato consente tante cose: l’impunità per l’insulto gratuito, il fingersi sostenitori di se stessi etc.)”

    Concordo in pieno con la Benedetti.

    Sembra paradossale quello che sto per dire, ma gran parte del discorso sulla cultura, e sul nostro benedetto o maledetto Paese, passa dai nickname, che sono la spia lampante della nostra condizione di subalternità.

    Come si fa a cambiare le cose, che richiedono specialmente un gran coraggio e di esporsi in prima persona, se c’è chi ancora fa sentire la sua voce attraverso un nickname?

    Mi fa piacere vedere che i commenti, questa volta, salvo per il momento uno, portano tutti, così spero, la vera identità dello scrivente.

    Queste cose l’ho dette anch’io tempo fa, altrove.

    Ora le ripete (mi pare di averglielo sentito dire un’altra volta) la ben più autorevole Benedetti. Speriamo che finalmente si cambi registro!

    Il concetto è questo: di ciò che si scrive, occorre abituarsi ad essere responsabili, con tanto di nome e cognome.

    Bart

  10. Ecco fatto, mi firmo con nome e cognome. Ma chi ti garantisce che siano reali? Dobbiamo aggiungere anche indirizzo e numero di telefono?

  11. Vorrei commentare l’ultimo commento, per ora ancora con il mio nickname e dire perché ho deciso di adottarlo, infatti non sono del tutto d’accordo con chi mi precede.
    Due considerazioni:
    1) questo sito, mi pare, e se mi sbaglio cade quello che sto per dire, ha accettato i nickname fin dall’inizio. Dunque è teoricamente e praticamente possibile che carla bendetti o altri intervengano sia come tali che con un nick name. Questa mera possibilità, anche se non praticata, toglie forza all’invito a rivelarsi.
    2) perché qui ci sono tanti anonimi? Un’ipotesi è che qualcuno, e io sono fra questi, senta odore di potere, in realtà “potere” è una parola grossolana in questo caso, ma spero che capiate cosa intendo. Basta l’odore del potere, o di una qualche supremazia, a volte, per mettere addosso una certa voglia di sbeffeggiarlo, e la beffa al potere è in maschera, soprattutto quando non è un potere materiale, che magari fa venir voglia di contestarlo diversamente. Io non intendo accusare N.I. di volerlo praticare, ma di fatto ha dato a molti quest’impressione. Inoltre, – forse perché la scrittura e la lettura in rete sono meno meditate – sembra che alcune persone si arroghino un’autorità morale, una maggiore decenza politica rispetto ad altri, una giustificazione più forte a dire le cose.
    3) obbligate tutti a rivelarsi, vale infatti secondo me quel detto che intima: o tutti o nessuno.
    Dunque il difetto sta nel manico, ciao a tutti

  12. > Già gli italiani, antropologicamente, non sono molto coraggiosi, né troppo inclini a prendersi libertà individuali. Preferiscono stare nella corrente. Si credono meno liberi di ciò che potrebbero essere. Le soggezioni e le autocensure sono molto forti. E’ una nazione molto disciplinata.

    Il discorso di Carla Benedetti è abbastanza carino ma probabilmente affronta delle complessità superiori alle sue forze: mi sembra infatti che le sue “isole” di competenza iper-specialistica siano per lo più circondate da un “tessuto connettivo” di qualità più scadente, come testimonia l’incredibile paragrafo che ho riportato, degno delle barzellette in cui c’è un italiano, un tedesco, un francese eccetera. Ma dovendo tradursi in “azione”, al posto di una complessità che potrebbe diventare paralizzante, è ben necessario che la faccenda venga semplificata in termini moraleggianti, che sono da sempre i più “accessibili”, attraverso un’inverosimile “narrativa” che vedrebbe un gruppuscolo di “risvegliati” (coloro che sono in qualche modo riusciti ad affrancarsi dai “divieti introiettati”, e sono quindi evasi dal funzionariato) agire disinteressatamente, cioè esclusivamente rapporto alle determinanti artistiche del proprio campo (pensato di volta in volta come del tutto autonomo oppure strettamente connesso alla realtà sociale – senza contraddizione logica: semplicemente separando i diversi momenti dell’opportunità) in favore di masse deficienti, ed in contrasto all’azione di certi “risvegliati male” che hanno evidentemente optato per il “lato oscuro della forza”. In altre parole, la sua rappresentazione del campo antropologico non mi appare né completa né equilibrata, anche se ben decodificabile da una logica di smarcamenti tattici entro un campo intellettuale periferico.

  13. A Siddartha eccetera.

    Mi pare chiaro che quando dico nome e cognome, intendo quelli veri. Puoi scrivere anche Luigi Rossi o Mario Bianchi, purché siano veri. Se no, sempre di nickname si tratta. L’indirizzo o il numero di telefono… beh, non ci siamo capiti, mi pare

    A temperanza.

    L’uso del proprio nome è il solo modo di essere veramente credibili in ciò che si dice. Firmare le proprie convinzioni significa riuscire in qualche modo a dare loro una certa autorità, un certo potere.

    Il nickname, per quanto sincere e convinte siano le espressioni di chi se ne serve, racchiude in sé una debolezza, una paura, un gesto che somiglia sempre a quello di colui che tira il sasso e nasconde la mano, o a colui che grida: Armiamoci e partite.

    Si può scrivere, qualche volta, delle stupidaggini (a chi non è mai accaduto?), di cui magari ci si pente subito dopo aver postato. Ciò giustifica la prudenza che si nasconde spesso sotto l’uso del nickname? Credo di no.
    Anche nel dire le stupidaggini si deve sempre esercitare il nostro dovere alla responsabilità.

    Nessuno va in galera o si compromette la reputazione, se qualche volta dice delle corbellerie.
    (Qualcuno potrebbe irridermi, dicendo che ne sto abusando io :-)).

    Ne faccio una questione di civiltà, di maturità, di crescita.

    Il fatto, magari, che anche in altri Paesi se ne faccia uso (non lo so)non modifica le cose. Potremmo essere noi a dare l’esempio, no?

    A proposito dell’intervista sul Times ai Wu Ming si è detto che noi abbiamo la mania di parlare solo di scrittori stranieri, ignorando quelli che abbiamo in casa.

    Bene, perché non parlarne davvero e aiutarli a farsi conoscere?

    Con le mie poche forze io lo sto facendo, aiutato da un piccolo editore sconosciuto quanto me, e coraggioso più di me, Marco Valerio. Chi va nel mio sito, (www.bartolomeodimonaco.it) e nella Home clicca su LE MIE LETTURE, vede il lavoro che vado facendo e i libri che sono usciti al riguardo. Nel 2006 ne uscirà un altro dello stesso tipo.

    Addirittura vado riesumando ottimi scrittori finiti nel dimenticaio, solo perché oggi la moda è cambiata e non si guarda più al valore intrinseco dell’opera.

    Questo lo dico, non per vantarmi, ma perché alle parole bisogna sempre far seguire i fatti, e firmarli con il proprio nome e cognone. Quelli veri!

    Bart

  14. Per me più che la “semplicità”, la cosa davvero curiosa nel discorso di benedetti, vista la chiamata alle armi e l’impostazione etica che vuole dargli, è che parli così poco, se non en passant, di università, un nodo marcissimo della società italiana, con criteri di selezione in cui la cooptazione, di per sé cosa neutra, sfiora la pratica mafiosa, molto più che nell’editoria, dove se non altro il discorso, nella sua brutale economicità, è più chiaro. Eppure l’università è parte della grande macchina della formazione, momento cruciale per il futuro di questo paese, e non credo che lei sia un’assegnista di ricerca, sarà come minimo un’associata.

  15. Se qualcuno dei Titolari mi supplica:-) espressamente di inviarla per Nazione Indiana, avrei una bella sintesi di un dibattito svoltosi in icl sul tema dei nick e del loro perché. Si intitola ‘Simona Vinci è uscita dal niusgruppo’.

  16. Il nickname presenta degli ovvi vantaggi, ai quali uno rinuncerà soltanto in vista di adeguate contropartite. Per esempio quando, intravedendo la possibilità di impegnarsi in un dialogo serio in un ambiente ricettivo e neutrale, riterrà di poter andare a produrre degli interventi che, complessivamente, possono formare una “connotazione” immaginata come positiva (da un punto di vista personale e/o sociale) e che quindi vorrà vedere “convogliata” (capitalizzata) sul proprio nome. Dipenderà dunque tanto dalle intenzioni e strategie del soggetto quanto dalla percezione del contesto d’interazione. Per esempio, se in un posto principalmente si cazzeggia, quale “claque” (ancorché plebea e magari riottosa ma con tutta evidenza prescindibile) al discorso dei cosiddetti “autori autorizzati”, sarà abbastanza futile andare ad impegnarci la cosiddetta “immagine”. In fondo, alla nostra presunta razionalità si accompagna pur sempre una caterva di residui arcaici: penso sia difficile rimanere davvero impassibili alle offese portate al nostro “nome vero”. Appurata questa sopravvivenza di “pensiero magico”, conviene ricorrere ad un nickname, che uno potrebbe comunque rivendicare “in toto” alla fine dei giochi.
    L’uso retorico della questione da parte di Carla Benedetti, rivela secondo me una concezione di Internet quale risorsa di “pubblico aggiuntivo”, e non di potenziali interlocutori. Come per il pubblico “tout court”, passivamente rappresentato da ambigui “mediatori”, oppure brutalmente soppesato attraverso applausi, acquisti o l’auditel, se ne dà per scontata la “buona volontà culturale” – ovvero una disarmata docilità alle violenze simboliche – elemento questo che unisce le diverse frazioni dei ceti dominanti (seppure tra di loro ferocemente rivali) in una sostanziale solidarietà. Ma forse tutto ciò è davvero inevitabile. “La stessa collusione inconfessata regola i rapporti dei seduttori con le loro vittime e degli impostori deliranti con la folla istupidita; ne consegue l’opportunismo dei bricconi: la grossolana mistificazione si ordisce, vi insisto, in connivenza più o meno dichiarata con le vittime che, nella misura in cui consentono all’impostura, hanno ben meritato il loro imbroglio. Ingannatori ed ingannati sono in combutta. Tutti mentitori, falsari e buffoni. Sono tutti degni gli uni degli altri.”

  17. cara temperanza,
    mi domandi come mai non parlo molto dell’università. A parte che non si può parlare di tutto nello stesso tempo, a parte che ne ho parlato in altri luoghi (per esempio in saggio intitolato “I virus del potere non ci arrivano per posta”, nel volume “Patrie impure”, a cura di B. Centovalli, Rizzoli, 2004), a parte che sono stata denunciata per diffamazione dal prof. Walter Pedullà, mio collega universitario, a parte tutto questo, ti faccio notare che io mi firmo col mio nome, ed è solo per questo che tu puoi andare a verificare la coerenza del mio comportamento in un altrove rispetto a questo mio scritto.
    Se mi firmassi Giustizia non mi potresti venire a dire queste cose. E’ chiaro?
    Non così di te, che ti mascheri dietro una delle quattro virtù teologali, ma potresti essere benissimo il guardaspalle del suddetto. Ecco a cosa possono anche servire i nomignoli di copertura. Dico “anche”, perché è chiaro che l’anonimato può essere in certi casi anche un’arma. Ma non quando si discute di editoria, mi pare, o di cultura, o di politica ecc.
    Lo dice ancora meglio Bartolomeo di Monaco: “i nickname sono la spia lampante della nostra condizione di subalternità. Come si fa a cambiare le cose, che richiedono specialmente un gran coraggio e di esporsi in prima persona, se c’è chi ancora fa sentire la sua voce attraverso un nickname?”
    Lo dico anche per rispondere a Sergio Garufi. Comunque grazie, Sergio, di tutti i commenti illuminanti da “restauratore”. Sì, è un peccato che l’incontro sia stato interrotto e non abbiano potuto intervenire tutti, e anche i non previsti. Pensavamo di avere due ore, e invece abbiamo potuto utilizzre la sala solo per un ora e dieci, è un vero peccato!
    Quanto ai giornali che riducono a caricatura le discussioni trasfromandole in “polemiche” non è da ora, e io ne so qualcosa per averne già fatto le spese, già al tempo del mio libro “Pasolini contro Calvino”.
    Franz, mi piace l’immagine della “catena alimentare” e anche i “panini pensanti” , quasi tutti stranieri..!

  18. Un discorso che abbia bisogno di verificare la “coerenza di comportamenti” da parte degli interlocutori è ovviamente un discorso “sui generis”, che non si basa sul confronto diretto tra idee esprimibili (ritenuto probabilmente impossibile in ragione delle distanze culturali o del livello di impegno richiesto) ma il consueto ed innocuo pseudo-confronto basato sul malinteso, sui cerimoniali di esibizione e soppesamento dei titoli di legittimità, culturale o morale che sia. Per me una “coerenza di comportamenti” da parte di Carla Benedetti sarebbe un optional del tutto inessenziale: se per sopravvivere dovesse un poco “trasgredire” direi “pazienza!”.
    Io non escludo neppure che i suoi libri contengano una formulazione delle sue tesi assai più forte e convincente di quanto visto qui (ma io li leggerò soltanto quando ad essi “punterà” qualcuno degli autori che considero essenziali e nei quali ripongo la mia fiducia – si tratta di un semplice criterio euristico in un regime di scarsità di risorse). Quello che critico è soltanto ciò che leggo qui, che mi convince sempre meno.

    “Il malinteso non è semplicemente la truffa: stabilisce tra gli uomini un certo ordine provvisorio che, pur non rimpiazzando l’intesa trasparente e senza secondi fini, vale tuttavia più della discordia aperta. Male reso necessario dalla stupidità e cattiveria degli uomini, si può dire che consiste nell’intesa discordante o nel disaccordo accordato, mantenuto ad ogni costo in equilibrio fino al giorno del capitombolo. Il malinteso intreccia tra quei cannibali che noi siamo una specie di “modus vivendi”, e tutto un cerimoniale convenzionale di legami immaginari, di falsi screzi e di pseudo-riconciliazioni. Non è quindi sufficiente dire che il malinteso ha una funzione sociale, dato che è la socievolezza stessa; colma lo spazio tra gli individui con l’ovatta e il piumino delle menzogne ammortizzanti, trasforma il barbaro e spigoloso predatore in un falsario civilizzato; i frodatori infatti non si sopporterebbero se dovessero approfondire la loro condizione, e la franchezza totale, la diafana lealtà, avrebbero ben presto come conseguenza di trasformare il loro ordine in una giungla frenetica.” V.Jankelevitch

  19. cara Carla benedetti, grazie di avermi risposto. Mi dispiace che non ci si possa guardare in faccia, a queste righe dei commenti, così “parlate”, manca il corpo che nella comunicazione aiuta.
    Due cose, non era un attacco alla tua persona, era una considerazione sul metodo, o anche se vuoi un attacco al metodo. Il punto vero qui, e vedo che altri lo hanno notato, è la scuola. E’ vero che non si può parlare di tutto, ma il punto cruciale non è questo delta in cui tutto va a finire, ma la sorgente del fiume e il suo corso.
    Seconda cosa, tu hai a mio avviso contemporaneamente ragione e torto, perché è vero che io qui mi chiamo temperanza e tu carla benedetti, ma è anche vero che per come questo sito si è configurato, teoricamente potresti essere carla benedetti e temperanza. La mera possibilità che tu possa essere al tempo stesso sia carla benedetti che temperanza, rende di fatto debolissima la richiesta di non usare un nick. E’ questo che non funziona. Stavo per usare il mio vero nome, quando ho aggiunto il commento sull’università, perché è scocciante giocare questo gioco troppo a lungo, ma poi non lo ho fatto anche per una questione di puntiglio, non oso dire di principio. Tu posti e commenti, io commento, sono uomo/donna massa. E’ questo che vorrei sottolineare. Tu sei un professore universitario, molti qui potrebbero essere dei precari molti deboli economicamente e socialmente. Non ti accuso certo perché lo sei, né voglio dire che tu useresti questa debolezza a loro svantaggio, voglio solo sottolineare che ci sono anche qui – di fatto – posizioni di debolezza e di forza, che ci sono persone che potrebbero parlare con uno, due, tre nick, e anche con un nome vero e dieci nick. C’è qualcosa che non funziona e non può essere ascritto solo alla debolezza etica dei commentatori anonimi, nel momento in cui qui “tutti” useranno il loro vero nome e solo quello, allora anch’io lo userò, e dirò anche mi chiamo così, prima ero temperanza. Adesso mi è venuta una certa ostinazione, mannaggia, perché penso di aver toccato un problema vero.

  20. Che solfa straordinaria. I nick names vigliacchi, la rinuncia all’identità, l’autocensura il controllo sociale, che altro?
    Per me Carla Debenedetti è un nick.
    E come lei molti altri, nomi di soggetti svuotati d’identità.
    Notte, fittizi.

  21. Per carità, sei libera di fare quel che ti pare.
    Io sono il signor nessuno. Massimo rispetto per gli altri e un po’ anche per me stesso.

    Ecco perché, se devo dire una cosa, la dico.

    Non prendertela, perciò. Non è la fine del mondo se la pensiamo diversamente.

    Bart

  22. x temperanza,

    come sempre succede quando si desidera cambiare le cose, e in questo cambiamento, ovviamente, ci si crede, qualcuno deve cominciare, dare l’esempio.

    Comincia tu a dire chi sei. Forse nessun altro ti seguirà, o pochi. E allora?

    Se continui a nasconderti dietro un nickname
    non solo sei massa anonima, ma ti sei deliberatamente cancellata, non credi?

    Quelli che qualche volta usano il nome vero, e qualche volta il nick, non hanno ancora risolto la loro ambiguità.

    In questa scelta di affermarsi come persona, di far valere la propria individualità, di attestare il proprio coraggio, il proprio voler esserci in prima persona e anche in trincea, quando occorra, nessuno ci può aiutare. E’ una scelta interamenente ed esclusivamente nostra.

    Non nascondo che mi dispiace molto se questo valore così grande viene confuso e ricoperto da giustificazioni che sono tutte fasulle e, perché no?, colpevoli.

    Bart

  23. Cazz… Benedetti, “Carla Benedetti è un nick”, che Debenedetti, porconick infame, errata corrige…

  24. Non so dove sia finita la risposta che ho postato per temperanza.

    Volevo dirti che sei padronissima di continuare a usare il tuo nickname, ci mancherebbe!

    Io non sono d’accordo, per i motivi che ho detto, e di cui, credimi, sono arciconvinto, come, del resto, tu dei tuoi.

    Se ci sono congiure, secondi fini, e così via, che consiglino di usare il nickname, tutto ciò non tocca la sostanza di quanto ho detto.

    Usare il nome vero non è mai un rischio, secondo me. Altrimenti come ci si dovrebbe comportare in tante, innumerevoli situazioni a cui ci mette di fronte la vita? Quanti nickname dovremmo usare?

    Ciao.

    Bart

  25. da tempo uso solo nick name e per una ragione terra terra: spesso scrivo da una postazione da cui non dovrei scrivere. Se scrivessi nero su bianco il mio nome e qualcuno si rendesse conto che in quell’ora svolgevo un lavoro retribuito, bhe, non avete bisogno d’altro…Sono codardo?, si’ non posso permettermi, al momento, causa cagionevole salute, di dormire sotto i ponti. Comunque volevo dire a Bernardo e a Temperanza che in buona parte condivido quello che scrivono. Vorrei altresì chiedere alla signora C. Benedetti che cominci a fare proposte concrete: i suoi discorsi li sento anche da persone che fanno marketing e che ritengono superfluo l’art.18 e che votano a sinistra. Questi signorini quando fai balenare l’idea di una certa schizofrenia di pensiero-azione reagiscono in modo non proprio composto e, se sei subalterno, rischi pure di ritrovarti mobbizzato. La Signora Benedetti non sembra (per personale comportamento) appartenere a questa schiatta e proprio per questo dopo la predica urbi et orbi le chiederei un’analisi mirata del reale e indicazioni concrete o iniziative da seguire.
    con rispetto, affetto e stima

  26. caro BDM, c’è un equivoco, io > essere massa, mi ha divertito proprio questo, il gioco ha ancora un certo potere nella mia vita. Giocare non ha mai impedito a nessuno di essere anche molto serio contemporaneamente o altrove. Questo di N.I. per me non è uno spazio sacro e sarei passata subito al mio nome, per pigrizia o sazietà, se non avessi capito che qui sul nickname, si gioca qualcos’altro. Tra l’altro ai miei occhi non mi sono cancellata affatto, certo ai tuoi, ma non so chi tu sia, non hai un ruolo nella mia vita e non sei per me (anche se forse lo sei per altri) un’autorità morale. Ti dico subito, perché davvero il tono mancante della voce può far danno, che lo dico senza nessuna aggressività, è più che altro una presa d’atto della scena del crimine. Per queste ragioni accetto senza drammi di essere ritenuta colpevole di non far valere la mia individualità. Una delle ragioni per cui insisto a non farla valere è intanto perché non me la sento debole, ma soprattutto perché a questo punto ho capito più cose che all’inizio, e cioè che se non viene fatta un’analisi dei rapporti di potere in questo blog da chi questo blog – forse non potendone ormai più – lo “governa” o è in posizione predominante, io non posso fidarmi che l’analisi del potere fuori di questo blog, nel mondo editoriale, critico, intellettuale, sia sensata, approfondita, ragionevole. E qui non viene fatta. Chi ha iniziato questo blog, così com’è configurato, è cieco di fronte alla sua natura e non si rende conto che non c’è un potere cattivo, quello grande degli altri, e poi non-potere buono. Il potere ha molte facce, ed esiste anche quando chi se lo trova addosso preferirebbe non averlo. In effetti non averlo è più comodo. Su questo problema, che ha, a mio parere, un sintomo evidente nella presenza carnascialesca di tanti nick debordanti, qui su N.I., si parla mi pare in termini moralistici, che non hanno mai sostituito l’analisi, mia vecchia passione. Perciò insisto.

  27. però, sapete che cosa vi dico? mi trovo noiosissima, questa storia dell’analisi del potere e della reazione al potere da parte dei nick evidentemente è una specie di fissazione che mi è venuta leggendo il pezzo sul comico di Montesano, ognuno ha la sua ottica microscopica e questa è la mia, scusa BDM, e anche gli altri, spero che almeno qualcosa di quello che ho detto fosse sensato. Buonanotte a tutti

  28. X temperanza

    Ieri sera ti ho scritto, ma non vedo il post.
    Non vorrei esserti apparso maleducato, quindi ripropongo le poche righe che dicevano in sostanza che sui nickname i nostri punti di vista restano differenti, e in questo non c’è affatto niente di male. Io resto convinto di ciò che ho scritto, e tu altrettanto.
    Il mondo va avanti lo stesso. Male, ma va avanti. Potrebbe andare meglio, però… :-)

    Buona giornata.

    Bart

  29. Mi pare di aver capito che:

    1) N.I. è uno spazio Internet attraverso cui una trentina di autori (in maggioranza scrittori, mi pare) uniti tra loro da vincoli di amicizia o anche da semplici “affinità elettive”, pubblicano liberamente dei materiali che ciascun autore, autonomamente, ritiene interessanti.

    2) N.I. si è data esplicitamente una norma etica che esclude l’autopromozione (recensione incrociate) o più in generale lo scambio di favori tra i propri membri, anche per marcare una differenza con un disprezzato andazzo generale.

    3) E’ stato ribadita più volte la natura “volontaristica” e “disinteressata” di tale attività, ed esclusa ogni ricerca di pubblicità (principalmente sulla base del fatto che alcuni dei suoi membri non ne avrebbero ormai bisogno alcuno.)

    Cosa ci può essere di sbagliato in tutto questo? Perché un navigante di Internet non dovrebbe essere semplicemente riconoscente di questa opportunità che gli viene offerta, del tutto gratuitamente? E quindi commentare sempre con generosità e rispetto, ricordando che a “caval donato non si guarda in bocca” e che nessuno è obbligato a frequentare dei posti che non gli aggradano?

    Il problema, a mio parere, sta nel fatto che i punti 1) 2) 3) sono certamente positivi, ma se anche venissero “creduti” con fede perfetta (cosa che personalmente mi appare un po’ problematica) non basterebbero certo a chiarire un contesto – parte dello “spazio intellettuale” apertosi su Internet – assai complesso. Vi è dunque un numero enorme di aspetti che vengono lasciati “tra le righe” e che quindi danno luogo ai più terrificanti ed estenuanti malintesi.

    Uno degli aspetti maggiormente in ombra mi sembra essere il genere di “invito” offerto al pubblico generico, ovvero le modalità ed i limiti dell’interazione che viene proposta. Non si tratta certo di un problema facile: è certamente antipatico esplicitare (e quindi dover giustificare) delle “barriere” – costituite da quelle forme peculiari di legittimazione e di esclusione che un gruppo deve comunque darsi. Si preferisce lasciare che queste siano implicite, ovvero che sia la “realtà dei fatti” ad espletare queste amare necessità. Si preferisce, in altri termini, affidarsi all’autoregolazione (d’altra parte si tratta della stessa politica di fatto che l’umanità attua di fronte a problemi immani come “la fame nel mondo”).

    Lo spazio dei commenti, d’altra parte, è sempre stato piuttosto celato. Soltanto ultimamente, dopo che Giulio Mozzi ne ha dato un meritevole esempio, viene talvolta aggiunto all’intervento un link esplicito a tale spazio, di cui nulla, nella “facciata” del sito, e – aspetto molto significativo – neppure nel “chi siamo”, indica l’esistenza.
    Questa distinzione è perlomeno un indizio della separazione, che comunque si intende mantenere, tra “autori autorizzati” e pubblico partecipante. Diciamo che lo spazio dei commenti è una sorta di optional lasciato “privo di presidio”: ci si può postare quello che si vuole, con nickname oppure con cognome, nome e codice fiscale, ma non c’è alcuna promessa di “attenzione”, nessun senso di una rilevanza implicita in tale atto.
    Io credo che sia proprio l’inevitabile percezione della essenziale futilità di tale contesto a determinare la prevalenza dei nickname, come anche il carattere spesso programmaticamente ostile di certi commenti, come anche le curiose stratificazioni dei (relativamente scarsi) partecipanti, sulle quali non voglio però stare a dilungarmi.

    Comunque è del tutto evidente che gli “autori autorizzati” intervengono soltanto quando fa loro comodo, spesso solo quando l’interlocutore, lasciato spesso a parlare al vento, finalmente offre loro il destro di una risposta esemplare: cioè facile, sbrigativa, tagliente. Spesso c’è anche il sospetto che facciano uso di personaggi fittizi per compiere alla buona il “lavoro sporco”, cioè quelle piccole vendette emotive che non è certo il caso di associare al proprio nome. Solo così si possono spiegare certe incredibili “inconsistenze”.

    Ma questi sono i limiti e di questo occorrerà accontentarsi, perché è chiaro che essi sono legati a dei limiti “strutturali” probabilmente insuperabili. C’è evidentemente un lungo percorso di maturazione a fronte delle esplosive potenzialità di Internet, e Nazione Indiana rappresenta soltanto uno degli spazi di sperimentazione, e forse, in un’ottica evolutiva, un vicolo cieco.

  30. Questo lo chiamo un discorso articolato, le implicazioni sono molte, serie, ed è un peccato eludere i problemi. Ma sono certa che il tempo porterà allo scoperto i nodi davvero cruciali di questo meccanismo e forse troverà, non dico delle soluzioni, ma delle regole abbastanza condivise e più democratiche, senza per questo accusare o demonizzare nessuno, per ora è lo stato delle cose, la natura dello strumento a far emergere queste ambiguità e contraddizioni. Ciao a tutti.

  31. Io c’ero a Torino, e mi è spiaciuto molto dell’interruzione. L’intervento che ho apprezzato di più comunque è stato quello breve e intenso di
    Massimiliano Parente.

  32. Sono stati molti gli interventi interessanti.
    Lucido e brillante quello della Benedetti, appassionato e vibrante quello di Moresco. Parente ha questa sua originalissima cifra stilistica, che si riscontra sia nei pezzi del Domenicale che nel discorso di Torino, fatta di un periodare incalzante, sporco, incazzoso e viscerale, che a me non dispiace per nulla. Mi ricorda un brano inedito di Manganelli, di Manganelli prima che diventasse il Manga; cioè del 1952, quando aveva solo 30 anni ed era in piena tempesta ormonal-culturale. L’ha pescato Cortellessa in quello scrigno prezioso che è il Fondo Manoscritti di Pavia, dove giacciono sepolte chissà quante chicche del genere.

    Dice: “Bisogna arrivare a parlare di cultura come si parla di figa: diciamolo chiaro, se la cultura, se il pensare non è vitale, se non impegna proprio le viscere (e non metaforicamente, perché il pensare è cosa totale come il morire, è un fatto, un vero e tangibile oggetto), se non ha anche addosso qualcosa di sporco, di fastidioso, di disgustoso, com’è di tutto ciò che appartiene ai visceri; se non è tutto questo, non è che vizio, o malattia, o addobbo: cose di cui è bene e anche necessario e onesto liberarsi (spogliarsi) totalmente”.

    [Quaderno 10.3.51-2.11.52]

  33. Bisogna parlare di cultura, come si parla di figa. E di solito, chi parla tanto di figa è proprio chi non la vede mai.

  34. Cara Carla, io in un mio resonconto poi segnalato dalla più famosa mardin ti davo contro. Ma tu non lo hai segnalato e quindi mi sento censurato. Censurato dai censurati. In un certo senso sono anche più forte di voi… :-D

  35. Mi attacco all’ultimo intervento di Franz Krauspenhaar sul parlare dei libri letti.

    Sono dispiaciuto che nessuno abbia dedicato, dopo la sua uscita, qualche riga a Perceber.

    Ne ho scritto qui:
    http://xoomer.virgilio.it/badimona/Colombati.htm

    e metto la recensione al servizio di NI, se crede opportuno pubblicarla.

    Si è parlato di editori coraggiosi e di libri coraggiosi. Il libro di Colombati lo è. Lo è anche l’editore Sironi, e soprattutto il progetto che presso quella casa editrice porta avanti Giulio Mozzi.

    E’ vero che di Perceber si è parlato molto (troppo) prima, ma ora che è uscito, si tratta di aiutare un progetto editoriale, e il libro di Colombati, fra l’altro, pur difficile e ambizioso, merita.

    Bart

  36. Per Bernardo. Contesto recisamente il punto 3 [E’ stato ribadita più volte la natura “volontaristica” e “disinteressata” di tale attività, ed esclusa ogni ricerca di pubblicità (principalmente sulla base del fatto che alcuni dei suoi membri non ne avrebbero ormai bisogno alcuno.]

    A parte il fatto che dell’esistenza dell’80% dei componenti il CHISIAMO di N.I. ho saputo proprio
    visitando il sito [ecco uno dei possibili ritorni della rivista: far circolare i nomi] e che il restante 20% ha una popolarità variabile [qualcuno è noto solo agli addetti ai lavori, qualche altro un po’ di più] la storia della natura “disinteressata” di tale attività è da prendersi cum grano salis. A chiunque scriva non può che piacere l’idea di mostrare i propri articoli, anziché lasciarli nel cassetto, non per vanità, ma perché scrivere è un atto di comunicazione e se non ci sono destinatari la comunicazione abortisce. In più spesso in questi articoli si parla di libri più o meno legati alle scuderie di appartenenza dei vari titolari o a quelle dei loro personali amici… Inoltre scatta inevitabilmente il meccanismo del Pavarotti & Friends. Gli artisti si esibiscono gratis, è vero, a favore dei derelitti di turno (mi viene in mente la parodia del comico televisivo che imita Pavorotti e cita continuamente “i poveri bambini del Liechtenstein”), ma il ritorno d’immagine è garantito per tutti.
    Insomma: da un lato non vorrei apparire ingrato per i benefici ricevuti [gli articoli sono spesso oggettivamente interessanti, le poesie molto meno]
    o eccessivamente malizioso, dall’altro mi rifiuto di pensare ai titolari di Nazione Indiana come ad altrettante Madri Terese di Calcutta:-)

  37. Oh Lucio, Madre Teresa l’hanno fatto santa e chi di noi aspira alla santità? Detto senza stizza niuna.

  38. Qui dentro mi sembra ci sia un solo filo, tra tutti i fili possibili del discorso che si sta svolgendo, degno di esser seguito, eppure puntualmente, a turno, pare che ci si metta di testa a farlo perdere, questo filo, a far sviare il discorso, a defraudarlo della sua ricchezza. La ricchezza di cui parlo riguarda le cose che dice Temperanza sui nick: è lì il ganglio cruciale, fatale di tutte le facende cui fa cenno Carla Benedetti. Dietro i nick c’è tutto, anche la nostra tragedia di scribacchini anonimi, e anche la brutta fine che hanno fatto ormai tutti gli “scrittori” ufficiali e, per certi versi, l’idea stessa di letteratura: la fine di qualcosa di inessenziale. Dietro i ncik si nasconde chi teme l’interlocutore, e l’interlocutore temuto è sempre un interlocutore che detiene un potere, lo voglia o no. Non è un sodale, ma un superiore, dal quale bisogna – naturalmente – difendersi. Questa analisi qualcuno, qui in Nazione indiana, qualcuno aveva cominciato a farla (Angelini è l’ultimo di un serie di “critici” al “potere” di/in N. I. che vengono da lontano), ma, anche lì, lo spirito di casta, lo spirito di gruppo, ovvero l’autodifesa delle posizioni conquistate ha prevalso su un approfondimento serio delle questioni che, come mostra Temperanza, sono ancora tutte aperte, e forse dolorose. E, se prima non si risolvono queste questioni, hai voglia di protestare contro questo e contro quell’altro: nessuno ti darà mai credito.

  39. Extreme, non dimenticare che il nick, a volte, può semplicemente essere un espediente per:

    – se fai dei complimenti, non essere scambiato per ruffiano;

    – se fai delle critiche, non essere tacciato di invidioso ‘rosicone’.

    A me è addirittura successo, in rete, di essere tacciato da un ANONIMO nientemeno che di pedofilia (l’accusa più infamante in assoluto), così, per il puro gusto di offendere. IL risultato è che ancora oggi, chiunque digiti in google/groups “lucio angelini pedofilo” trova dei riscontri. Pericolosetta, la rete, non trovi? Girano certi tipi! Per questo motivo molti, forse, preferiscono premunirsi.
    Un altro, infine, ha appena ordinato a MIO NOME un computer a Milano, dando i miei dati. E sto perdendo soldi e tempo per la denuncia e relative raccomandate.

  40. Sono d’accordo con Temperanza quando sottolinea i limiti espressivi del “mezzo”. E’ chiaro che “viso a viso” l’offesa non partirebbe, perché ci si riconoscerebbe immediatamente come esseri umani e non come quei personaggi pseudo-letterari mal disegnati ed evanescenti cui ci condanna la nostra condizione. Condizione che favorisce i circoli viziosi: si aumenta il “volume” (l’aggressività) per farsi “sentire” ottenendo l’effetto opposto. E’ tutto un brancolare nel buio, una sequela di mosse maldestre. E’ per questo che sincermente mi stupisce quella sorta di “realismo” che i capi qui sembrano pretendere. E’ certamente segno di una minore immersione da parte loro nelle dinamiche di Internet, ovvero di una loro minore dipendenza da essa: potendo spesso incontrarsi di persona, cioé interagire direttamente in maniera incomparabilmente più ricca, riserveranno a tale ambito gli approfondimenti più sinceri e impegnativi, quelli che fatti in pubblico potrebbero anche comportare qualche rischio d’immagine. Ma sembrano dimenticare la condizione degli esclusi da tutto questo, anzi sembrano voler dimenticare la loro esistenza, il loro numero, le loro competenze, pericolosamente vicine alle loro, e che, se incoraggiate, rischierebbero di “appiattire” tutto quanto, di annullare le distanze: il piccolo podio appena innalzato verrebbe distrutto, sommerso, anziché irrobustito. Tutto suggerisce che i capi qui vogliono un pubblico, non degli interlocutori. E vogliono un pubblico non troppo sveglio, che per lo più legga (pagando le royalties) e solo raramente scriva (per lo più complimenti). Questo sì che abbatterebbe il rumore, questo sì renderebbe l’aria respirabile, e la vita serena. I capi qui ci vogliono sereni e rispettosi, tanto rispettosi. Si mostrano “delicati”, non sopportano la nostra frustrazione, la nostra rabbia che facilmente si tramuta in odio, seppure temporaneo, virtuale, in parte simulato. Quei personaggi rabbiosi, ruvidi e contorti, che vanno così bene per i loro romanzi, non vogliono proprio incontrarli nella vita reale – seppure virtuale, non vogliono averci nulla a che fare. E’ chiaro, non è poi così difficile mettersi nei loro panni. Di che cosa ci lamentiamo in fondo? Soltanto di trovarli così “umani”, così inferiori alle mitologie alle quali sapevamo bene in partenza di non dovere credere. Eh no, non sono affatto “grandi”, anche se tra di loro se lo dicono di continuo. Ma dovremmo forse odiarli per questo? No, no e poi no! Credo che dobbiamo soltanto riuscire a trovare, con reciproca pazienza, la giusta misura.

  41. Ma scusate: e se dietro al nick ci fosse un personaggio di potere? “Scribacchini anonimi”, dice Extreme con una legger nota di vittimismo. (Non è una crtica, ma insomma, su con la vitaccia!) Come Lucio Angelini ha fatto rilevare in un passato intervento, molti “scrittori ufficiali” presenti tra i Sioux lui, prima di incappare nelle maglie della rete indiana, non li aveva mai sentiti nominare. E allora? Allora niente, ora li conosce e anch’io conosco lui e siamo tutti contenti, perchè la conoscenza è sempre positiva. Il potere però ce l’hanno tutti, chi si firma con il suo nome e cognome, chi si firma con un nick e non si sa chi sia, chi, come Lucio, spara critiche spesso anche molto divertenti e motivate con il suo nome e cognome. Dov’è il ganglo, a mio avviso? E’ in questa domanda: come si fa uso di questo potere? Perchè il nick puo’ essere – e spesso è – una maschera comoda indossata NON SI SA DA CHI, POTREBBE ESSERE CHIUNQUE, per, a volte, attaccare vigliaccamente qualcuno. O puo’essere un modo per stemperare i toni senza troppe compromissioni, addirittura. O per fare dell’innocuo cabaret internettico. Ora, chi attacca vigliaccamente qualcuno (cioè rinunciando alla propria identità) a mio avviso meriterebbe di essere censurato. Avete letto bene. Soltanto che qui su NI questo discorso non viene accettato dalla maggioranza, e amen. Per il resto il nick, a mio avviso, è giusto che esista. Questa è internet. L’importante è come usare il nick: perchè se qualcuno mi attacca senza svelarsi – potendo essere chiunque – gioca inevitabilmente in una posizione di MAGGIORE POTERE rispetto a me, povero “firmaiolo” dei commenti.
    Volevo anche aggiungere che questo thread – forse anche per l’argomento trattato ma credo di più per la civiltà e il livello intellettuale degli intervenuti – sia un esempio felice di come navigatori firmantesi con nick possano dialogare civilmente, e si spera fattivamente (altrimenti la rete diventa soltanto passerella mauriziocostanziana, e buonanotte al secchio)con chi si firma con il suo nome e cognome.

  42. Sono del tutto d’accordo con Franz.

    Poi qui sotto comparirà scritto:
    Mario Bianco
    e qualcun dirà ma guarda che cazzo di nick,Mario Bianco; invece no, cotesti sono i miei comunissimi nome e cognome con cui mi trovo benissimo dalla nascita essendo io persona “comune”.

  43. Vorrei far notare all’irenico Franz K. che egli, in qualche commento di qualche giorno fa, a un commentatore che ha solo osato nominare (sic!!!)qualcuno che forse non gli andava a genio, ha risposto con un risentimento che ricorda piuttosto la giungla che il “dialogo civile” di cui ora ama riempirsi la bocca. Questo lo dico a riprova ulteriore del fatto che qui dentro c’è un discorso di potere e, quindi, di una certa gestione maldestra dei suoi meccanismi – gestione che andrebbe pertanto quantomeno discussa, come dice bene Bernardo, altrimenti continueremo a prenderci tutti per i fondelli.

  44. Tiziano, mi puoi fare gentilmente sapere di quale mio commento risentito parli? Grazie. Tengo anche a dire che il mio ultimo intervento non era affatto ironico. Ho scritto quello che pensavo. Con tono lieve, magari, ma per nulla ironico.

  45. Un’altra cosa: se qui dentro c’è un discorso di potere, io, caro Tiziano, da questo potere ne sono proprio fuori. Ti parrà strano, ma io amo dire quello che penso, tutto qui. Poi è ovvio che sbaglio, credo come tutti.

  46. Lucio, tu sai quello che fecero a me, usando il mio nome.
    Tuttavia, continuo a firmarmi con nome e cognome veri, ed ho perdonato – come saprai – ritirando la denuncia che già era davanti al magistrato – coloro che ne abusarono. Usare il nome di un altro – lo dico a chi forse ancora non lo sa – è cosa pericolosissima; viola la legge.

    Se dovessi adoperare un nickname, non sarei lo stesso; sarei un mister Hyde. Ecco: chi usa il nickname è colui che ha scelto di far prevalere Hyde su Jekill. Per carità, ciascuno è liberissimo di comportarsi come vuole. Questa è solo la mia discutibilissima opinione.

    Altro discorso da fare è lo pseudonimo (una sorta di nickname)che si può usare nell’arte, che non serve a celare la vera identità (tutti, ad esempio, sanno che al nome di Alberto Picherle corrisponde lo pseudonimo di Alberto Moravia).

    Frequento da non molto NI per sentirmi in grado rilevarne i difetti. Ciò che pubblica mi piace e mi arricchisce. Non condivido tante cose, ma questo non significa proprio un bel nulla.

    Conoscere punti di vista a volte diametralmente opposti ai tuoi non dispiace, anzi…

    NI è molto viva e vivace.

    I fondatori e i conduttori sapranno trovare il modo per preservarla dai guasti della popolarità e dell’invidia.

    A me piacerebbe che le persone importanti che vi scrivono facessero anche cose concrete, per esempio:

    – incoraggiare, se non è possibile creare una editrice in proprio, una coalizione di piccoli editori coraggiosi per aiutarli a portare avanti i loro progetti e farsi valere sul mercato;

    – spingere le grosse case editrici a consentire di scaricare dal loro sito i testi pubblicati, pagando un prezzo simbolico (1 euro), facilitando così l’accesso alla lettura di persone che non possono spendere in libri;

    – abituare la gente a non avere alcun timore di firmarsi con il proprio nome e cognome.

    Sono tre punti che equivalgono a tre rivoluzioni!

    Bart

  47. Al wumingheggiante Bart:

    1) Tutti gli esclusi dalle eventuali Edizioni Morescarpa spingerebbero per creare EDIZIONI ANCORA PIU’ ALTERNATIVE (= che includessero anche loro):-/

    2) La battaglia per il copy left è già in atto. Credo che i nostri venti piccoli indiani siano grosso modo d’accordo.

    3) La battaglia del Vero Nome e – soprattutto – del Vero Mittente è impossibile: altrimenti avremmo già risolto il problema dello spam. Invece non passa giorno che non debba cancellare dalla mia mail box proposte del tipo: ‘Vuole aumentare il volume della sua eiaculazione?’ (traduco dall’inglese per agevolarti), che è esattamente l’ ULTIMA delle mie preoccupazioni.

  48. Il problema dello spam io l’ho risolto col mio provider (tin.it e virgilio.it)con una modica spesa mensile.

    Devo solo, ogni tanto, entrare nella mia casella presso il provider e premere l’ok per cancellare in un attimo un numero di spam che va da un minimo di 300 ad oltre assai.

    Per quelle proposte che ho formulato, staremo a vedere. Il tempo è galantuomo.

    Ciao.

    Bart

  49. Faccio notare a Franz K. che Scarpa (cioè io con il suo nick) non dice (dico) che è (sei) “ironico”, ma “irenico” (ben altra cosa).
    Firmato: EXTREME (alias Tiziano Scarpa nel post di sopra, e chissà quanti altri in tanti altri post…)

  50. Extreme ha esemplificato una forma di sabotaggio davvero terribile, speriamo che all’esempio non ne segua l’adozione da parte di nessuno altrimenti la degenerazione sarebbe alle porte, e la cosa mi dispiacerebbe molto. Molto interessante quanto ha detto Bart, che mi permette di comprendere quanto il mio “uso” di N.I. sia assai meno “canonico”. Non essendo interessato alle guerre dell’editoria – secondo me alquanto strumentali ed inautentiche – uso N.I come un attrezzo puramente cognitivo che, attraverso il cozzo delle idee, mi regala talvolta qualche scintilla di comprensione. E’ quindi ovvio che le mie strategie saranno diverse da quelle di Bart, e prevederanno anche una certa, e talvolta rischiosa, ricerca dei “confini”, fatta di letture “eretiche” (opposto a “idolatriche”) di quanto viene scritto, ovvero del rifiuto di punti di vista, presupposti, posture e riverenze precostituiti. Una questione interessante potrebbe allora essere: possono scopi totalmente differenti intersecarsi senza distruttività?
    Forse il raggiungimento di questa meta-conoscenza potrebbe anche rappresentare uno degli scopi (secondari) dell’impresa, e magari gradualmente consolidarsi in un FAQ che vada ad integrare quel davvero troppo scarno “Chi siamo” (in fondo, io sto già scrivendo, per conto mio, un “Chi sono [essi]”). Nelle comunità del software libero – modello più compiuto di contro-sapere funzionante – il FAQ, e più in generale la documentazione che viene costantemente “astratta” dalle contingenze dell’interazione, rappresentano un elemento essenziale di consolidamento e condivisione dei saperi. Che sia davvero impossibile ottenere qualche cosa del genere anche nel campo “umanistico” dei blog? Questi sono temi di mio interesse, spero di poterli perseguire, qui e altrove, senza disturbare troppo.

  51. No, Franz, non faccio confusione, ma, come ha colto BERNARDO, ho solo esemplificato una forma di “sabotaggio” (ma io preferisco dire: “cortocircuito”) in cui potrebbe facilmente cadere qualsiasi discorso all’interno di un contesto (N. I.) che è, come diceva TEMPEREANZA, carnevalesco per ontogenesi, diciamo così. Tutta la questione sui nick, e il modo poliziesco di trattarla da parte di Carla Benedetti e altri, è con questa contraddizione semplicissima che non fa i conti, e mi somiglia tanto a chi, in tempo di carnevale, invoca la quaresima.

  52. Cari amici, caro Franz, qualcuno qui sopra ha scritto un commento con il mio nome e cognome, e mettendoci un inesistente scarpa@nazioneindiana.com come indirizzo. Non sono stato io. Si pensa forse di fare gli spiritosi, di seminare zizzania, di creare dissapori (fra me e il carissimo Franz Krauspenhaar… Mah!). Buon segno, vuol dire che se qualcuno desidera distruggere, qualcosa di buono si è costruito.

  53. Fossi in te, mi rivolgerei alla polizia postale. Non ci si può spacciare per un altro fino a clonarne l’indirizzo. È un vero e proprio reato. A mio nome è stato appena ordinato un computer. La segnalazione può essere fatta anche on-line. È già successo sia a Bart, sia a me, che venissero clonati i nostri nomi. Di qui, forse, a volte l’esigenza del nick.

  54. Quella del “funzionario” è una categoria della contrattazione collettiva. In Italia ci sono tantissimi “funzionari”. Molti di loro (io ne conosco) fanno benissimo il loro lavoro. Il funzionario che ho sopra la mia capoccia è addirittura una fan sfegatata di Dario Voltolini. Ma è solo per fare un esempio, ce ne sono tanti altri. Ce ne sono anche inquadrati come funzionari, ma precari, perché con contratto a termine o addirittura co.co.co..
    Ecco dopo questa premessa mi chiedo cosa direbbe uno di questi bravi funzionari nel leggere il pezzo che commento, cosa direbbe la funzionaria che ho sulla capoccia e che si è letta Primaverile con due bambini che la tiravano per le maniche.
    Se la conosco, si allontanerebbe subito dall’articolo pensando che usare “funzionario” così è una snobberia (anche un po’ di cattivo gusto), che le snobberie vanno bene se il mondo reale non ti tira per le maniche, se hai tempo da perdere insomma. Avrebbe tutti i torti?
    Quando Scarpa ha criticato i mediatori culturali (anche questo modo di dire non va tanto bene dato che mediatori culturali sono stranieri che integrano altri stranieri, ma comunque…) dicevo, Scarpa ha INVENTATO una parola nuova, il “bee-jay”. Inventare, non regredire nell’uso delle parole, dovrebbe essere il compito di chi fa arte e di chi parla di arte. Inventare è come fare un bel salto, la gente guarda e rimane a bocca aperta, ti ammira e magari ti segue. Dov’è nel pezzo che commento l’invenzione?

  55. Un’altra cosa: le vostre “esemplificazioni” non servono a un cazzo di nessuno. Avete mostrato soltanto di essere dei vigliacchi, e basta. E tenete ben presente che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. State accorti, è un consiglio.

  56. Non per difendere la Benedetti, però mi sembra ovvio che lei non intendesse “fare arte” con il suo intervento. Inoltre associare il termine “funzionario” alla corrispondente categoria della contrattazione collettiva mi pare alquanto stiracchiato. Il problema di un certo snobismo credo invece che ci sia, anche perché la condizione di “funzionariato” mi pare più legata alla pura e semplice, violenta e pervasiva, “dipendenza economica” che non a quei fantomatici “divieti introiettati”, dai quali Carla sarebbe poi miracolosamente esente. Il suo messaggio, troppo vagamente indirizzato, sembra alla fine collassare comicamente in una sorta di appello (ai mediatori-funzionari) a farsi qualche canna in più, prima di decidere quali autori pubblicare. Che poi questi autori rappresentino una minaccia sociale mi pare una vera barzelletta.

  57. Mhm, io però adesso non esagererei la faccenda. Voglio specificare che non sono stato io a spacciarmi per Scarpa, come penso si possa accertare dalle informazioni che i file di log dei server generosamente raccolgono – sono stato però io, qui sopra, a “restituire” lo scherzo ad “extreme”. Comunque, con coscienza abbastanza pulita, raccolgo la mia parte del “vigliacchi” e termino, perché non avverto l’atmosfera adatta al mio tipo di gioco. Ciao.

  58. Davvero una brutta faccenda quella di firmarsi con il nome di un altro. Se ho capito bene, qualcuno si è fatto passare per Tiziano Scarpa.

    Il proprio nome è tutelato dall’art. 7 del codice civile.

    “7. Tutela del diritto al nome. (1) — La persona, alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo (2), salvo il risarcimento dei danni (3).
    L’autorità giudiziaria può ordinare che la sentenza sia pubblicata in uno o più giornali (4).”

    Definizioni Note

    (1) La tutela del nome è specificazione del cd. diritto all’identità personale, ossia del diritto al rispetto della persona nella sua proiezione sociale e, quindi, dei suoi segni distintivi ed in primo luogo del nome. La tutela del nome è sancita a protezione non solo di un interesse individuale all’uso del proprio nome e ad impedire che altri lo usino indebitamente, ma anche dell’interesse generale all’identificazione della persona, nell’ambito dell’ordinamento giuridico.

    (2) Due sono le azioni poste a tutela specifica del nome: l’azione di reclamo, con la quale si tutela il diritto della persona ad usare il proprio nome contro gli atti dei terzi tendenti ad impedire tale uso. Questa azione può essere esercitata anche quando il terzo non sia in mala fede ed anche quando dal suo comportamento non derivi alcun pregiudizio per il titolare; l’azione di usurpazione, diretta contro l’appropriazione illecita che altri facciano del nome, con danno, anche solo morale ed eventuale, del titolare (è il caso del signor Busacca che vide attribuito il proprio nome ad uno spregevole personaggio del film «La grande guerra»).
    Entrambe le azioni hanno carattere inibitorio, mirano, cioè, ad ottenere la cessazione della condotta lesiva.

    (3)Risarcimento del danno: è l’obbligazione diretta a reintegrare il patrimonio del danneggiato nella situazione in cui si sarebbe trovato se l’inadempimento non si fosse verificato [v. anche 2058].

    4) La pubblicazione della sentenza ha una funzione sanzionatoria e di scoraggiamento per colui che ha violato il nome altrui. Essa ha, tuttavia, anche l’obiettivo di ridurre le conseguenze negative della lesione, portando a conoscenza della comunità l’usurpazione del nome o il suo indebito uso.

    La denuncia procede così. La polizia postale alla quale si è fatta la denuncia provvede alle prime indagini, che riguardano l’analisi dei dettagli del messaggio (praticamente si individua il computer da cui è partito). Mediante un avvocato si richiede alla Procura della Repubblica di far approfondire (mi pare dalla Guardia di Finanza)l’indagine onde pervenire alla identificazione con tanto di nome e cognome del responsabile. Ove trattasi di azienda che abbia molti impiegati, non è così sicuro che non si possa individuare la ristretta cerchia di coloro che hanno in uso il computer incriminato, e, quindi, arrivare al colpevole. Già il fatto, tuttavia, che un’azienda venga a conoscenza che suoi impiegati utilizzano il computer per violare la legge, è più che sufficiente a suggerire all’azienda stessa efficaci precauzioni onde impedire il ripetersi del reato.

    Succede, infine, che chi ha commesso il reato, si fa vivo e scongiura di non andare avanti.

    Ho scritto queste cose, perché se l’uso del nickname è una pratica opinabile, quella di usare il nome di un altro è un vero e proprio reato, e i frequentatori di N.I dovrebbero essere i primi ad autotutelarsi, con una disciplina, diciamo così, morale.

    Coloro che curano la rivista dovrebbero, peraltro, trovare il modo (non me ne intendo, ma un esperto è in grado di suggerirlo) di impedire l’ingresso alla rivista di chi sarà trovato colpevole di questo spregevole reato.

    Bart

  59. Scusate, ho dimenticato di aggiungere che, quando ritirai la denuncia, il procuratore della repubblica mi disse che si può andare a denunciare il reato anche direttamente alla Procura, chiedendo udienza ad uno dei procuratori che vi prestano servizio.

    In questo caso, la pratica evita alcuni passaggi burocratici.

    Bart

  60. Mhm, per un autore misconosciuto sarebbe un’ottima occasione di pubblicità. Oppure pensate al cupio dissolvi: già era border-line, ora perde il lavoro, si procura una pistola e va a farsi “giustizia” sommaria. Ehi, c’è del materiale per dei romanzieri!!!

  61. Aggiungo un’ultimissima cosa: prima di scoprirne il zelo da aiutante boia, lo ammiravo pure, old Bart, adesso lo chiamerei old Fart.

  62. Zelo vuole l’articolo ‘lo’. Vecchia Scorreggia sei tu. Bart ha perfettamente ragione. Se verrà individuato colui che si è ordinato un computer usando il mio nome e il mio indirizzo, mi auguro venga scoraggiato dall’insistere.

  63. No, Bernardo, no. Non voglio continuare. A me piace scherzare, ma non così. Vedi, questa tua è anche la dimostrazione che il nickname porta facilmente ad essere scurrili, e oltre.

    Credo di essere una persona trasparente, forse – come mi è stato detto più di una volta in rete – anche ingenua (non stupida, bada).

    Ho scritto il precedente post (sul quale immaginavo che qualcuno tentasse di scherzare), perché si sappia a che cosa si può andare incontro usando il nome di un altro, poi ciascuno si regoli come crede. Non potrà dire che non lo sapeva. Molti, infatti, non sanno di compiere un vero e proprio reato, previsto da un articolo apposito del codice civile.

    Non volevo riferirmi certo a te, ma all’azione in se stessa. Del resto quando è partito il mio post, non avevo fatto in tempo a leggere quel tuo pentimento. Inoltre, avevi accortamente usato la maiuscola spacciandoti per extreme, e ciò dimostra che in materia sei abbastanza accorto e informato, mi pare…

    Reputo che nazione indiana, come altre riviste in rete, sia frequentata da persone serie, capaci anche di scherzare, ma nei limiti del rispetto verso le opinioni degli altri, lontani dalla beffa e dall’insulto, e soprattutto non praticando una cosa oscena e terribile (secondo me, certo: old, uomo d’altri tempi)come l’uso del nome di un’altra persona.

    Non c’è giustificazione che possa tenere.

    Bart

  64. Uff, controllate pure i log del server: io non mi sono MAI sostituito a Scarpa ma soltanto ad extreme (che non conosco) poco fa, per rendergli scherzosamente “pan per focaccia”, cioé per vedere come reagiva a sua volta ad una sottrazione di identità. Il suo scherzo precedente a me non era affatto piaciuto, e se potessi chiedere scusa per lui lo farei, ma non ero stato io. E adesso andate pure dai Carabinieri (perché quelli no?) per vedere se racconto balle oppure no. Fatto salvo che ogni documento elettronico può essere falsificato ad libitum, lo ripeto: ho la coscienza pulita.
    Comunque non mi dispiace questa vicenda: un po’ di agitazione mi ha fatto intravedere meglio i vari caratteri in gioco. Dunque Adieu, aspetto vostre notizie per via legale, attenti che c’è anche la violazione della privacy – quando uno è innocente.

    ===
    Lo spingeva un desio d’apprender l’arte
    de la milizia faticosa e dura
    da te, sí nobil mastro, e sentia in parte
    sdegno e vergogna di sua fama oscura,
    già di Rinaldo il nome in ogni parte
    con gloria udendo in verdi anni matura;
    ma piú ch’altra cagione, il mosse il zelo
    non del terren ma de l’onor del Cielo.

    Torquato Tasso – Gerusalemme liberata. 8 / 7

  65. Ma io dico: siete diventati matti? Possibile che adesso siamo alle citazioni dal codice civile e penale e alle minacce di querele davanti a un innocuo, e peraltro immediatamente autodenunciato dallo stesso “extreme”, tentativo di mostrare con un “esempio” quello che può succedere in tempi di Carnevale? Ma vi rendete conto che qui si sta arrivando addirittura a mettere sotto accusa le idee? Perché un conto è ordinare un computer con falso nome, e d’accordo, questo è un reato; un altro conto è mostrare, con un esempio di scrittura mascherata, una propria idea. A me è sembrata una performance, quella di “estreme”, non una illegalità! Discutibile quanto volete, ma comunque sostanziata con una idea, non una stronzata offensiva o con dentro del dileggio. Del resto, mi pare che lo stesso Scarpa abbia colto bene, sia le implicazioni positive che negative della faccenda, che del resto si discute da anni in Nazione Indiana: da sempre ci son state persone che si son spacciate per altre, qui dentro e altrove. Quello che ho capito io dalla performance di “extreme” è che CHIUNQUE, in qualsiasi momento, qui dentro ovvero dovunque sia possibile mettere una maschera e spacciarsi per altri, può utilizzare un altro nome, con tutte le conseguenze del caso. Se esistono i nick, vuol dire che io posso scegliermi il nick che voglio, o no? E perché non potrei scegliermi il nick TIZIANO SCARPA o ANTONIO MORESCO, mentre posso invece scegliermi il nick, che so, MARCEL PROUST o, per fare un esempio moderno, un nick di uno scrittore moderno, come, che so, PETER HANDKE o GIORGIO MONTEFOSCHI, o di uomo pubblico qualsiasi, come, che so, SILVIO BERLUSCONI (immagino che non siano pochi coloro che usino stratagemmi del genere)? E allora: possibile che non si comprenda una cosa fondamentale, e cioè che dietro la facenda dei nick si nasconde il più grande limite non solo del blog e delle discussioni su potere e contropotere, ma anche dell’intero modo di interagire umano nelle società moderne, deprivate ormai quasi del tutto di qualsiasi briciolo di umanità? D’altronde questo atteggiamento da ciechi è ben visibile nelle parole di Angelini, che fa un discorso che assomiglia a un serpente che si morde la coda: Angelini stigmatizza chi usa i nick, ma poi li giustifica dicendo che usando il proprio nome si rischia di essere coinvolti in truffe. Se non è grottesco questo…

  66. Dove avrei stigmatizzato chi usa i nick, scusa?

    Inoltre: è ovvio che se uno manda un msg a Nazione Indiana firmandosi Raffaella Carrà, chi lo legge non pensa certo a “quella” Carrà. Se uno manda un messaggio a Nazione Indiana firmandosi Tiziano Scarpa, che a Nazione Indiana appartiene, commette un esplicito reato, perché si sostituisce subdolamente a lui.

    Ti assicuro che più volte, in vari newsgroup, sono stati inviati messaggi fasulli firmati da un ***Lucio Angelini di Venezia collegato alle edizioni Libri Molto Speciali*** (che, quindi, non potrei che essere io)e che però non sono io.
    Se a te sembrano divertenti performance, io le trovo ODIOSI reati. Puoi, comunque, fornirci le tue generalità complete e sperare che qualcuno si sbizzarrisca in performance che riguardino anche te (salvo denunce alla polizia postale).

  67. Elena è un falso… e qualcuno si sta molto divertendo… all’asilo mariuccia le merende sono più divertenti. ;-/

  68. Mi pare di aver capito che la prima reazione di
    Franz non ci sarebbe stata senza quella firma fasulla che si spacciava per Tiziano Scarpa.

    Vedi, elena, la vittima del “gioco” non è soltanto il titolare del nome abusato, ma anche altre persone che hanno preso sul serio il contenuto del post abusivo.

    E’ così difficile capire questo? Secondo te, perché la legge iscrive la tutela del nome tra i diritti della persona? Una ragione ci deve pur essere. Le conseguenze di un tal gesto non sono, infatti, tutte controllabili, né riguardano soltano la persona a cui si è carpito il nome. Falsificando un nome, insomma, le sue ripercussioni potrebbero essere imprevedibili.

    Con questo diritto che ciascuno ha al proprio nome, ossia, la legge dice che non si può giocare, perché ne sono state analizzate le nefaste e plurime implicazioni. (Sono stato io, e non Angelini, a postare per esteso l’articolo 7 del codice civile, non per fare il poliziotto, bensì per far conoscere a che cosa si può andare incontro violandolo. Mi fa piacere che Bernardo, infine, abbia capito le mie intenzioni).

    La mia mentalità, credimi, non riuscirà mai a comprendere come si possa avere opinioni diverse su tale argomento. Forse sbaglio, io, che sono nato in tempo di guerra, nel 1942…:-)

    Sui nickname la mia contrarietà è di altra natura e mi sono già espresso più sopra.

    Bart

  69. Bart ha messo la questione nero su bianco, con annessi, connessi e implicazioni : chi non l’ha capita è perchè non l’ha voluta capire, evidentemente. E poi: se siete contro i blog, così disumanizzanti, perchè vi accedete? Andate a fare una passeggiata, piuttosto. Comunque la legge è legge, non si scappa. La “performance” ha esemplificato un rischio possibile, ma qui su NI non mi pare si abusi di false identità. Farsi chiamare Extreme è cosa ben diversa dall’intervenire col nome di Tiziano Scarpa. Hai dimostrato quanto sei bravo/a, adesso vattene al diavolo.

  70. No, Elena, davvero non c’è bisogno di invocare le “performance” per definire quello che ho fatto. Sono EXTREME, eccomi qua. Sono qui innanzitutto per “scagionare” (che lessicaccio!!!) l’intelligentissimo e serissimo Bernardo, e poi anche per rendere conto, per l’ennesima volta, del mio gesto.
    Io non credo nei “NOMI”, in nessun nome. Quando scrivo, come Foucault – mutatis mutandis, per carità! –, metto da parte i dati anagrafici e/perché so che posso diventare tutto e il contrario di tutto. Anzi, scrivere (nei blog e newsgroup e chat eccetera, ma non solo) mi piace proprio perché mi consente di essere un “ALTRO”, tanti “ALTRI”. Ma non credo nei nomi anche perché “avere un nome” è il primo tipo di possesso che aborrisco. Ci sono, oggi, milioni di persone al mondo che non hanno un nome, sono solo numeri, cioè sono bestie da soma per chi deve badare prima a quanto ammonta la loro forza-lavoro, e figuriamoci cosa se ne frega del loro nome. Inoltre, spesso chi ha un nome ha qualcosa di ingombrante da sopportare perché forse è un clandestino, un contrabbandiere, un perseguitato – senza essere necessariamente un “mariuolo”. A Bartolomeo DM dico che è un ingenuo, sì, si è definito proprio bene: un grandissimo ingenuo. Perché in nome del “Nome” si compiono abusi e ingiustizie e si perpetuano i sistemi di potere più abbietti. Se ti “chiami” in un certo modo, quindi se vieni da una certa discendenza, non ti sarà mai difficile avere quello che vuoi, senza problemi. Quindi Bart, che è forte comunque del suo nome, benché sia un nome misconosciuto nell’ambiente letterario (ma quanto poco mi cale la letteratura!), dovrebbe considerare che esiste al mondo chi invece non può permettersi di dichiarare “CHI E’” ai quattro venti, davanti a tutti. Non è una questione di mancanza di coraggio. Spesso, è una semplice questione di sopravvivenza, cui ha fatto cenno qualche volta, mi pare, Bernardo. E ancora: il punto di vista “giudiziario” di Bart mi pare davvero un’esagerazione, qualcosa che ci abbassa e degrada a funzionari di questura più che a “intellettuali”. Ti prego, Bart, manteniamo alta l’attenzione della mente, non scadiamo nelle minacce, qui nessuno vuole far male a nessuno.
    Detto questo, senza ancora aver detto niente, credo che a questo punto sia facile capire perché ho firmato T. S. Sembrerà banale, ma è il primo nome falso che mi è venuto in mente. Mi sarebbe potuto venire in mente Mario Rossi, Giuseppe Cornacchia, o qualsiasi altro nome. Non necessariamente il nome di uno scrittore. In quel caso, avrei forse dovuto temere le querele dei vari signori Rossi o Cornacchia perché abusavo dei loro nomi? Non credo proprio che stia in questi termini la faccenda. Il punto vero è che il nick libera delle energie, energie nascoste e violente, aggressive, destabilizzanti. Io considero questa liberazione un fatto molto positivo, se sfruttato fino in fondo, con coraggio. Quale coraggio? Il coraggio di non stare a prendere sempre tutto sul serio, troppo sul serio, a cominciare dai nostri nomi. Quando si scrive, lo ripeto ancora, la prima cosa da metter da parte dovrebbe essere il nome, e bisognerebbe seguire soltanto l’andamento del discorso: se ci attira, ci intoniamo; se ci respinge, lo fuggiamo. Cosa c’entra in un discorso che fila armoniosamente la “persona” o il “Nome”? Davvero non capisco, cioè mi sembra che c’entri solo come questione di autorità, inutile e banale autorità. Il limite che io vedo in queste discussioni sui nick, che ho seguito anche in altre occasioni, e nelle quali sono altre volte intervenuto, sempre con nick diversi, è appunto il “NOME”: quella cosa che ci fa illudere continuamente di essere “QUALCUNO”, di rappresentare qualcosa di sostanziale e definitivo, di ragionevole e importante, eccetera. Ebbene, in queste discussioni, e nelle pretese ad esempio di Carla Benedetti, oppure nelle scelte che alcuni come Scarpa hanno a volte adottato (oscuramento dei commenti), io vedo una immensa inconsapevolezza o sottovalutazione del vero dilemma posto dai/nei nick: il problema della “VERITA’” o “AUTORITA’”che emana dai “NOMI”, cioè il problema di quanto sia importante un nome, rispetto all’altro o agli altri, e di quanto chi legge spesso legga prima il nome e poi badi al discorso. Ecco, non so in quali altre maniere dirlo, però io sono del parere che i nomi siano una grande menzogna, la prima grande menzogna che la società ci offre per incasellarci e renderci schiavi di un’illusione carceraria: quella della identità fissa, immobile e significativa, che serve solo per mettere uno sotto l’altro, e per far disimparare ad ascoltare le parole per quello che sono, cioè cose che non appartengono a nessuno. I nick, nonostante tutto il male che se ne dice, sono anche un vera, grande occasione di libertà, una occasione per evadere dal carcere e per cominciare ad ascoltare il mondo per quello che sa dire o proporre, al di là di qualsiasi autorità o autorevolezza.
    Sono napoletano, dell’entroterra. Mi chiamo Antonio Franza (basta?), faccio il facchino, ma sono laureato. Se qualcuno vuol giocare col mio nome, faccia pure. Contento, Angelini? O vuoi anche il mio indirizzo?
    Saluto tutti, anche Franz, che spero abbia compreso meglio il senso di tutto questo, abbandonando i tanti propositi bellicosi che non gli fanno onore, e anche Scarpa, che invece credo abbia capito subito la portata – grande e insulsa – di certi gesti “distruttivi”.

  71. Beh, Antonio, possiamo proprio dire che nel giro di un paio di commenti ti sei fatto un nome… Adesso molla il tuo nick “estremo” e firmati d’ora in poi con questo tuo nome – Antonio Franza- e scrivi tranquillamente (semprechè tu ti chiami così, ma mi voglio fidare).
    E fidati che tu.
    ps.: se ci hai preso di nuovo per il culo ricominciamo daccapo.

  72. Antonio, vorrei chiudere da parte mia questa discussione, non perché non sia importante, ma perché non so che cos’altro dire.

    Forse non sai che anch’io ho sangue meridionale nelle vene, essendo i miei genitori nativi di San Prisco, un paesino del casertano. Dico questo, perché penso di capire abbastanza bene le reazioni di un uomo del sud, che ha tanti più ragioni di protestare contro la società di qualunque altro, almeno da noi in Italia. Sei laureato e fai il facchino. Oggi ci sono tante situazioni peggiori; con ciò non voglio dire che la nostra società debba essere giustificata. Per carità! Io non l’ho mai amata, e ci vivo perché sono rimasto imbrigliato sin da ragazzo: prima perché il mio lavoro era necessario alla famiglia; poi, da sposato, ancora la mia famiglia mi ha caricato di responsabilità ineludibili. Mia madre si metteva a piangere quando, ancora studente, le dicevo che volevo andarmene via, lontano, vivere in solitudine, tagliare ogni rapporto con gli altri. La società è una escrescenza prodottasi dall’uomo, dai suoi difetti, ossia, più che dalle sue qualità. Tuttavia, i legami che si formano sin da ragazzo, creano dei vincoli e abbandonare chi ci ama può apparire, e forse lo è, una vigliaccheria. Così si arriva alla vecchiaia, i nipotini ci fanno sentire di nuovo giovani, e la gioia che ne sprigiona pare ricompensare abbondantemente la nostra rinuncia di allora.

    Tu le sai queste cose, e le ho potute scrivere perchè non sono più giovane. Ma devi anche sapere che ogni piccolo gesto che si coglie nella vita quando non si è più giovani e ci rende felice è accolto sempre come una piccola personale resurrezione.

    Dunque, scusami di questo sfogo. E prendi la mia ingenuità per buonafede e desiderio di non nuocere mai.

    Non sono d’accordo su ciò che di negativo scrivi sul nome. Mi verrebbe da parlare di Perceber dove la parola ha un grande significato. Il nome delle persone (come quello delle cose, del resto) perché dovrebbe significare imbrigliamento della propria libertà?
    Non ti seguo. Io del mio nome sono fiero, e ci firmo tutte le azioni della mia vita, quelle belle e quelle brutte, quelle buone e quelle cattive. Quando si è morti,il solo collegamento che resta per ciò che abbiamo fatto e per ciò che siamo stati è il nome. Ciò vale per chi è stato grande, e ciò vale per chi è stato piccolo piccolo. Il nome, come la morte, ci livella, per dirla con Totò. Il povero, semplice nome, composto di una minuta manciata di lettere dell’alfabeto resta! Una ricchezza. Un capitale per chi ci ha conosciuto e desidera ricordarci agli altri. Come farebbe altrimenti? Con una fotografia? No, occorre il nome, per dare significato al ricordo, poi può valere anche la fotografia, ma la fotografia è niente senza il nome!

    Inoltre, il nome è la sola eredità che l’uomo qualunque, quello senza qualità, può lasciare in questo mondo. Per quanto tempo? Lo spazio di giorni, lo spazio di anni… Non ha importanza.

    Ma finché qualcuno lo ricorda solo attraverso il nome può trasmettere tutto il carico di umanità e di esperienza di quella persona.

    Usare un altro nome, significa abdicare.

    Il tuo ragionamento, se fosse portato alle sue estreme conseguenze, ossia, dovrebbe condurti a compiere un passo ulteriore: quello di rinunciare al tuo nome. Far perdere di te ogni memoria, così come volle l’Henchard di quel capolavoro della tristezza che è “Vita e morte del sindaco di Casterbridge” di Thomas Hardy, un autore che venero.

    Al contrario di quanto scrivi tu, secondo me, è proprio la rinuncia al proprio nome che uccide dentro di noi il significato vero di libertà, sostituendola con una libertà di facciata, fittizia. La libertà vera, infatti, è quella che non nasconde l’individuo, al contrario cerca di marcarne la personalità, per renderlo diverso e distinguibile dagli altri.

    Bart

  73. Per Extreme. No, piccolino, non mi incanti. Scendi giù da quel pero. Se vuoi usare il tuo nome usa il tuo nome, se vuoi usare un nick scegline uno che non ti renda ***passibile di denuncia***, punto e basta.
    In rete gira già un sufficiente numero di malintenziati. Se vuoi parodiare Scarpa, firmati magari Tiziano Pedula, ma non rischiare denunce per niente. Hai fatto una cazzata. Non arrampicarti sugli specchi. E ringrazia Scarpa che l’ha presa con filosofia.

  74. Se io mi firmo col mio nome e cognome, quello che sta scritto sulla CARTA D’IDENTITA’, utilizzo il cognome del passaporto FALSO col quale mio padre si è salvato dai nazisti e un nome che viene da mia nonna, ma che nella pronuncia è sempre stato adattato al paese in cui vivevo. Se mi chiedono “come ti chiami VERAMENTE?”, “Qual’è la tua VERA lingua madre?”, “A quale popolo appartieni?” e cose simili, rispondo che è sbagliata la domanda. Non esiste nessuna identità identica a se stessa al di fuori, appunto, della carta d’identità. Ma non per questo io o Antonio Extreme o Temperanza o Fake di Angelini siamo persone dissociate o multiple o, peggio ancora, dei Fake, dei falsi.
    Esistono ottime ragioni pratiche per usare i nick name, esistono anche motivazioni più profonde come quelle espresse da Temperanza, Bernardo e Extreme che trovo interessanti e in parte condivisibili.
    Usare il nome di un altro che verosimilmente potrebbe intervenire, come qui è successo spesso e in forme assai più pesanti del tranello esemplificativo di extreme, mi pare invece un gesto manipolatorio poco innocente.
    Certo, è prendersi un potere. Ma è il potere dell’intrigante, del seminatore di zizzania (rivedetevi Dante se vi pare). Purtroppo somiglia anche al gesto del servo che sputa nel piatto del padrone.
    Ed è qui il nodo che mi lascia perplessa. Mi lascia perplessa, Antonio, Bernardo, Temperanza (e scusate se dimentico qualcuno) che voi date per scontato che la vostra parola non verrà pesata per quel che vale, non con la stessa misura delle FIRME che ci sono qui dentro. Ripeto, a scanso d’equivoci: a me non mi frega un cazzo come vi firmate se fate i discorsi approfonditi e appassionati che avete fatto.
    Mi dispiace però pensare che vi sentite troppo comuni per firmare col vostro insignificante, anzi forse persino opprimente nome proprio. Che scegliete il nick come un costume da supereroe. Ma i ragazzi amano più di tutti Spiderman perché corrisponde al timodo Peter Parker, uno che è come loro.
    Voglio dire: il discorso sull’attacco al potere fatto così è molto ambivalente. Perché uno come Bart che si firma con nome e cognome, si mette LUI STESSO sullo stesso piano delle supposte FIRME, indipendentemente se qualcuno lo considera o meno.
    E poi anche se è vero, anzi è giusto far contare solo le parole, a me piacerebbe sapere qualcosa di colui col quale sto discutendo, per non ridurrlo a un nome, a una postura stilistica ecc: tutte identità molto ma molto ridotte rispetto a come siamo tutti: inidentificabili, (ri)conoscibili soli in movimento, in approssimazione.
    Immagino di aver detto cose anche contradittorie, ma credo che davvero dietro a questi “nomignoli” ci sia molto da dire. Non voglio affatto avere l’ultima parola.

  75. A me risulta che Lucio Angelini sia stato denunciato da p.bianchi al servizio abuse del provider, che lo minacciò di disabilitargli l’account, per avergli copiato nome e indirizzo e-mail, cosa che lo stesso Angelini ammise.
    Per verificare basta guardare su googlegroups il thread di it.cultura.libri “Quella cogliona di Pamela”, in data 15/11/2000.

  76. Quella volta P. Bianchi fu veramente coglione. Il contesto era un gioco in cui avevo anche assunti nick quali: Truman Cappotto, Cock A Doodle Do, Mario Ritornello (per sfottere Maria Strofa), Noblesse O’Blige, Gian dei Brughi, No Pasaran
    Testimone di Genova, Marylin M., Gigio Bigio, Cesara De Stefani. Vedi anche il thread “Lucio Angelini al tempo del morphing”]. Il colmo fu quando fui denunciato all’abuseman per aver inviato un post di buon compleanno che fu considerato OFF-TOPIC (sic!). C’era una mezza dozzina di postatori (anonimi) a cui stavo sulle balle e chi mi denunciavano all’abuse un giorno sì e un giorno no, senza che mai si sapessero i loro veri nomi. Facile, no? Ripeto, la rete pullula di malevoli e malintenzionati. Ecco una delle mie risposte:

    “”Se io rispondo a tale Lupo Buono firmandomi Agnello Cattivo, o a tale Ron
    firmandomi Ronf Ronf, o invio un messaggio in inglese intitolato “Poo poo pa
    doop” firmandomi Marylin, dovrebbe essere lampante per tutti che si tratta di un gioco.
    Ma Peltia è convinta che nei newsgroup si tengano corsi di ALTA E
    SERIOSISSIMA
    CULTURA in cui sono vietate le battute o le parodie, benché alcuni di essi
    si
    chiamino direttamente it.fan.culo o it.arte.TRASH! Ogni volta che fa il suo
    pomposo ingresso in un ng crede di essere entrata alla Fondazione Giorgio
    Cini, dimenticando (insieme al
    Robespierre da strapazzo dello staff di Abuse-Infostrada) che il 98% dei
    post di usenet
    è costituito da mero baccagliamento e spazzatura, cazzeggio e consolidamento
    dei rapporti reciproci (ancorché virtuali).

    Quanto a me, COME TUTTI ho attirato antipatie e SIMPATIE (potrei dare
    anch’io
    i riferimenti googlografici dei messaggi di simpatia ricevuti, ma a che pro
    dare corda al suo squallido fanatismo?).

    Insomma Peltia DESIDERA CHE IO
    SPARISCA DALLA FACCIA DI USENET come HITLER DESIDERAVA CHE GLI EBREI
    SPARISSERO DALLA FACCIA DELLA TERRA, da quella fascistella intollerante,
    testa di cazzo, spaccamarroni e piagnucolosa che è!

    Mi sono divertito a sfottere un po’ il Gruppo Dirigente di
    it.cultura.linguistica.inglese (alias ILLUMINATED REALM… sic), formato da
    quattro tizie che si fanno chiamare Sua Altezza Reale + qualche KNIGHT IN
    SHINING ARMOUR per la PROSOPOPEA E
    L’AGGRESSIVITA’ gratuitamente dimostrate nei miei confronti (e quanto a
    insulti, i più
    GRAVI sono stati quelli a me rivolti da alcuni di loro).

    E’ vero, ho osato chiamare la grande capa carismatica di Icling (Peltia)
    Peltia la Petomane. E allora?

    LA FACILITA’ CON CUI LA TALEBANA DI ABUSE/INFOSTRADA SPEGNE GLI ACCOUNT o
    blacklista gli utenti ha qualcosa di PATOLOGICO, di kafkiano. Ma da che
    mondo arriva? Ma di quale delirio di ONNIPOTENZA soffre?
    Quando mi arrivò la prima ammonizione per aver inviato dei semplici auguri
    di compleanno (prendendo l’esempio da un post di una delle Altezze Reali di
    Icling, a cui nessuno obiettò nulla) pensai si trattasse di
    uno scherzo: non poteva essere vero che si minacciasse un provvedimento così
    grave per dei motivi così cretini.

    Quanto alla molteplicità dei miei nick parodistici, ho più volte integrato
    io stesso la lista di Peltia, indicando quelli della prima fase: Buzzurro
    Azzurro eccetera.

    Quello che a Peltia NON vi ha detto è che OGNI VOLTA ho fatto il possibile per
    farmi riconoscere come il Lucio Angelini di cui TUTTI hanno indirizzo e
    numero di telefono, dato che,
    sostanzialmente,
    NON HO NULLA DA NASCONDERE, mentre non ho idea di CHI lei sia in realtà. So
    solo che passa le notti a controllare maniacalmente tutto quello che scrivo.
    NON si è persa UN MIO POST, salvo poi andare in giro a piagnucolare che
    NON riusciva a mettermi nel killfile per farmi kaput kaput, da quella brava
    sceriffetta del mio cazzo che è.
    In realtà non l’ha MAI voluto veramente.

    Dovrebbe invitare il tizio del servizio abuse di Infostrada a fare un bel
    giretto in
    campagna con lei. Sarebbero due splendide COMPAGNE DI MERENDE.

    Il vero, squallido, lugubre, maniacale TROLL è lei, incapace di distinguere
    una battuta di caccia da una battuta di spirito.”

    Per chi ne ha voglia, c’è anche il post: “Lucio Angelini al tempo del morphing” o, peggio ancora, una scheda INVENTATA Di SANA PIANTA dai ragazzi di Bynoi [http://www.bynoi.tk/blu/blu.html]

    Contento, mestatore Giovanni Tesio? E comunque i newsgroup non sono una rivista letteraria.

  77. Sempre per Tesio. Per te che ami l’orrido: ieri sono stato stizzosamente attaccato (“recensito”) nel thread “For blog only” di Lipperatura nientemeno che da un amante dell’understatement quale ***Giuseppe Genna***! Insomma non passa giorno che la mia ***naturale antipatia*** non mi procuri qualche nuovo sfan (detrattore):-/

  78. Infine per Tesio: ho ritrovato il post incriminato per cui fui denunciato all’abuse. L’avevo firmato Pi. Bianchi (e NON “P. Bianchi” come il denunciatore), e aveva il seguente contenuto CHIARAMENTE parodistico:

    «Quando si forma un gruppo, per esempio di gente che va a sciare col
    pullman del cral, alla fine c’e’ sempre un clima di appartenenza in
    cui capita che si compiano dei rituali per ribadire l’appartenza
    stessa. Spesso, tuttavia, il clima è guastato dall’immancabile lotta per la
    conquista della supremazia. I gregari, naturalmente, si fanno da parte. Tra
    i possibili leader, invece, si accende molto presto la lotta per
    l’affermazione di sé, che spinge a screditare con ogni possibile mezzo i
    rivali ritenuti più pericolosi.
    Altro meccanismo, evidenziato dagli studi di Franco Basaglia, è quello che
    spinge il gruppo a ribadire la propria sanità/normalità isolando o additando
    al comune disprezzo alcuni individui portatori di “diversità”, da
    etichettare come insani, o patologici…
    (Ammazza quanto so’ bbravo a buttalla sur sociologgico!)

    Pi. Bianchi, Er Mejo!»


    Il contesto erano varie analisi psico-fico-socio eccetera della FOLLIA dell’Angelini inviate dal vero P. Bianchi.

    Quindi ***NON*** mi ero spacciato per P. Bianchi, e il mio post permetteva ai non malevoli di capire immediatamente che si trattava di me, anziché del vero P. Bianchi, che tuttavia aveva preso in giro me. Insomma: ci sono individui che scherzano sugli altri, ma si offendono se si scherza su di loro. Trombonismo, appunto.

  79. NON sarò breve, e me ne scuso.
    A Bart dico che, se limitato al mondo reale e a certi contesti “non intellettuali”, condivido in pieno la sua analisi circa la responsabilità insita nel nome proprio. Ma aggiungo che, come tutte le cose, anche i nomi propri hanno delle zone d’ombra, e a me (come a tutti gli “intellettuali”), quando scrivo, sono queste che mi interessano, ed è di queste che parlavo e parlo. Il NOME come LOGO, insomma, mi pare un bel segno dei tempi, e sono convinto che i nick ne siano una bella esemplificazione, con il vantaggio, però, che i nick, facendo esplodere le contraddizioni di/in tutti i discorsi liberano anche notevoli energie positive e rivoluzionarie. Condivido per queste ragioni il discorso forte, coraggioso della Benedetti e di altri sul nick-logo, ma non capisco perché si pretenda solo di censurarli, senza voler ammettere la realtà è molto più magmatica e misteriosa di quello che immaginiamo, al punto che quello che stigmatizziamo a magari maggiormente odiamo abita proprio dentro o di fianco a noi. Ragion per cui delle volte preferisco anch’io i commenti, come diceva qualcuno da qualche parte, a certi testi che affermano soltanto se stessi, ossia soltanto un NOME SIGNIFICATIVO. Perché nei commenti pulsa invece senza patemi la contraddizione vitale, innominale e impersonale, come ad esempio in quello qui sopra di Melena J., che non si vergogna di ammetterlo, come non mi vergogno io di ammettere di non capirla ancora bene questa faccenda del VERO/FALSO in tutte le sue implicazioni nella scrittura. La forza che si può liberare dalle zone d’ombra dei nick è una forza, secondo me, travolgente, che va solo assecondata e accolta per quello che è, senza pretese di egemonizzarla o dirigerla, come mi pare abbia detto da qualche parte Antonio Moresco. Se assecondata e accolta, questa forza è forse l’unica cosa al mondo d’oggi che può ancora produrre una “voce comune”. E quale cosa migliore e più entusiasmante di una “voce” che parla di quello di cui abbiamo bisogno e desiderio TUTTI, senza mai nominare le VOGLIE di NESSUNO, ovverosia senza mai fare NOMI?
    Nonostante quello che dice Angelini, quindi, nonostante il suo accanimento poliziesco, mi sembra che tutti qui abbiano ormai colto i motivi del mio intervento a firma T. S. Angelini dice che ho fatto una cazzata. Io, sinceramente, a giudicare dal tono interessato e propositivo di tanti commenti, direi proprio il contrario: i contributi di Helena, di Bart e di altri mi sembrano estremamente utili alla discussione, a differenza di tante inutili stupidaggini, alle quali lo stesso Angelini indulge non raramente, che spesso si praticando utilizzando i nick e che non producono altro che astio e rancori. Tutto questo senza nemmeno considerare che non mi sembra di avere, con quell’intervento, dato del pedofilo a nessuno, né ordinato pc con falso nome, né creato particolari problemi a qualcuno. Forse a Franz K., è vero, ho provocato qualche sbandamento, qualche equivoco con Scarpa, ma, anche questo, è evidente che è una conseguenza assolutamente non voluta e accidentale del mio intervento. Non conoscevo, né conosco, né voglio conoscere i rapporti personali tra Scarpa e K. e del resto come ho messo il nome di Scarpa avrei potuto mettere qualsiasi altro nome di N. I. Le querelle personali, ripeto, mi annoiano, ragion per cui mi dispiace di aver creato questo genere di equivoco.
    Ma da dove ero partito? Ero partito dalla lettura dei commenti al pezzo di Montesano sul comico. Devo dire che quei commenti mi avevano molto incuriosito, mi sembrava davvero una bella discussione, e mi avevano portato a fare molte riflessioni. Poi è arrivato il pezzo della Benedetti, che si collegava in maniera brillante, secondo me, a quello sul comico: un bel pezzo profondo, anche se, come dicevo sopra, con tante contraddizioni che lo infarcivano – probabilmente lo stesso genere di contraddizioni di cui parla nel suo commento qui sopra Helena J., che poi sono le contraddizioni della vita, perché noi a volte dimentichiamo che la vita è una cosa che non sempre ci è dato capire, mentre spessissimo invece ci tocca fare i conti con quello che è il contrario di quello che pensiamo e siamo. Il commento di Helena J. qui sopra mi sembra molto bello appunto perché sostanziato di contraddizioni vitali, senza verità a portata di mano e senza spocchia. Infatti, il problema dei NOMI che sta dietro quello dei NICK ha a che fare sia con l’aspetto poliziesco del controllo della vita, sia con il problema della libertà dell’individuo. Secondo me, siamo ancora nel guado, un po’ tutti, a cominciare dai legislatori, che, non so se ci avete fatto caso, non sanno neanche loro che pesci prendere perché davvero qui si gioca una partita importantissima. La Benedetti ha capito molte implicazioni di questa faccenda, ma secondo me è anche lei invischiata in qualcosa che ha a che fare con una vecchia idea di potere, che prevede una gerarchizzazione, seppur in nuove forme, dei rapporti tra gli individui. Io dico che quando all’orizzonte della storia si annunciano grandi cambiamenti, bisognerebbe avere la capacità dei veggenti di andare al di là del proprio tempo, proponendo ALTRE soluzioni, proponendo dei sogni, insomma. Quali? Non lo so, e anch’io vado a finire nel guado alla fine, lo so bene; ma parlo per contribuire a uscirne, insieme a gli altri, questo è il punto. (Anche Scarpa, quando annullò i commenti, cosa fece se non dichiarare il proprio STATO DI CONTRADDIZIONE? E anche quello fu un gesto importante, che rimane nella memoria perché con quel gesto Scarpa aveva intuito un “cambiamento” e aveva “visto” il guado in cui siamo tutti)
    A Bart dico che ho scelto io sia di fare il facchino che di rimanere a Sud. Non sempre c’è dolore dietro la fatica. Faccio il facchino per lasciare via libera alla mia esuberanza fisica, e vivo al Sud forse per lo stesso motivo. Sto bene e non mi lamento di niente, almeno per quanto riguarda la mia vita reale, ma capisco bene quello che mi racconti e so di tante storie diverse dalle mie in sintonia con i tuoi pensieri. Però il mondo è vario, no?
    Concludo con un pensiero per Angelini. Quando leggo i commenti in posti dove c’è Angelini, mi meraviglia sempre che, qualsiasi discussione si faccia, dovunque la si faccia, su qualsivoglia argomento, alla fine si vada, chissà com’è, a finire sempre, nel bene o nel male, sul suo NOME e COGNOME: la qual cosa mi infastidisce, sinceramente, e non so se infastidisca anche lo stesso Angelini. Voglio dire che, fossi in lui, cercherei di mantenere a freno il mio ego, altrimenti la puzza di pubblicità gratuita cresce… o almeno di un certo egocentrismo non troppo controllato (riecco la questione dei NOMI!!…).
    Lascio qui sotto un mio recapito email.
    (Con Helena J. concordo anche nel ritenere i pensieri di Temperanza e Bernardo molto interessanti, e meritevoli di approfondimento – ma io qui ho già parlato troppo)

  80. C’era Giancarlo Pajetta che diceva una cosa a proposito del falso, della diffamazione:
    “Hai un bell’essere scagionato però un po’ di merda addosso ti resta”.
    Un anonimo che sbotta con un post firmato Tiziano Scarpa e scrive porcherie, di fatto diffama Scarpa, e quand’anche Scarpa dimostrasse che l’opera non era sua, tuttavia qualcuno può pensare che pure Scarpa menta e mesti nel torbido.
    Questo è il lato tragicamente reale dell’anonimato.
    Dopo anni di rotture di palle con’sto virtuale e qui è “virtuale”, siamo in un mondo virtuale, oh che bello il virtuale…
    sarebbe bello aprire gli occhi, grazie.
    Sarà per l’età, che sono un rudere del’41 ma capisco fino in fondo Bartolomeo Di Monaco.

  81. Quando ho visto comparire quel commento firmato T.S. io ho capito immediatamente che non era autentico in quanto, potendo ovviamente ricordare le cose che avevo scritto come Bernardo, sapevo benissimo che Scarpa NON POTEVA dichiararsi d’accordo con me, al massimo tollerarmi silenziosamente. Quando poi ho visto F.K. cadere nella trappola, non sono intervenuto soltanto perché l’ho visto cadere “in piedi”, cioè salvaguardando la propria dignità anche a fronte di quel falso ed imbarazzante rimbrotto. Quando più tardi egli ha invece espresso la sua rabbia, mi sono sentito coinvolto, pur da anonimo e pur non c’entrando, probabilmente per una questione di empatia, ovvero perché F.K. è “reale”, mentre per esempio quella “Caterina” con la quale mi ero azzuffato in precedenza fa era soltanto la “marionetta” di qualcun’altro, come lo è Bernardo che quindi, come tale, non può essere colpito dagli insulti ma rimane ben vulnerabile al fastidio dei propri errori.
    Bene, abbiamo così stabilito che le cose non sono affatto semplici, e che realtà ed invenzione, andando in cortocircuito possono certo creare qualche disagio, perché il linguaggio è ovviamente ben capace di “bucare” l’astrattezza di uno strumento fatto di soli caratteri, e di coinvolgerci in vergogne e ripensamenti – come quando mi sono visto passare dai “massimi sistemi” all’insulto di brave persone. Helena ha detto delle cose interessanti, ma c’é forse una nota di tenero paternalismo nelle sue parole, come se coloro che usano un nickname fossero incatenati a questo singolo ruolo. Non è affatto così, per esempio l’appellativo Bernardo io l’ho scelto al volo per un commento di passaggio (“che chiacchiere insulse”) che poi mi ha trattenuto in questi luoghi oltre ogni previsione, perché poi da cosa nasce cosa e poi ci si dimentica così facilmente ciò che si voleva fare, come anche ciò che si è già detto ecc. e così alla fine ci si scopre anche ripetetitivi, e ti assale la noia e la stanchezza di te stesso e del tuo soliloquio (perché è tutto un soliloquio condiviso, non un vero dialogo, lo si ammetta) e ti dici, beh, però adesso stacchiamo la spina e ripassiamo, semmai, tra un mesetto, magari con nome e cognome. Non che la cosa cambi molto, in verità…

  82. A extreme.

    Sono contento che tu non sia fuggito dal sud. Se scrivi qui, voglio pensare che tu sia una persona con tante cose da dire e da fare. Mi pare, proprio qui, non molto tempo fa, qualcuno scriveva che, nauseato del sud, se n’era dovuto andar via.

    Io commentavo, grosso modo: se tutti coloro che potrebbero fare qualcosa per cambiare il sud se ne vanno, chi resta?

    Dunque, extreme, io mi limito a dirti che ammiro la tua decisione di restare nel tuo paese, nella tua città convinto che riuscirai a fare qualcosa per cambiare il sud. So che non è facile, chi sa quanto tempo ancora ci vorrà. Ma il sud, per restare nel campo della letteratura, non è inferiore a nessuno. Ha avuto ed ha narratori di rango, con l’aiuto dei quali, unendosi a loro, si può fare molto.

    Ti ho detto che ho sangue meridionale nelle vene. Sono toscano di Lucca, e la mia natura prevalente è quella del toscano (a San Prisco ci sono nato soltanto, in tempo di guerra, quando i miei genitori già vivevano a Lucca. Dopo i 40 giorni prescritti di “quarantena” per la partoriente, ero già a casa mia, in Toscana), ma credo di amare il sud dal di dentro, poiché quando ne leggo, qualcosa si muove nel mio sangue.

    Insomma, il sud non merita di essere abbandonato.

    Bart

  83. Scrive Extreme (a parte un’altra quintalata di giri di parole per convincerci che la sua è stata solo una geniale e liberatoria performance… ma solo Tiziano Scarpa, a questo punto, potrebbe dire fino a che punto si è sentito divertito e liberato):

    “Quando leggo i commenti in posti dove c’è Angelini, mi meraviglia sempre che, qualsiasi discussione si faccia, dovunque la si faccia, su qualsivoglia argomento, alla fine si vada, chissà com’è, a finire sempre, nel bene o nel male, sul suo NOME e COGNOME: la qual cosa mi infastidisce, sinceramente, e non so se infastidisca anche lo stesso Angelini. Voglio dire che, fossi in lui, cercherei di mantenere a freno il mio ego, altrimenti la puzza di pubblicità gratuita cresce… “.

    La pubblicità, si sa, mira alla vendita di un prodotto. Quale sarebbe, in questo caso, il prodotto promozionato? I libri da me tradotti? Cioè dovrei sperare che, andando a comprare il prosciutto, il mio prosciuttaio di fiducia esclamasse rapito: “Ah, ho seguito con il fiato sospeso la sua polemica con Extreme su Nazione Indiana. Complimenti. Ora vado subito in libreria a ordinare un libro tradotto da lei!”?
    O che la gente per strada si girasse sussurrando: “Accidenti, quello è il famoso ***Fake di Angelini*** che si è dichiarato contrario all’usurpazione delle generalità altrui on line!!!!!”

    Suvvia, siamo seri. Una volta avevo in circolazione vari libretti per bambini. Ultimamente ho solo traduzioni. E sai quanto gliene fotte alla gente dei traduttori?

    The answer, my friend, is blowing in the wind…

    Senza contare che il traduttore, notoriamente, è pagato una volta sola a forfait. Che il libro venda poco o venda molto per lui non ci sono royalties.
    Aggiungo che sono anni che frequento vari niusgruppi nelle pause tra una traduzione e l’altra. Di molti contributi estemporanei mi vergogno tantissimo, e purtroppo Google non perdona:-/ Quello che, in ogni caso, non vorrei, è dovermi vergognare anche di cazzeggi usciti dalla testa di altri ma ***postati a mio nome***. Che ognuno si firmi i propri, col nome o con un nick, come preferisce.

    Certo, se la firma clonata è solo ‘Anna’ o ‘Geronimo’, il danno della falsificazione è minimo, quand’anche venissero postati sfoghi nazistoidi. Anna o Geronimo possono essere tutti e nessuno. Ma se un anonimo si firma Raul Montanari in un sito frequentato, appunto, anche dal vero Raul Montanari, il clonatore non è un geniale performer, bensì un… “compagno – anzi camerata – che sbaglia”:-/

    Diversa la storia del mio Pi. Bianchi (comunque distinto da P. Bianchi), come spiegato sopra, anche se la denuncia scattò lo stesso.

    Se, come dici tu, una firma vale l’altra, ti saresti potuto tranquillamente firmare ‘Richard Gere’ e certamente nessuno avrebbe ritenuto PROBABILE trattarsi di lui. Lo scherzo, insomma, sarebbe risultato auto-evidente.

  84. Riguardo alle “quintalate di giri di parole” di cui mi accusa Angelini (sì, avete capito bene: Angelini, quello che scrive qui, e altrove, più di tutti quanti messi assieme), mi sono già scusato e mi scuso ancora. Magari dopo questo intervento me ne starò zitto e toglierò il disturbo, e lascerò che anche questo thread si chiuda con il solito “fake” del Nostro. Prima, però, ad Angelini medesimo, che, com’è evidente a tutti, non ha argomenti da proporre alla discussione, se non le solite giustificazioni e lamentazioni e sensi di persecuzione per il suo NOME bistrattato e offeso e bla bla bla (anche questa è pubblicità, baby! Per cosa? Ma per il NOME! Il NOME, che è un capitale tutto da investire! E tu mica sei un fesso che non lo sai!), vorrei dire ancora qualcosa, perché vedo che non coglie granché, o fa finta.
    Se volevo solo “fare uno scherzo”, come tanti ne fanno con i nick, non mi sarei firmato Scarpa, e non avrei scritto una cosa da nulla, come ho scritto, a suo nome. Avrei scritto magari delle cose volgari o pesanti od offensive, e forse le avrei firmate anche RICHARD GERE, come dici tu. Ma firmando T. S. io ho semplicemente prolungato in quella firma – per PURO CASO (esiste anche quello, purtroppo!) – quello che stavo pensando e dicendo, sia in quel post che nei successivi, e non solo io, ma anche altri come Temperanza, Bernardo, Elena e così via. Ecco un vero esempio di “scrittura e di pensiero collettivi”, pensavo, “altro che Wu Ming e intellettualizzazioni simili!”. Tutto qui. Avrò sbagliato, avrò fatto una cazzata, avrò esagerato? Forse: io non sono sicuro di niente, l’ho già detto e lo ripeto, figuriamoci di queste cose così complesse! (Alle implicazioni penali della faccenda, se proprio vuoi saperlo, non ho neanche minimamente pensato, mi ci avete fatto pensare voi, e sinceramente mi avete anche fatto paura, non mi vergogno ad ammetterlo).
    Ma ritorniamo al dubbio angeliniano, e per certi versi anche “bianchiano” (paragonarmi a un diffamatore di Pajetta mi sembra eccessivo, Signor Bianchi, suvvia!). Saranno ordunque, come adombra Angelini, quelle due frasette qua sopra, scritture che rimarranno ai posteri come testimonianze scarpiane? Mah, neanche questo so bene. Però dico che se i posteri si fideranno di quello che si scrive in un blog (o in un newsgroup o in altri luoghi analoghi) in cui è consentito l’anonimato, saranno dei posteri ben stupidi, non credete? Io penso che un “postero” che vada a ricercare su Google e ritrovi un commento del genere di quello postato sopra, non ne faccia “testimonianza veritiera” di un bel niente, tantomeno di un pensiero scarpiano – e insomma sono proprio convinto che non ci saranno citazioni di quel pensiero in tesi di laurea sul Nostro scrittore. Almeno, voglio sperare! Perché del resto è pur vero che gli uomini sono più stupidi di quello che danno a vedere, e allora, sì, alla fine potresti anche avere ragione tu, Angelini, perché potrebbe esserci in futuro qualcuno che darà credito al nulla vaporoso o a chi si firma “Lupo cattivo” o “Agnello Buono” eccetera. Sì, a pensarci bene, potrebbe anche esserci in futuro un mondo del genere, in cui avresti quindi ragione tu, Angelini. E figurati allora che mondo sarebbe… pieno di verbigerazioni infinite… pieno di mortalissima noia… Auguriamoci altro, no?

  85. “Se, come dici tu, una firma vale l’altra, ti saresti potuto tranquillamente firmare ‘Richard Gere’ e certamente nessuno avrebbe ritenuto PROBABILE trattarsi di lui. Lo scherzo, insomma, sarebbe risultato auto-evidente.”

    Comunque la si pensi sull’uso del nome o del nickname, extreme, il ragionamento di Angelini non fa una grinza.

    Ce la facciamo a toccare i 100 post?
    Potrebbe essere un record per un post qui su NI?

    Bart

  86. Dò un’altra pompatina alla circolazione della nota griffe “Fake di Angelini”. Facciamo due ipotesi: un estraneo forza la serratura di casa mia, entra, mi ruba un acaro della polvere dal tappeto e se ne va. Un altro entra in casa mia, mi ruba tutti i risparmi dal materasso e se ne va.

    Rispetto al reato “violazione di domicilio” i casi sono identici.

    P.S. Il cognome Angelini circola già a sufficienza su TUTTI i prodotti farmaceutici della Angelini Medicinali perché abbia bisogno di promuoverlo qui.

  87. Eh, no. Se abbiamo fatto 100 tanto vale che facciamo 101. Con questa chiusura: io dovrò anche frenare il mio ego, ma extreme dovrà sicuramente frenare il suo senso di colpa… che lo fa sentire un nessuno e lo induce a prolungarsi “inconsciamente” (dice lui)(vedi gli studi freudiano sul lapsus) in qualcuno che, invece, “si è fatto un nome” (lo scrittore Tiziano Scarpa, a cui non fa dire una cosa qualsiasi, ma precisamente che tra i componenti Nazione Indiana c’è un oggettivo problema di POTERE!).

  88. interessante questo thread. la complessità della questione del nick viene fuori tutta. Per quanto, mi sembra, alcuni esagerino nel sancirne la “fatalità”.
    Tuttavia…
    I commenti li firmo sempre col mio nome di battesimo -che mi piace- ma, da qualche tempo, ometto il cognome. Un po’ perché ho un cognome da mozzarella che non mi è mai piaciuto, un po’ perché tempo fa mi è capitata una cosa buffa ma che mi ha dato fastidio.
    Arrivo a lezione e un mio alunno mi fa:
    “Prof, allora com’è andata la partita di calcetto giovedì?”.
    Io:”?”.
    Lui: “ma sì! ho guglizzato il suo nome perché dovevo scriverle e non ricordavo l’email e ho trovato pure dei msg su …, dove si accordava con i suoi amici per andare a giocare a calcetto”.
    Tutto reale. Non che m’interessi granché che qualcuno sappia che vado a giocare a calcetto… ma il pensare che qualsiasi “fiato” firmato in rete sia alla portata di qualsiasi tipo di uso, non nego, m’infastidisce. In genere non faccio una gran fatica a “controllare” ciò che scrivo ma, evidentemente, ciò che scrivo è “controllabile”.
    A questo punto- abbassando i toni seri e concreti che trovo su, lo so, ma con la speranza di non banalizzarli- mi viene da pensare che l’esser sempre e comunque “controllabili” rischi di far perdere ragion d’essere e, forse, creatività anche alla eventuale spinta “ludica” che spesso c’è nello scrivere un commento. Se, cioè, anche l’ebbrezza del cazzeggiamento- nella quale comunque prima o poi s’incappa- rischia di doversi “trattenere” perché si devono considerare i troppi “come” può essere letto il proprio commento, magari qualcosa di veramente interessante rischia di perdersi.

    Per Extreme. Angelini spesso fa incazzare, è vero. Poi, all’improvviso, scrive qualcosa, anche una sola, che molti non vedono o non vogliono vedere. e allora lo rivaluti.

  89. Già, Diego, Google è fantastico e terribile allo stesso tempo. Lo scorso mese io sostenevo le stesse questioni di Bernardo con una sigla, “elio-c”, ed un link che puntava ad un blog che a sua volta puntava a un sito dal quale si poteva ottenere su di me vita morte e miracoli. Dunque nessun anonimato. Ma questo non mi ha assicurato maggiore rispetto perché è bastato insinuare la questione dell’interesse sull’appello di Moresco (e quindi su N.I.) – questione in realtà ineludibile – perché un qualche “guardiano mascherato” rispondesse con un “il povero Elio Copetti” (dunque egli aveva seguito i miei link ed ha pensato di smascherare platealmente chi mascherato non era affatto) nome che, costituendo un “token” non troppo comune, ed essendo N.I. un sito “pesante” per Google (per via dei numerossimi link che lo puntano) è già in hit-parade nella mia google e sono certo che presto ne guadagnerà il primo posto. Certo c’è di peggio, ne convengo, tuttavia questo è un’altra sfaccettatura della complessità da considerare.
    Per quanto mi riguarda, N.I. mi ha profondamente deluso per la maligna ambiguità con cui si pone: chiama esplicitamente alla discussione ma non ti assicura un interlocutore neppure per il breve spazio di un botta e risposta. Chi inserisce un intervento, per esempio Moresco, Carla Benedetti, ecc. dovrebbe essere moralmente tenuto a “gestire” il dibattito che ne segue, almeno per un breve momento – poi può sempre dire educatamente “ragazzi, le questioni sono estremamente interessanti ma io devo andare a fare altre cose”. Altrimenti perché non si ESPLICITA che la discussione è in realtà riservata? Carla Benedetti e Moresco rispondono persino alle sfumature emotive e di linguaggio degli altri “indiani” o “colleghi” (almeno di quelli che valutano “pesanti”) ma ignorano bellamente le questioni serissime che vengono poste nello spazio dei commenti, intervenendo magari a capriccio su qualche aspetto marginale, tanto per far vedere che non si teme di frequentare i bassifondi.
    Questo è veramente offensivo, queste sono le caste, questa è la mancanza di serietà, la falsità di fondo, la demagogia di Nazione Indiana. Io non ne faccio una questione personale perché è ben possibile che mi sia precluso le risposte con i miei movimenti precedenti: qualche tempo prima avevo trattato Scarpa senza simpatia e senza riguardi, quando lui era venuto ad intervenire sul blog di Atelier (ho definito “ciance” un suo intervento e commentato N.I. – a cui avevo dato un primo sguardo non trovandoci, che strano!, lo spazio dei commenti ed argomentando di conseguenza – in una maniera che lui ha trovato “ingiusta” ed “acidissima” – ma che a posteriori mi tocca confermare: pur nell’errore materiale avevo visto giusto!). Comunque, equivoci a parte, io non credo di offendere mai nessuno per primo, soltanto che spesso una semplice visione “riduttiva”, dell’opera o dell’atto, viene percepita come una sanguinosa offesa dal suo suscettibile autore. Io dunque aspetto che Nazione Indiana maturi in senso precisamente democratico, prima di tornare a spenderci dell’autentico impegno.

  90. Copetti, che dire?

    1. “la questione dell’interesse”. Si può sempre rinfacciare a qualcuno che parli per interesse. ma in questo modo si affossa qualunque discorso. Tu, a tuo modo, di fatto tentavi di affossare un nostro discorso. Magari senza volerlo, magari in buona fede. Ma la mossa era quella. Se io dico “c’è un’incendio!, sta bruciando tutto!”, chi mi risponde “lo dici per metterti in mostra!” manco lo prendo in considerazione.

    2. “chiama esplicitamente alla discussione ma non ti assicura un interlocutore neppure per il breve spazio di un botta e risposta”.

    Vedi il bicchiere mezzo vuoto. Liberissimo di farlo. Qui ci sono scrittori e intellettuali che si impegnano, scrivono gratuitamente, ci mettono il tempo che possono. Perché non vai a protestare da Umberto Eco, Baricco, e quanti altri, che ti negano qualunque interfaccia? Facciamo quello che possiamo. E’ poco? Mi dispiace. Ma sai, se gli interlocutori sono come te, che vedi solo autopromozioni ovunque…

    3. “tanto per far vedere che non si teme di frequentare i bassifondi”

    Ho preso questo esempio fra i molti del tuo argomentare, esempio che basta a far vedere quanto ci interpreti “in cagnesco”. Se uno non interviene, è perché non si degna… se interviene, è per far vedere che non teme di frequentare i bassifondi. Non ti va bene nulla! Pazienza. Ci sono stati periodi di Nazione Indiana in cui intervenivamo tantissimo. Sai che ti dico? Che hai ragione, in un certo senso sono deluso anch’io COME TE. Non ne vale la pena. E’ tempo sprecato. Han ragione persone come Genna e il gruppo di Carmilla, che hanno tolto i commenti dai loro siti. La comunicazione avvenga in rete. Ognuno ha il suo blog, il suo sito, non vedo perché perdere tempo con chi scrive fregnacce, o non si firma, o viene qui a lagnarsi perché han scoperto come si chiama e adesso su google la zia lo verrà a sapere. Naturalmente è una mia opinione personale, che non riguarda gli altri di Nazione Indiana.

    4. “avevo trattato Scarpa senza simpatia e senza riguardi”.

    Guarda, lasciamo perdere. Tu stesso poi hai scritto una penosa ritrattazione dicendo che avevi letto e scritto in fretta e furia di mattina presto lasciando un messaggio men che meditato ecc. Mi rimproveravi di aver messo il link a Nazione Indiana (come faccio qui sempre, per evitare che compaia il mio indirizzo di posta elettronica, altrimenti ricevo centinaia di spamming, virus, ecc., tempo fa me ne hanno mandati 700 in un colpo solo), nella casellina tecnica dell’URL. Sei partito a testa bassa rimproverando il fatto che mi facevo pubblicità. Che cosa vuoi discutere con un tipo così, che vede autopromozione dappertutto, anche nelle mosse più normali, semplici, tecnicamente neutre della rete?

    Guarda, se persino una cosa egalitaria, libera, oblativa come Nazione Indiana ti ha deluso, io non so proprio che dirti. Se tu qui sei riuscito a vedere soltanto demagogia, io rimango senza parole. Significa che veramente in Italia non c’è speranza di metterci dell’impegno serio e del volontariato culturale senza secondi fini.
    Ti auguro buona fortuna

  91. Io non vedo “solo” demagogia, ma vedo “anche” demagogia e mostrare precisamente dove la vedo non è “affossare”, ma semmai dare la possibilità di renderlo più robusto, quel discorso. Ma suppongo vi sia di mezzo una certa incomunicabilità di fondo se tu, quella volta, hai visto quelle mie “ammissioni”, quel mio accettare in parte delle ragioni dell’ “avversario” come una “penosa ritrattazione”: qui siamo alla pura e semplice dissonanza cognitiva, ma i testi sono ancora là, e ti faccio notare che il passaggio cruciale da un giudizio su un discorso (opera, atto) ad un giudizio sulla persona, l’hai compiuto tu per primo (anzi tu da solo, perché io al massimo ti ho dato dell’antipatico) con delle arroganti proiezioni psicologiche sopra la mia presunta personalità. Ma questo non è importante, e poi sento che ti esprimi in buona fede, e per di più mi rincresce molto che la ricerca di ciò che a me sembra in questo momento essere la “verità” dei fatti (provvisoria, parziale, eternamente rivedibile) possa andare ad “affossare” un’impresa che per molti altri motivi mi sentirei invece di appoggiare. Ma vedo che qualche cosa hai ammesso e me ne rallegro, io di condanne definitive non ne emetto, spero anzi in un’evoluzione positiva tanto mia quanto di N.I., che sconta problemi generali, non colpe specifiche (su Atelier ho svolto una critica simile ma nessuno mi ha accusato di “affossare”: Merlin ha semplicemente ammesso che certe cose non possono essere svolte in pubblico, o meglio sotto l’occhio di un pubblico ostile, e non vi è stato screzio alcuno). Bene, direi che è quasi un chiarimento, e ricambierei il tuo augurio se non lo vedessi intriso di snobistica ironia. Meglio rimanere sul discorso diretto.

  92. “Questo è veramente offensivo, queste sono le caste, questa è la mancanza di serietà, la falsità di fondo, la demagogia di Nazione Indiana.” Elio C, ma a chi la racconti? Questo hai scritto, e adesso fai pure il savio…

  93. Si.

    Questo è [ciò che trovo di] veramente offensivo, queste sono le caste [di cui ho parlato], la falsità di fondo [che avverto in certa prosopopea], la demagogia di Nazione Indiana.

    Si, questa è stata precisamente la mia percezione AL TERMINE di un mese di frequentazione. Percezione vera o falsa? O meglio, quanto vera o quanto falsa? Era ciò che mi sarebbe piaciuto stabilire attraverso il confronto.

    Rappresenta forse l’espressione di una simile “percezione” già un’offesa o un insulto in sè? Forse sì, e allora vuol dire che ho sbagliato i miei “protocolli” di interazione, ne prendo atto, probabilmente è il retaggio di esperienze in ambienti un poco più “sciolti” (ma no! non mi sto giustificando: è colpa mia – ontologica – va bene? per me fa lo stesso …)

    Ma per me invece rappresentava una “posizione di partenza”, una sorta di sfida, ma come “sparring partner” non come sicario. L’interpretazione “in cagnesco” rappresenta una precisa presa di posizione filosofica, basata sul materialismo culturale, che pensavo potesse andare incontro al destino che merita, quale semplice sonda cognitiva, venendo quindi affrontata, schivata con abilità, ritorta verso il suo latore, tutto quello che si vuole. Io ci avrei comunque guadagnato in “sapere” anche al costo di rimetterci in “immagine” (la cui gestione non rappresenta per me un problema). Non è andata così, e ne prendo atto. Non ci muore nessuno, e purtroppo l’accettuazione dei toni è necessaria a ottenere udienza. Ma questo non dovevo dirlo perché ogni ammissione viene intesa come una debolezza. Già il pop-up di O’Purpo (il solito zelante guardiano mascherato) è un gran brutto segno.

    O’Purpo, se vuoi discutere svelati, sennò fatti i cazzi tuoi.

  94. Tiziano Scarpa:
    – Ci sono stati periodi di Nazione Indiana in cui intervenivamo tantissimo. Sai che ti dico? Che hai ragione, in un certo senso sono deluso anch’io COME TE. Non ne vale la pena. E’ tempo sprecato. Han ragione persone come Genna e il gruppo di Carmilla, che hanno tolto i commenti dai loro siti. La comunicazione avvenga in rete. Ognuno ha il suo blog, il suo sito, non vedo perché perdere tempo con chi scrive fregnacce, o non si firma, o viene qui a lagnarsi perché han scoperto come si chiama e adesso su google la zia lo verrà a sapere. Naturalmente è una mia opinione personale, che non riguarda gli altri di Nazione Indiana.-

    Forse hai ragione Tiziano. Però mi sembra ci sia stato un periodo in cui non si riusciva a lasciare commenti: avete provato a valutare la differenza di contatti al sito? Soprattutto, è valutabile l’eventuale scarto di interesse che N.I. riscuoterebbe senza i commenti? Ma forse neanche questo è fondamentale. Lo dico senza polemica.
    Io semplicemente ritengo che questo posto- rispetto a Carmilla o a I Miserabili- ha proprio questo valore aggiunto: leggere tra i commenti quelli di molti che non avrebbero spazi altrove e che dicono cose utili e stimolanti. In fin dei conti i commenti che non interessano, non si è costretti a leggerli.
    Firmo con nome e cognome, stavolta. Mi sono assicurato che mia zia non usa il computer…

  95. Per quello che vale, mi associo a diego. Rispetto alle tradizionali riviste, internet consente un dialogo immadiato tra persone che non si conoscono ed hanno qualcosa da dire.

    Sarebbe un grave errore, secondo me, chiudersi ai commenti. Un regredire, e di molto.

    Poi, sto constatando che già alcuni si firmano con nome e cognome (vero, devo desumere) rispetto al passato, e mi pare che la rivista non possa che guadagnarci in credibilità e serietà.

    Bart

  96. Scusate, ma non avete la sensazione di essere finiti a discutere del sesso degli angeli ? C’è bisogno di far filosofia sull’uso dei nick ? Si possono scrivere cose intelligenti firmandole con un nick e grandi cazzate firmandole con nome e cognome. La linea di Tiziano è forse incompatibile con le altre ? In che cosa limita o danneggia la libertà di scrivere cose intelligenti ?

  97. Bart, li ho letti e fino a un certo punto mi sembrava una discussione che valeva la pena di affrontare una volta per tutte. Poi ha preso la deriva bizantina di quando si insiste per partito preso.

  98. Sì, è vero. E’ difficile modificare le proprie convinzioni. Però, è sempre utile (direi anche: importante) discuterne. Poi, quando si discute, si sa, si rischia di ripetersi e di non finirla più.

    Però, è stato bello lo stesso.

    Una nota che non c’entra. Stamani, penso di finire la lettura di “Rosalia” di Enrico Pea, un lucchese come me. Avevo letto il libro vent’anni fa, quando non scrivevo di queste cose. Ricordavo che era bravo (c’è a dimostrarlo la sua tetralogia: Moscardino-Il Volto Santo-Il servitore del diavolo-Magoometto), ma, confrontandolo anche con le novità presenti negli scrittori di oggi, Pea resta davvero un gigante. Qualcuno, tra quelli autorevoli, dovrebbe riprenderlo in mano e parlarne. Io cercherò di stendere il mio pezzo nel pomeriggio e lo metterò qui perché qualcuno se ne faccia un’idea:

    http://space.tin.it/clubnet/badimona/Pea.htm

    Bart

  99. Avverto l’esigenza di riassumere i termini di un’esperienza, quella con N.I., comunque significativa e ricca di insegnamenti, anche se non certo idilliaca. Vi sono stati da parte mia diversi errori, alcune “violenze simboliche”, enfasi retoriche, accentuazioni dialettiche, certamente eccessive – come mi ha anche fatto notare O’Purpo – ma d’altra parte non mi sono mai neppure avvicinato alla violenza verbale di un Genna, tanto per fare un esempio non banale, e soltanto per specificare che in rete la “violenza simbolica” è una situazione piuttosto comune e per certi versi “cognitivamente” più giustificata che non nella vita reale. Alcuni di tali errori saranno di certo legati ad “ombre” o problemi nella mia personalità, altri derivano certamente dai limiti del mezzo o da limiti culturali, altri ancora sono legati alla mancanza di un interlocutore almeno temporaneamente “costante”: quando questo c’è, in un due/tre tornate si riesce di norma a dissolvere i malintesi e ad enucleare la questione nella sua purezza. Per ottenere questo, su N.I. c’è stato invece bisogno di parecchie “pugnalate nel buio” e conseguente spargimento di “sangue virtuale”, ma alla fine penso che ci siamo arrivati ugualmente, e che la questione sia sintetizzabile in questo passaggio:
    ===
    2. “chiama esplicitamente alla discussione ma non ti assicura un interlocutore neppure per il breve spazio di un botta e risposta”.

    T.S.> Vedi il bicchiere mezzo vuoto. Liberissimo di farlo. Qui ci sono scrittori e intellettuali che si impegnano, scrivono gratuitamente, ci mettono il tempo che possono. Perché non vai a protestare da Umberto Eco, Baricco, e quanti altri, che ti negano qualunque interfaccia? Facciamo quello che possiamo. E’ poco? Mi dispiace.

    T.S.> Ma sai, se gli interlocutori sono come te, che vedi solo autopromozioni ovunque…
    ===

    Il primo punto della risposta rappresenta l’accordo: importante lasciar vedere il bicchiere mezzo vuoto, cioè lasciar “desiderare” per la rete delle valenze più utopistiche e radicali di quelle attuali. Perfetto anche il “facciamo quello che possiamo” – questo vale anche per gli interlocutori: anche noi spendiamo tempo ed impegno “gratis”, con “ritorni” cioè altrettanto problematici.

    Il secondo punto rappresenta il disaccordo residuo. E qui vorrei aggiungere qualcosa, non certo per “ripulirmi” l’immagine agli occhi di qualche O’Purpo, ma per un autentico interesse “intellettuale” nella questione.

    Occorre prima di tutto distinguere tra Nazione Indiana e le questioni legate all’ “appello sulla restaurazione”.
    N.I. come sito di discussione letteraria io non l’ho mai messo in discussione di una virgola, come non mi sono mai sognato di mettere in discussione la reputazione o la rilevanza di Tiziano Scarpa, o di Antonio Moresco, o di chiunque altro, come scrittori. Sono fuori da tale campo (né aspirante ad entrarci) e quindi fuori da ogni sospetto di “rivalità” – penso che questo possa essermi riconosciuto. Dunque tutto quanto riguarda specificatamente la letteratura non mi vede coinvolto – in questo frangente sono “pubblico puro”: pilucco e assaggio ciò che mi incuriosisce, opero qualche approfondimento, lascio perdere il resto – tutto questo senza una sola riga di commento.

    Le questioni che mi “coinvolgono” stanno su di un altro piano. Sono le questioni del “campo intellettuale”, portato prepotentemente alla ribalta proprio dagli appelli sulla Restaurazione. In questo senso è inevitabile guardare il gruppo di Nazione Indiana come ad una “cordata” o “alleanza” con degli obiettivi specifici entro il campo di una lotta di potere. Sarebbe credo, intollerabilmente ingenuo negare una tale valenza, per quanto questa oggettivazione possa essere sentita come una riduzione/insinuazione volgare e materialistica, o persino come una tipica espressione di risentimento o invidia. Ma potrei anche dire che il mio vero interlocutore era in questo caso Carla Benedetti, che però mi ha sempre lasciato friggere nel mio grasso: io non ho mollato e mi sono adeguato, predisponendomi ad “animarla” fittiziamente attraverso i suoi interventi e le sue risposte ad altri, è ovvio però che così la fatica è doppia, gli esiti più scadenti, e del tutto naturale il sospetto, e conseguente risentimento, che essa abbia volutamente lasciato da parte le questioni “più scomode” – per quanto da me rozzamente formulate. Ma nel mio concetto ingenuo di “intellettuale”, una grande mente – titolata come la sua – avrebbe raccolto da terra la questione, l’avrebbe facilmente ripulita dalle scorie d’ingenuità e le avrebbe dato un’illuminante risposta, che mi avrebbe reso grato e tenuto impegnato magari per mesi in nuove riflessioni. Questa è la mia visione utopistica.

    Invece ho incontrato – insolenze dei “guardiani mascherati” a parte – un silenzio che, se non avessi ricevuto diverse e-mail di gente che diceva di essere d’accordo su molte delle cose che scrivevo, mi avrebbe certo dovuto consigliare di rivolgermi a un SERT, per qualche messa a punto …

    T.S.> Si può sempre rinfacciare a qualcuno che parli per interesse. ma in questo modo si affossa qualunque discorso. Tu, a tuo modo, di fatto tentavi di affossare un nostro discorso. Magari senza volerlo, magari in buona fede. Ma la mossa era quella.

    Questo perché purtroppo è stata intesa come un’insinuazione (inesistente) sul “sentimento” che anima i singoli individui e non come il tentativo di oggettivare delle pratiche che mi sembrano davvero un po’ troppo “naturalizzate”. Si tratta di una problematizzazione certamente difficile, forse neppure alla mia portata, ma che ritengo ancora necessaria per un “salto di qualità”, per dare un fondamento reale a certi appelli (ripeto, a quelli, non a N.I.) che altrimenti mi appaiono come propaganda e gioco delle parti piuttosto spregevole, in quanto sembrano attuare immediatamente proprio le pratiche che denunciano.
    Io i miei riferimenti li avevo dati (Bourdieu ecc.) ma non vi è stato mai il minimo “rilancio” intellettuale: questa e solamente questa è la materia della mia delusione – che è una presa d’atto priva di valenze “moralistiche”. Mai dubitato davvero che dietro alle maschere ci siano comunque delle brave persone. E con questo direi che da parte mia chiudo davvero l’intero argomento.

  100. Ferrazzi dice benissimo in poche parole quello che io con tanta prolissità e qualche tentativo di provocazione (spesso scrivo di fretta e assolutamente spensierato) forse ancora non sono riuscito a spiegare. Colgo l’occasione per riprovarci, e mi scuso ancora se non sarò breve.
    Da che mondo è mondo esistono i nickname, ed esistono proprio per garantire, in circostanze particolari persecutorie o rischiose, una incolumità fisica e intellettuale a chi scrive. Potrei fare tantissimi esempi “letterari” e non (si pensi ai partigiani o ai clandestini in tanti contesti dittatoriali), ma lascio questo lavoro, peraltro utilissimo, alle persone colte. Dietro il problema dei nick, però, oltre a questo, OGGI si nasconde qualcos’altro. Si nasconde, come dicevo, il problema di una società che di collettivo non ha quasi più nulla perché tutto ricade sulle spalle di un individuo in apparenza più libero, ma in realtà sempre più solo e angustiato. Un bell’esempio di tale “apparenza di libertà” è ben visibile nel NOME-LOGO, nel NOME-CAPITALE da investire in qualsiasi maniera pur di apparire e consumare la propria individualità con il maggior profitto e godimento possibili: sì, ho detto “godimento”, godimento del proprio AMOR SUI. Eppure, sopra avevo detto che i nick esistono da che mondo è mondo, ed esistono con un valore positivo. Possibile che nell’uso moderno che invece se ne fa nella nostra società sia andata perduta del tutto questa positività? Provo a riflettere, per capirci meglio, sulle modalità con cui si usano oggi i nick in questo contesto di N. I..
    Chi non si firma in una discussione come quella che ad esempio si sta facendo qui, spesso dice imbecillità o volgarità, ha ragione Scarpa. Ma ancora più spesso chi non si firma, o si firma “Cagliostro” o “Cenerentola”, ha un obiettivo preciso: rimandare al proprio blog e procurarsi, attraverso questa BELLA e ANODINA maschera del NOME FALSO, una certa fama.
    Però altre volte, molto molto molto più raramente, chi non si firma col proprio nome o nome proprio, parla in maniera assolutamente disinteressata. Disinteressata di cosa? Ma… del proprio nome o nome proprio, io direi! Ed è questo che a me interessa, perché è questo caso specifico qua che rende possibile andare oltre. Perché è in questo caso specifico qua che è possibile la liberazione di energia “rivoluzionaria”, come avrebbe detto Benjamin pensando ai surrealisti, attraverso una parola che NON HA NOME e non PRETENDE RICONOSCIBILITA’ e RESPONSABILITA’. La critica di Carla Benedetti, come dicevo altrove, è molto coraggiosa, ma si ferma sulla soglia delle potenzialità assolute e fa ricadere tutto in una logica vecchia di potere, di gestione o di recriminazione. Il nickname, se usato “a dovere”, cioè come ho appena detto qui sopra, può davvero rompere, NEL PROFONDO, le logiche che abbiamo introiettate dentro, che sono logiche di dominio basate non sul nome FALSO, ma su quello VERO. Questo è quello che c’è da combattere: la pretesa di VERITA’ che ci costringono fin da piccoli a pensare che emani dal nostro NOME PROPRIO (cioè di cui ci viene affidata la ***proprietà*** quasi per contratto familiare, sociale, culturale) – quando da un NOME PROPRIO, in realtà, non emana un bel niente, e se c’è qualche piccola verità raggiungibile, essa lo è sempre INSIEME agli altri, cioè mentre parliamo con gli altri e degli altri, e le parole non appartengono a nessuno, nessuno è ***proprietario*** dei discorsi.
    Soffermarsi allora a criticare l’uso del nick senza vedere le potenzialità POSITIVE che potrebbero aprirsi utilizzandolo come strumento di critica e azione sociale profonda, mi sembra riduttivo. È ovvio che nella realtà un uso del genere del nick non sussiste, e quindi chi si maschera spesso lo fa senza pensarci su e senza aver niente altro da fare che prendersi un po’ di divertimento. Ma c’è anche chi, nel bel mezzo del Carnevale, indossa la Maschera della Morte Rossa e ci sconvolge e sconvolge nello stesso tempo la logica dell’Ordine e quella del Carnevale, perché appare per affermare che non c’è distinzione tra realtà e finzione, ossia che dietro la Maschera non c’è niente altro che SE STESSA, ovvero la verità di quello che abbiamo di fronte, del segno che ci parla da sé molto chiaramente del nostro destino unico, ineludibile. Dietro i nick non dovrebbe mai esserci niente, nessuna identità che PRETENDA di dimostrare questo e quell’altro, e che magari al momento giusto – colpo di scena pubblicitariamente preparato! – ci sveli la VERITA’ del suo volto. A chi legge, a chi scrive (citavo sopra Foucault) non dovrebbero interessare i volti e le identità anagrafiche, ma i SEGNI per quello che sono, quindi le parole per dove ci portano. Io mi sono firmato EXTREME e ora potrei firmarmi con il mio ANTONIO FRANZA, ma cosa avrei aggiunto se non un referente anagrafico inutile alle mie parole, ovverosia utile soltanto a chi avesse voglia non di seguire il mio discorso, ma di “avere a che fare con me” per altri motivi assolutamente estranei a questo discorso qui? Ecco perché Ferrazzi, nella sua semplicità disarmata, dice come stanno le cose con una battuta felice (e sintetica!): si possono scrivere cazzate con o senza nick! E pone quindi – FINALMENTE! – l’accento su quello che si scrive, non più sul nome di chi scrive. Quando cominceremo, allora, a fare tutti così, caro Bart, caro Angelini, caro Copetti: non a “firmarci” con il nostro vero nome, dico, ma a parlare tutti un identico discorso veritiero, cioè UTILE a tutti per capire meglio dove e come viviamo?
    E infine si può dire quel che si vuole – e anch’io ho da dire e criticare a iosa – ma N. I. resta uno dei pochi luoghi in cui OGGI è possibile vedere queste contraddizioni allo scoperto, scorgere le vene che pulsano dell’”anima mundi”. Scarpa, fai bene a lamentarti dell’inutilità dei commenti, ma non mi sembra che ci sia ancora una soluzione buona e giusta, che faccia uscire dall’alternativa ELIMINARLI/TENERLI, perché sia ELIMINARLI che TENERLI non risolvono un bel niente, mi pare, e tutti sono/siamo insoddisfatti sia dell’una che dell’altra soluzione. Io non so cosa suggerire, ma certo è su questo che tocca discutere e pensare, è a questo che bisogna trovare una risposta, che poi è una risposta a una domanda antica quanto il mondo umano: COME dobbiamo stare insieme senza danneggiarci reciprocamente?

  101. Credo che tutte le ragioni pro e contro siano state espresse (ho l’impressione che questo thread abbia battuto i record, qui, di commenti)

    Io non ho altro da aggiungere a quanto ho già scritto.

    1 – Ribadisco che vedo un limite (negativo assai) in chi, come extreme, ritiene che il nickname consente di liberare delle positività che altrimenti rimarrebbero nascoste.

    2 D’accordo invece che si possono dire cose intelligenti e importanti sia usando il nickname che il nome vero.

    3 – Posto il punto 2, io, che non condivido la distinzione circa i risultati diversi ottenibili con il nickname e con il nome vero – punto 1 – non vedo perché non si possa usare il nome vero.

    Ho risposto poiché sono stato citato, ma, secondo me, la discussione è giunta ormai al capolinea. Non ti sembra?

    Bart

  102. Io non saprei dire dove è giunta la discussione, perciò non mi sento di inibire chi voglia ancora dire qualcosa. Per quanto mi riguarda, ho scritto l’ultimo post per chiarire in forma più piana certe cose che avevo forse detto in maniera confusa. Però è vero, le ragioni fondamentali ormai sono chiare – e ti faccio notare, Bart, che non ho mai detto che non PUOI o non DEVI usare il nome vero: dicevo solo che la questione del NOME D’AUTORE dovrebbe essere secondaria, e invece a volte pare che sia l’unica cosa che conti.
    Restano infine i dubbi su tante cose. Ebbe’, cosa possiamo farci? Quelli mi sa ce li porteremo appresso.

  103. Il discorso di Extreme contiene un nucleo, quello focaultiano, molto suggestivo, ed anche coerente. Forse il futuro potrebbe muoversi davvero in tale direzione, nel quadro di un rivoluzione “cognitiva” che in fondo è appena cominciata. Alcuni segni in tal senso mi sembra proprio che ci siano. Penso però che in tutti i contesti ed imprese in cui l'”essenziale” avviene fuori da Internet, cioé Altrove, i nomi, i titoli, i ruoli continuino a contare massimamente, così come la incessante lotta per l’accreditamento e legittimazione di tali nomi, titoli, e ruoli. Su questo non è proprio il caso di farsi illusioni.

  104. Caro Franza, sui nick io ho detto ormai decine di volte in questi commenti come la penso nei mesi scorsi. C’è anche una certa spossatezza a dover ripetersi cento volte, me lo concederete umanamente questo? (lo dico anche a Copetti, in generale, non tanto su questo tema: sapessi quante volte in questi due anni e due mesi siamo intervenuti nella finestra dei commenti a ripetere gli stessi concetti… A un certo punto uno non ce la fa più).

    Comunque: quella di Franza è un’ottima utopia, che condividerei se condividessi anche la sua visione del mondo. Non sono per niente d’accordo su quel che dice a proposito dei nomi. Il nome non è uno stigma dell'”amor sui”. E’ il trattino referenziale che unisce il discorso alla persona, alla responsabilità di ciò che dice. Finché il mondo e le persone nel mondo avranno nomi, i discorsi avranno senso politico. Altrimenti i discorsi galleggeranno come pura virtualità.

    Faccio un esempio: immaginate un appello contro la pena di morte firmata da nickname. Ridicolo, no? Immaginate un appello contro la legge sulla tortura, contro il mandato di cattura a persone perseguitate per reati politici, immaginate queste cose firmate da nickname. Ridicolo, no? Accettereste un assegno firmato da un nickname?

    E poi: io firmandomi con il mio nome mi assumo anche la responsabilità di una coerenza etica dei miei discorsi, seppure con tutti i miei madornali limiti umani. Se dico una cosa, e la firmo col mio nome, può sempre saltar fuori uno che mi ribatta: “eh, ma nel 2003 in quel giornale avevi sostenuto il contrario”. E’ un’obiezione che ha il peso che ha (cioè: non obietta a quel che ho detto **questa volta**), ma io con il gesto stesso di firmarmi con il mio nome mi dimostro disposto ad accoglierla. Ora, io penso che in generale quel tipo di obiezione non sia del tutto corretta, ovvero lo sia in termini individuali (quel tipo farebbe bene a farmi notare la mia incoerenza), ma non gioverebbe molto al discorso collettivo (io magari oggi potrei dire cose molto più sensate, sebbene opposte, rispetto a quell’articolo del 2003).

    Inoltre, sul piano della correttezza dialettica, non è leale, non è “ad armi pari” discutere con chi, presentandosi con un nickname, non si assume la responsabilità anche di tutti gli altri discorsi che ha fatto altrove rispetto a **questa discussione qui**.

    “E chi se ne frega se non siamo ad armi pari?”, potreste obiettare, “qui si tratta di fare un discorso collettivo che aumenti il sapere e le acquisizioni ed eventualmente porti a decisioni, a cambiamenti di mentalità, a slittamenti progressivi e positivi per il bene comune”… Vero, ma siccome io difendo discorsi, posizioni, elaborazioni, e qualcuno può arrivare in qualsisasi momento a dire “Scarpa, non sei coerente! Ho le prove, ecco qua un articolo del 2003!”, ecco che ad essere non ad armi pari non è tanto Scarpa (il che conta poco), ma il suo discorso (il discorso che potrebbe contribuire al bene comune), il discorso firmato con nome e cognome, rispetto a quello con il nickname, il discorso firmato che potrebbe portare a un progresso positivo collettivo, ma che può essere smontato con un’obiezione di incoerenza, ecc.

    In altre parole, firmare i miei discorsi a me **costa**, mentre a chi si firma con il nickname non costa nulla. Può sempre inventarsi un nickname diverso, con il quale firmare discorsi diversi. Molto bene, libero di farlo, il mezzo lo consente. Ma io mi tengo il gesto di chi è disposto a “pagare” le proprie parole con il coinvolgimento simbolico della propria persona. Che non è affatto un’impostura, caro Franza. Il nome è importantissimo, ed è avvilente e mortificante e politicamente gravissimo ridurlo a una questioncella di “amor sui”.

    Il tuo discorso, mi spiace dirtelo, nelle sue conseguenze reali è terrificante, è totalitario. In questo modo svuoti qualsiasi parola, ne togli il peso, la possibilità di incidere veramente. Fai svaporare gli individui e la consistenza di ciò che dicono con l’utopia carnevalesca (che nel tuo non ingenuo discorso comprende anche la possibilità di bucare questo carnevale – ma io la vedo come una trasgressione simmetrica e supreflua: che me ne frega di sovvertire il carnevale? A me non frega niente di presentarmi in maschera. Io non partecipo al vostro ballo in maschera, anzi, sono io il primo a sovvertirlo presentandomi con il mio nome e cognome. Che me ne importa dei tuoi giochetti di parole liberate solo dietro una maschera! Io libero quel che ho da dire a muso nudo, con il mio coraggio e i miei limiti. Che me ne frega di prospettare il giochetto della mascherata, con la Morte Rossa che viene a mettere paura, brrr, e con il colpo di scena di chi invece a un certo punto si svela. Non me ne frega niente del Carnevale. In questo momento ci sono cose più serie da fare del Carnevale. Non siamo braccati dai nazisti, e io mi assumo le responsabilità di quel che dico, con il mio nome e cognome. Mi assumo persino la responsabilità di passare per esibizionista o narcisista innamorato del suo nome. Tra l’altro, se ti può interessare, io ho un nome comunissimo a Venezia, siamo decine di Tiziani Scarpe, l’ho scoperto da bambino, è stata una scoperta molto sana, salubre, mi ha disilluso subito sulla “verità” di questa manciata di alfabeto… Tra l’altro, Scarpa è pure un cognome che fin dalla prima elementare si è prestato a ogni genere di lazzo, come puoi immaginare, quindi figurati quanto siamo lontani da un onomatolatria dell'”amor sui”…). Dicevo che, prefigurando e anzi praticando un’utopia come se non esistesse il mondo reale, mi sembra che tu questa utopia la rendi inerte e anzi svuoti l’una e l’altra, il mondo reale dei nomi e quello utopico dei nickname dove varrebbero soltanto, virtuosamente, i discorsi in sé. O meglio, pretendi di renderli inerti, perché nel mondo reale i nomi agiscono eccome, ma tu con questa prassi qui contribuisci a non far crescere la rete, a non farle fare un salto qualitativo: la mantieni il giardino d’infanzia che, mi spiace dirlo, tuttora è. La rete è prevalentemente un giardino d’infanzia, dove una grandissima parte di chi interviene non si prende la responsabilità di ciò che dice, non ha il corabbio di “pagare” simbolicamente (il simbolo è concreto, così come il simbolo di una banconota è cosa concretissima) ciò che dice con il prorpio nome. In questo modo i discorsi della rete rimarranno sempre fuori dalla polis, non varranno nulla.

    A Elio Copetti: grazie dell’intervento impegnato e intellettualmente onesto. Mi spiace molto se tu ti sei sentito in un certo senso trascurato da alcuni dei membri di Nazione Indiana. Tieni conto che gli interventi in home page costano riflessione e tempo, non sempre si ha ulteriore tempo per ribattere alle interessanti obiezioni nella finestra dei commenti. In altri termini, come diceva Troisi, “voi siete tanti, io sono solo”. Sarebbe bello poter rispondere a tutti, ma immagina che razza di investimento di tempo ci vuole per rispondere a tutti quelli che hanno qualcosa da obiettare su un pezzo postato in home page, e, nota bene, dopo che quel pezzo postato in home page si è pur dovuto meditarlo e scriverlo! Ecco, io sono qui a scrivere questo commento da una mezz’oretta, credo, e ho appena appena sfiorato una questione che meriterebbe approfondimenti molto ampi. Inoltre, l’avevo già fatto due anni fa, un anno fa, sei mesi fa, e mi ritrovo a doverla rifare, in maniera probabilmente abborracciata, carentissima. Con questo commento scritto in fretta, se mi sono sfuggiti svarioni o frasi poco chiare o pensieri contorti, presto il fianco a critiche, sarcasmi, sberleffi (com’è giusto). Rimarranno per sempre firmati con il mio nome, e potranno essere usati “contro di me” (esagero, sono enfatico, ma penso di far capire che cosa intendo). Inoltre ho appena risposto a due persone, soltanto a due (e a te, Elio Copetti, ho appena accennato una risposta). Ti pare che ci si possa permettere un tale lusso ogni giorno, sempre?

    Comunque, Bourdieu va anche bene, per carità, ma è come obiettare con un manuale di fenomenologia della guerra mentre qualcuno ha lanciato un attacco. Mi sei sembrato un entomologo che osserva con un sorriso di sufficienza, dall’alto, un formicaio che respinge l’attacco delle termiti… Proprio questo tuo “chiamarti fuori” è un limite, un grosso limite e, se mi permetti, piuttosto irritante (scusa se te lo dico, non è per polemica). Il tuo uso di Bourdieu è olimpico e oppressivo: olimpico, perché ti poni come un dio che osserva al sicuro una lotta fra bande, si diverte allo spettacolo di questi umani che se le danno di santa ragione… ma allora, se non sei coinvolto non te ne frega nulla! Oppressivo perché schiaccia tutto sull’interesse di parte, riconoscendo gli eterni m,eccanismi degli schieramenti. Che me ne frega di questo sguardo culturalista e saccente, che mi sa solo affermare un dejà vu! Che me ne faccio? Immagina di essere andato a dirlo a un serbo o a un bosniaco o a un kosovaro, che nelle loro posizioni riconoscevi le tipiche dinamiche di schieramento… Capisci bene che le tue obiezioni, per me che intraprendo una battaglia, sono impedimenti, non mi servono a nulla, sono zavorra. Io, insieme a Benedetta Centovalli (la prima ideatrice dell’incontro sulla Restaurazione), ad Antonio Moresco, a Carla Benedetti e a molti altri (non tutti, come la discussione apertissima ha dimostrato) di Nazione Indiana, vedo processi di erosione culturale in corso, vedo un rischio per tutti di impoverimento e di appiattimento su modelli monoculturali, semplificazioni e imposizioni mediatiche, uso strumentale di categorie analitiche a fini paralizzanti (il popolare, il noir, il pubblico, l’audience, la pubblicità, il successo, l’avanguardia) date per vive o morte o impraticabili senza appello ecc. Se tu vieni da me con Bourdieu a darmi dell’appartenente a una cordata, tu sarai anche una cara persona intellettualmente onesta, ma il tuo discorso finisce nei fatti a coincidere con quello del mio “nemico”. Perciò hai poco da sostenere che una discussione con te avrebbe potuto portare ad acquisizioni positive per tutti: con te come persona sicuramente, ma con i discorsi che hai fin qui fatto su Nazione Indiana certamente no, per quel che mi riguarda. perché non hai saputo far altro che contribuire allo sminuimento di tutto, all’insinuazione che alla fine si tratta delle solite convenienze di “cordata”, e tu, al quale la letteratura non interessa come ambito carrieristico, lo puoi ben dire senza che ti si possa accusare di rivalità, di speciosità… Bel contributo! In questo io penso che Carla Benedetti abbia fatto benissimo a lasciarti perdere, caro Copetti, a prescindere dal tempo a disposizione. Mi dispiace, ma i tuoi discorsi hanno fatto parte del gran mucchio di argomentazioni che, **di fatto**, hanno contribuito a sbeffeggiare o a ridimensionare o a accusare di interesse fazioso questa nostra mossa contro quella che a noi appare come una palese Restaurazione in atto.

  105. Dal sito di repubblica.it, un post dal blog di Federico Rampini:

    venerdì, 20 maggio 2005

    Ecco il “segreto” rivelato da Shi Tao (10 anni di carcere)

    Ora si sa perché il giornalista Shi Tao è stato arrestato e condannato a dieci anni (vedi blog del 16 maggio). Il “segreto di Stato” che ha rivelato è una circolare diffusa l’anno scorso a quest’epoca dal ministero dell’Informazione a tutte le redazioni dei giornali cinesi, per proibire ogni sorta di commemorazione del 15esimo anniversario del massacro di Piazza Tienanmen. Shi Tao ha semplicemente riprodotto quella circolare su un sito Internet. 

    L’ho ricopiato per supportare con un altro esempio  il discorso di T.Scarpa sui nickname. In questo caso forse un nickname avrebbe avuto senso, trattandosi di un regime non democratico che incarcera per 10 anni chi mette a disposizione di tutti una circolare per altro non segreta. In ogni caso anche qui si vede bene che il nome e cognome non sono certo un sintomo di ‘amor sui’, ma una assunzione di responsabilità, e anzi un segno concreto di ‘amor veritatis’, e anche un sacrificio di sé, non certo amore narcisistico di sé.

  106. Sì, in quel caso un nickname sarebbe stato utile, per non finire arrestati.
    Però è anche vero che una notizia diffusa da un nickname ha meno “forza di verità” di una firmata. Sembra un paradosso ma è così. Il fatto stesso di rischiare dicendo una cosa, il fatto stesso che quel giornalista cinese se ne sia assunto la responsabilità, il fatto stesso che chi parla si esponga a ritorsioni, è garanzia di veridicità, in certi contesti. La rete è il luogo in cui si può trovare tutto e il suo contrario. Se ciò che si dice non viene ancorato a una voce, a un comportamento, a un campo di forze, la parola non ha peso. E’ questo che intendeva anche Tiziano parlando di efficacia della parola nella polis.
    Però noto che i commenti al mio pezzo sono stati alla fine catalizzati da questo argomento dell’anonimato ecc. tralasciando tutti gli altri, i funzionari, la macchina, la restaruazione ecc. Va bene. Ma è comunque interessante notarlo. Evidentemente è un problema più spinoso di altri.
    Ma vorrei far notare a tutti lo strano caso di cui si parla in un altro post, “Copyleft?” di Sergio Baratto: la Mazzucato che prende parole scritte da altri in rete (almeno così sembra dal raffornto che lui ha fatto, e leggo nei commenti che la lista dei blog saccheggiati è ancora più lunga), le firma col prorpio nome, ne fa un libro… Anche questo è un caso su cui riflettere. Perché la parola in rete è così indifesa, tanto che può arrivare qualcuno e prenderla, e spacciarla come sua? Non è anche questa espropriazione una violenza sulla persona?

  107. Carla, hai ragione, tu hai posto molte questioni, ma quella che ha fatto discutere di più in questa finestra dei commenti è stato l’uso dei nickname.

    Se ci pensi, l’uso dei nickname è anch’esso una forma di funzionariato; appena entrano nella rete, ecco che molte persone accettano la regola del gioco, pedissequamente, senza metterla in discussione, perché “si fa così”, perché “questa è la rete” (me lo sono sentito ribattere in discussioni simili a questa negli anni scorsi).

    In altre parole, si introiettano gli andazzi, li si fanno propri. Molti nickname sono semplici funzionari della rete, a cui non costa nulla dire tutto e il contrario di tutto (tanto è un nickname che parla, mica io!), che in questo modo svuotano di peso politico e culturale qualsiasi cosa dicano. “Funzionario” è un concetto notevole, non significa mica soltanto che qualcuno ti ha dato una funzione, o ti paga per fare qualcosa, ma anche, come tu spieghi bene, chi assume certe logiche e le fa proprie, e nel far questo fa funzionare la macchina, ne diventa un funzionario.

    Alcuni hanno chiesto: “parlate di Restaurazione, ma quando e dove c’è stata la Rivoluzione?” Il bello è che molti lo chiedevano in rete. Ebbene, la Rivoluzione è stata anche in rete, un enorme numero di persone si è scambiata saperi e ha promosso libri, film, spettacoli, azioni politiche, controinformazione, modi di pensare diversi; la restaurazione ha risposto con una percussione ancora più potente delle logiche pubblicitarie e di mercato.

    Il problema è stato che la Rivoluzione della rete è stata azzoppata anche da se stessa, dal funzionariato dei nickname, che ha reso irrilevante politicamente molte delle cose scritte e propugnate in rete.

    Funzionari di un’idea carnevalesca, fantocci e bambocci di un giardino d’infanzia che si fa bello di se stesso ma non muove nulla fuori, e se muove qualcosa lo fa solo quando ci si prende – con il proprio nome e cognome – la responsabilità simbolica (cioè concreta) di ciò che si dice.

    Perciò io considero molto pertinente al tuo discorso (a maggior ragione qui, in rete), questa discussione sui nickname.

  108. Ok Tiziano, grazie, ora comprendo compiutamente le tue ragioni e posso vedere l’intera questione da una prospettiva differente. Se avessi potuto “specchiarmi” prima – cioè capire subito le connotazioni che assumeva il mio discorso (cose sulle quali non ho grande padronanza) forse non mi sarei ripetuto tanto, non avrei “rincarato le dosi”, insomma avrei potuto svolgere il mio compito con una “grazia” maggiore. C’è davvero molto su cui riflettere – mi pare si vada a sfiorare il tema cruciale della “rappresentanza” – e lo farò per gradi (anche perché ora non voglio “monopolizzare” un thread ricco di voci e questioni interessanti.) Cercherò inoltre, nei limiti di quanto posso cogliere, di non trascurare le valenze “affossanti” dei miei discorsi. Ciao

  109. “Dopo l’era degli indifferenti e il decennio dei cannibali, era forse il caso di individuare, nella narrativa italiana d’avanguardia, un’altra, e del tutto diversa, corporazione di giovani autori contemporanei: gli intemperanti. Attraverso due anni di scouting e la lettura di più di un migliaio di racconti, abbiamo selezionato diciotto voci: i cui tratti comuni sono la sperimentazione tematica, linguistica o d’ambientazione e, dietro a tutto questo, una giovinezza che ancora nega l’indifferenza, che si oppone alla noia. Gli intemperanti hanno dai venti ai trent’anni, fanno i registi, gli story editor televisivi, gli sceneggiatori di fumetti, i copywriter, gli insegnanti di scrittura creativa, i drammaturghi: scrivono per le radio, le televisioni, i giornali, la pubblicità. Ognuno di loro ci racconta una storia che non ci lascia del tutto uguali a noi stessi: anche se l’alterazione che provoca non è data da grida né da pietre lanciate contro le finestre: ma da un cambiamento di punto di vista sulle cose. Il nostro augurio è che anche voi, leggendo, possiate lasciarvi spostare dagli intemperanti, così come gli intemperanti, scrivendo, hanno spostato noi.”

    [Dal sito di Meridiano Zero]

    Inutile che Scarpa mandi dattiloscritti. Ormai è fuori età:-)

  110. La parola in rete è indifesa quando non la si difende. Per esempio, in alcuni siti c’è questa cosina qui:

    “Except where stated otherwise, the content of this website is licensed under a Creative Common License. You are free to copy, distribute, display, and perform the work. You are also free to make derivative works, under the following conditions: you must give the original author credit; You may not use this work for commercial purposes; If you alter, transform, or build upon a text, you may distribute the resulting work only under a license identical to this one.”

    E si chiama “copyleft”. Questo qui, non quello che tirate in ballo per la Mazzuccato.

  111. Scusa Franco, ma chi tira in ballo che cosa? C’è un PUNTO INTERROGATIVO nel titolo del pezzo di Baratto.

  112. Se non lo capisci da te leggendo il pezzo… Mah. Comunque, mi pare evidente, no? E’ come dire: “va bene il copyleft, va bene l’utilizzo a fini non di lucro, ma ben altro è copiare un testo e spacciarlo per proprio, come sembrerebbe aver fatto Mazzuccato. Che l’autrice di questa appropriazione si sia proditoriamente avvalsa di una interpretazione indebita del concetto di copyleft? Che abbia inteso, sbagliatissimamente, copyleft come ‘roba mia’ ?” Non vedo perché scaldarsi tanto come se qui si stesse attentando al sacro concetto di copyleft. Accidenti, Franco, il post mi sembra chiarissimo, titolo compreso. Non c’è bisogno di ergersi a fondamentalisti del web moralisti difensori del sacro concetto di copyleft che guai a chi lo nomina in contesti men che precisissimi…!

  113. Più che altro, lo si nomina a sproposito. Quello che ha fatto la Mazzuccato è plagio, esisteva prima del copyleft, e quest’ultimo non c’entra nulla, può metterlo in mezzo al discorso solo uno che non abbia capito cosa sia.

  114. Ma niente affatto! Il copyleft lo si nomina più che a proposito. Proprio per difenderlo, in un ambito, come quello del web, che ***potrebbe*** dare adito a confusione fra copyleft, utilizzo gratuito pericolosamente ***confinante*** con il plagio. Ma non vedi che il titolo è ironico? E’ come dire: “vi pare copyleft, questo? Certo che no! E’ plagio bello e buono!”. Suvvia, Franco… Un pochino di elasticità mentale! E un pochino meno di rigorismo moralistico. Le parole sono vive, si possono utilizzare in tanti contesti, per fortuna. Quello che a te sembra un “nominare a sproposito” è il modo naturale di esprimersi del linguaggio umano, che paragona, affianca, mette a contatto concetti lievemente o grandemente diversi proprio per farne risaltare la differenza. Essù!

  115. Ecco Craponio, meno male che ci sei tu perché Franco mi sembra un po’ duro di comprendonio… essì che mi sembrava così chiaro quel titolo!

  116. Continuate pure così, fellatevi a vicenda, ma i dubbi su quel titolo, a giudicare dai commenti su Lipperatura, non sono venuti solo a me.

  117. qui è tutto un copia copia! dal tutto un magna magna al tutto un copia copia! basta! la mia più viva solidarietà ai genitori, parenti, amici, copiati, scoppiati, scappamenti della mazzuccato! poveretta, come soffre! come s’offre! basta! è primavera, svegliatevi bambine! è tutto un copyright! la mazzuccato vuole il nobel! con quel po’ po’ (?) di poesie ce lo aspettiamo! arrivederci a stoccolma, con o senza sindrome!
    miaooooooooo!

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