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Sul fallimento

di Franz Krauspenhaar

Non credo in alcuna realizzazione, se non nel fallimento. Ci sono fallimenti quasi perfetti, fallimenti mascherati da successi, fallimenti temperati, conclamati, raffinati, esorbitanti, timidi, quasi felici. E fallimenti rassegnati al suicidio, sicuramente i peggiori.

Non so come definire il mio: certamente per fallire ce l’ho messa tutta, e continuo così; oltretutto ora, con un po’ d’esperienza, fallisco senza nemmeno più sforzarmi, scivolando sulla vita in una fallimentare souplesse addirittura gradevole. Non è davvero difficile; l’importante, per poter convivere senza troppi patemi con il proprio fallimento (perché un fallimento sofferente è un fallimento non riuscito, e viceversa il fallimento riuscito ha bisogno del proprio successo) è capire ad un dato punto che non si è nati per soffrire (che la sofferenza è inevitabile ma non si deve accoppiare al vero fallimento che è di tutti, altrimenti si muore senza aver detto niente); l’importante è invece capire che si è nati per fallire, se si vuole vivere distesi sopra un ottimo e perché no comodo fallimento, sopra un fallimento agevole, e che in taluni momenti diventa addirittura confortante se non addirittura piacevole. Continuare invece a credere nel successo, o per i più ingenui nella felicità, o accontentarsi, dopo i soliti tentativi andati a vuoto, della serenità (questo mediano succedaneo fantasticato dagli infelici irrecuperabili) può portare a sconvolgimenti terribili, dai quali spesso non si esce vivi; e quando se ne esce vivi si tratta comunque di una sopravvivenza da sobbarcarsi in uno stato di tremenda alterazione, in una patologica serenità in agguato, o in quello stato di psicosi consolidata dal marketing e della pubblicità che è l’aspettativa.

Consiglio pertanto di applicarsi una dose giornaliera e nutriente di fallimento almeno una volta al giorno – dalle gote infiammate da irrefrenabili passioni al contorno occhi segnato da assurde e spesso patetiche notti insonni. C’è chi una volta al giorno giunge le mani e prega, c’è chi s’arrabbia con Dio, chi con il proprio compagno di solitudine, chi spara, chi si fa sparare, chi si prende le sue meravigliose responsabilità, chi invece le butta a mare, chi prova ad infischiarsene – credendo che non pensandoci si possa fuggire anche se temporaneamente dal problema del fallimento. Io, invece, davanti allo specchio appannato dall’acqua calda durante l’ennesima rasatura by Noczema (in flacone giallo, consigliabile anche per le barbe più cattive) mi applico sulla faccia da schiaffi, calci e soprattutto pugni la mia dose quotidiana di fallimento. “Non ce la farai”, mi dico. E aggiungo: “Ma non devi mollare”.

Ecco, il mio piccolo segreto per stare a galla, per fare il morto da vivo, sta tutto qui: nel sapere e di conseguenza nell’accettare che si fallirà, ma nel perpetuare il necessario autoinganno, nel lottare comunque. Non servirà a nient’altro che a sopravvivere in una tensione che ci rende estremamente vivi, tutto sommato solerti verso gli altri e verso un futuro che non esiste e che ci vedrà comunque perdere la vita, sempre disperatamente troppo breve; e tutto ciò non è poco, anzi si tratta di un fallimentare molto.

Si nasce soli e si muore soli: il problema – o meglio la sostanza di tutto- è che si vive da soli, allo stesso modo. E dunque il fallimento ci è congenito, perché la nostra solitudine esistenziale è il motore di questo nostro fallire predestinato. Non c’è nulla da fare, siamo soli e votati all’insuccesso. Certo, ogni tanto crediamo di avercela fatta, di aver spezzato gli incastri, di averla fatta franca in qualità d’eccezione confermante la regola; perché stiamo talmente bene che crediamo addirittura di essere diventati i parenti stretti delle nostre divinità preferite: il lavoro va bene, la salute tiene, un affetto si profila, un’amicizia si staglia all’orizzonte… Ma si tratta soltanto di prove ulteriori, e talora schiaccianti, della nostra solitudine. Proviamo affetto, o addirittura amore per chi – in maniera assolutamente innaturale e soprattutto incomprensibile- ci distrae con un po’ di sentimento dalla nostra fallimentare ma naturalissima solitudine. In quei momenti di folgorante distrazione crediamo di avere la nostra piccola, subordinata vita in pugno, siamo immersi in uno sbigottito ottimismo, vaghiamo saporosamente nei sogni più caleidoscopici; questi sono gli indispensabili momenti di felicità che ci faranno sopportare nel futuro la nostra naturale infelicità, perché ricordandoli ne sentiremo la lancinante mancanza e, proprio per sopravvivere a questo terribile vuoto, ci illuderemo che forse, un giorno, potremo riprovare quegli stessi sentimenti.

Nel buio pestato a sangue della nostra fallimentare stanza, in un sepolcrale quanto in fondo meritato isolamento stagno, c’illuderemo di poter vivere anche pochi istanti in modo diverso; e questo potrà bastarci, se sapremo accontentarci di quello che ci è possibile avere – cioè praticamente nulla in termini di successo. Sarà, quella, la speranza che ci terrà in piedi, nel cammino zigzagante che ci conduce a una normale fine, al traguardo.

La speranza è questa dolce, indispensabile illusione, è la sostanza miracolosa della quale il nostro fallimento ha bisogno per sopravviversi: se sapremo sperare sempre nonostante la nostra condanna potremo addirittura diventare dei falliti completi.

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34 Commenti

  1. Beh, l’importante è avere le idee chiare… banalizzo… una coscienza di classe perlomeno.. conoscerne la fisiologia

  2. Caro Franz mi trovi perfettamente d’accordo. Come diceva Beckett: “No matter. Try again. Fail again. Fail better”. Un saluto, Emma

  3. Eccoti arrivato al meriggiare pallido e assorto, al tramonto di Zarathustra. Occhio all’eterno ritorno !

  4. AFTERHOURS : CI SONO MOLTI MODI(cd ballata per piccole iene)

    E’ quello che sai che ti uccide o è quello che non sai
    a mentire alle mani al cuore ai reni
    lasciandoti fottere forte per spingerti presagi
    via dal cuore su in testa,sopprimerli
    non sai non sai che l’amore è una patologia
    sapro’ come estirparla via
    torneremo a scorrere
    torneremo a scorrere

    Eroe del mio inferno privato sei un giro di routine
    indossi il vuoto con classe ma è tutto ciò che avrai
    perchè quando il dolore è piu grande poi non senti più
    e per sentirmi vivo
    ti ucciderò
    ti ucciderò

    Vedrai vedrai se il mio amore è una patologia
    saprò come estirparla via
    torneremo a scorrere

  5. Da un essere umano, che cosa ci si può atten­dere? lo si colmi di tutti i beni di questo mondo, lo si sprofondi fino alla radice dei capelli nella fe­licità, e anche oltre, fin sopra la testa, tanto che alla superficie della felicità salgano solo bollicine, come sul pelo dell’acqua; gli si dia di che vivere, al punto che non gli rimanga altro da fare che dor­mire, divorare dolci e pensare alla sopravvivenza dell’umanità; ebbene, in questo stesso istante, pro­prio lo stesso essere umano vi giocherà un brutto tiro, per pura ingratitudine, solo per insultare. Egli metterà in gioco perfino i dolci e si augurerà la più nociva assurdità, la più dispendiosa scioc­chezza, soltanto per aggiungere a questa positiva razionalità un proprio funesto e fantastico elemen­to. Egli vorrà conservare le sue stravaganti idee, la sua banale stupidità…” Dostoevsky

    ps:al prossimo commento mi presento come si deve e conviene ad una signorina dabbene.

  6. caro franz, un ritorno, forse temporaneo – part time ?- davvero lirico. credo che allontanarsi un pò, osservare da una certa distanza, sia davvero fruttuoso e saggio, per quanto ti concerne – in realtà ne avremmo, forse, tutti bisogno – .
    quanto al fallimento, all’incapacità di arrampicarsi fino in cima; beh, da lungo tempo, ne ho preso atto: è il mio habitat.
    ciao.
    cristiano prakash dorigo

  7. L’uomo è irragionevole, egocentrico:
    non importa, amalo!
    Se fai il bene ti attribuiranno secondi fini egoistici:
    non importa, fa’ il bene!
    Se realizzi i tuoi obiettivi troverai falsi amici e veri nemici:
    non importa, realizzali!
    Il bene che fai verrà domani dimenticato:
    non importa, fa’ il bene!
    L’onestà e la sincerità ti rendono in qualche modo vulnerabile:
    non importa, sii sempre e comunque franco e onesto!
    Quello che per anni hai costruito può essere distrutto in un attimo:
    non importa, costruisci!
    Se aiuti la gente, se ne risentirà:
    non importa, aiutala!
    Dai al mondo il meglio di te e ti prenderanno a calci:
    non importa, continua!

  8. lo conosco anch’io quel dialogo:

    il primo è von masoch
    l’altro è d.a.f. de sade

    madre teresa era proprio una santa!

  9. .. soltanto per aggiungere a questa positiva razionalità un proprio funesto e fantastico elemen­to ..
    Grande Dosto, grazie Magda!

  10. Buongiorno a tutti.
    Mi chiamo cosi’, Magda, anticamente Maria Maddalena, e forse è perchè 2000 anni fà presi una sbandata per un crocifissato, che oggi mi appassionano tutte le cause dei poveri Cristi e le relative ricadute sociali.
    In realtà avrei dovuto chimarmi Amneris in onore della regina egiziana rivale di Aida, ma papà, melomane, ha optato per l’emulazione di Magda Oliviero.
    Il cognome è sintomatico: Mantecca originario dalla Spagna, (manteca=burro= mantecare) famiglia originariamente gitana migrata nel nord Italia 200 anni fa.
    In onore di cio’ tengo su http://www.laretedeimovimenti.it la rubrica “Nomadismi” appunti di vita colti a modi Pulp, dove declino esperienze personali con meta-riflessioni.
    Ho una formazione localizzabile in 3 indirizzi fondamentali, alcuni ufficiali altri ufficiosi: Imprenditoriale, analista aziendale, e addetta comunicazioni esterne -pubbliche relazioni.
    Sono una laurenda eternamente fuori corso di filosofia presso la Statale di Milano, websurfer da anni, per passione, divertimento, infinita curiosità.
    Scrivo in modo diffuso in rete,( http://www.bergamoblog.it, laretedeimovimenti.it, http://www.blogger.it/platinoro, http://www.scrivi.com) convinta che sia il nuovo modo di relazionarsi e produrre significati.
    Figura e relativi contenuti ufficiosamente diffusi e noti negli ambienti editoriali, per attività autoriali spesso ritenute eversive in quanto aderenti a criteri di verità e non di mercato.
    gemelli ascendente scorpione, 13-6-63, tratti somatici nordici, corporatura meditteranea. diciamo, come Claudia Chiffer invertendo le proporzioni tra base e altezza.
    Inquietudine, interesse e stima mi hanno condotto su nazioneindiana, e sarò lusingata di poterne leggere i contenuti, contribuendo come posso commentandoli, sempre se questo vi puo’ fare piacere.
    Vi ringrazio per la disponibilità, l’ospitalità e la cortesia.
    mandatemi il conto a casa se sono stata invasiva, o un invito per un concerto, un dibattito, una manifestazione, se invece apprezzate la presenza.

    Bacioni

    Magda

  11. .
    .
    .
    se riuscirai ad affrontare il successo e l’insuccesso
    trattando quei due impostori allo stesso modo
    .
    .
    .
    il mondo sarà tuo allora, con quanto contiene,
    e – quel che è più, tu sarai un Uomo, ragazzo mio!

  12. egregio F.K:
    Il “fallimento” è un’invenzione culturale (come tutti gli “istituti” umani, del resto). Ed è per prima cosa un’invenzione della nostra cultura occidentale. Ed è un’invenzione a cui è stato collegato un disvalore. questo è il problema. altrimenti a chi gliene fregherebbe del fallimento?
    saluti

  13. infatti agli aborigeni australiani di non essere nel trend dei nuovi drive di cambimento non gliene puo’ fottere d meno, anzi, meno ancora, non hanno nemmeno la categoria del fregarsene.mica vanno in analisi ….loro..

    .
    “Il nomadismo implica modi di vita, valori, orientamenti, in primo luogo la concezione e l’organizzazione stessa del tempo e dello spazio, talmente diversi da quelli delle società occidentali industrializzate che spesso ne risultano due linguaggi tra loro incomprensibili, al punto da ostacolare una piena partecipazione a molte delle attività che costituiscono la vita sociale (frequenza scolastica regolare, attività lavorativa stabile, ecc.).”

    viva lo stato barbaro di natura.

  14. Magda: esatto. qualche perplessità sul pur comprensibile concetto di “stato barbaro di natura”. si tratta di un concetto romantico, antropologicamente per niente condivisibile.. saluti

  15. allora ti rimando questo:
    “Esistono infatti istanze che spingono i gruppi umani contemporaneamente a differenziarsi e ad accomunarsi per l’antica legge naturale della molteplicità e unicità nelle stesse strutture umane; pertanto in tempi e spazi diversi si possono riscontrare fattori linguistici e genetici comuni a tutte le razze e fattori che hanno favorito la loro differenziazione.Tutto questo ci permette di sostenere la tesi del cittadino globale planetario abitante del multiverso” sintesi di Cavalli Sforza e di Gianluca Bocchi, nell’orizzonte di senso della filosofia di Edgar Morin sulla complessita.

    Poi mi spieghi, come fai a condividere o meno uno stato romantico: un sentimento non si condivide(concetto) al massimo si è in sua momentanea empatia(sentimento).
    lo stato barbaro è violenza, condivisibile o meno, ma presente in modo massiccio, persino oltrepassa tabu’ ancestrali come i legami dati dalla cura della prole e i legami consanguinei in generale.
    non lo apprezzo, certamente, ma è un dato di fatto ampliamente argomentato dalla cronaca nera dei nostri giorni. (mi viene in mente -sargofagia- di Franco Battiato).

    diciamo che oggi piove, sono esteticamente rapita dal delirio malinconico, e quindi romantica……..:-)

  16. Magda: i sentimenti si condividono nel senso che sono (anche) frutto della loro cultura di riferimento. Lo stato barbaro di natura è un’invenzioen romantica, di un uomo che vive, appunto, in tale stato. dicevo non condivisibile perché l’uomo, da sempre, ha vissuto facendo riferimento a una cultura, con indicazioni, limitazioni, abitudini, valori. ecco perché eccepivo sul concetto di stato barbaro. posso capire che tu dica violenza, pulsioni di morte, aggressività ecc.
    arisaluti

  17. il fallimento oggettivamente esiste, e consiste nel non-raggiungimento degli obbiettivi pre-fissati.

    invece la figura del loser, del perdente-fallito, è sicuramente culturale e afferisce alla cultura americana che entra a fiotti nelle nostre menti: sono dei falliti tutti quelli che non fanno soldi, anche se a loro non interessa farli.

    ma come lo chiameresti, per esempio il casino che combina leonardo con l’affresco di palazzo vecchio, se non fallimento?

  18. Allora io non saprei come descrivermi: appena definisco un’obiettivo, sono io stessa che lo driblo, come se, operare per finalità mi soffocasse.
    Non solo, ma raggiungerlo, mi deprime.
    esempi: la dieta, la carriera globalizzata, il consenso ufficialmente condiviso, la famiglia strutturata in modo classico, il sacro declinato secondo schemi di religiosità.
    Insomma odio la parola obiettivi se calati nella mia vita.
    Amo quanto si articoli in maniera diffusa, rabdomantica e randomatica.
    resta il dato che sono un monumento di incompiutezza, e di universale dilettantismo, ma in questo orizzonte trovo contenimento dell’ Inquietudine, musa d’Ulisse.

  19. nel fallimento d’obbiettivo c’è sempre l’errore, melpunk.
    di procedura, di valutazione, tecnico, di analisi, di eccesso di fiducia, eccetera.
    credo.
    non credo invece nel fallimento di vita, nell’idea di vita sbagliata, nel perdente, eccetera.

    qui piove da più di 48 ore e non se ne può più.

  20. cazzo tash, allora abiti dietro l’angolo!
    io eccepirei che l’estetica loser prevede la vocazione al fallimento – che diventa ‘politica’ quando si vede nel fallimento la possibilità di confliggere con un sistema di valori in cui non ci si vuole riconoscere.
    cioè, il fallimento può essere rivoluzionario.

    ciao

  21. Cmq tutto il pezzo, evoca molto nello stile e nella sottesa ironia, Paul Watzlawick, titolo:Istruzioni per rendersi infelici- Feltrinelli.

    ………….Se siete intossicati per aver seguito scrupolosamente una mezza dozzina di improbabili ricette per la felicità, se ne avete abbastanza dei dissennati consigli di guru e sessuologi, tecnocrati e maestri di vita, delle prediche sull’essere anziché l’avere e sulla pace interiore, questo libro fa per voi.
    Egualmente, non potrete che apprezzare questa “modesta proposta” per apprendere a rendersi infelici, se ritenete che il semaforo diventi rosso proprio per voi; se l’assiduo esercizio del sospetto ha finito per plasmare il vostro intuito; se dite spesso: “L’avevo detto, io…”; se provate un fremito (d’inconfessabile gioia? d’ira?) quando vi si rivolge la paradossale e paralizzante esortazione: “Sii spontaneo!”… Per aggredire, in un impeto di filantropia, un’aspirazione tanto funesta, un concetto così incistato nella nostra tradizione -la felicità-, Watzlawick mobilita tutti gli espedienti e relazionale etc etc ……………………..

  22. Tash: sì, esatto, dipende dal valore (semantico, ma anche “morale” o culturale) che attribuisci alla parola fallimento. è qui il gioco. il senso della parola. anche qui pioggia fino a stanotte, poi, di colpo, il sole.

  23. Kristian:
    certo, in una società in cui il fallimento è disvalore e vergogna il fallimento stesso può diventare rivoluzionario se opposto alla società che lo ha creato attribuendogli disvalore. in fondo il punk è stato, per certi versi, proprio questo. saluti

  24. Magda, citi “Le istruzioni per rendersi infelici”. Uno dei miei pochissimi libri di culto. L’avrò letto e comprato e regalato una decina di volte. La potenza del paradosso.

  25. allora siamo amici, sai le risate che mi sono fatta con quel libro?
    l’assurdo è che molti a cui l’ho regalato, compresi quelli che pensavano di essere depressi, l’hanno interpretato alla lettera e non come espressione paradossale……:-).il successivo, “di male in peggio” non è cosi geniale secondo me.
    grazie Giancarlo.

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