Rassegna dell’ultima narrativa italiana (seconda parte)

di Piero Sorrentino

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C’è come una resistenza all’ingresso che Claudio Piersanti oppone al lettore del suo ultimo romanzo. Per raggiungere la realtà di un’opera come Il ritorno a casa di Enrico Metz (Feltrinelli), per penetrarne le sottili fibre costitutive della scrittura, bisogna infatti attrezzarsi preliminarmente aggrappandosi a un pensiero di Proust, quando sosteneva che la lettura è un paradossale esercizio di “comunicazione in seno alla solitudine: quando si legge, siamo in presenza del pensiero di un altro, e tuttavia siamo soli”. Enrico Metz – che per quasi tutto il corso della narrazione viene chiamato semplicemente Metz, quasi come un vecchio amico della scuola media di cui si chiedono notizie ai conoscenti comuni – fa esattamente questo: comunica, ma immerso in una immedicabile solitudine, apre lo spazio del pensiero a un uditorio che si rivela sordo e cieco, traduce incubi, presentimenti, turbamenti lasciando affiorare una coscienza atterrita di sé e del mondo senza che nessuno possa, e soprattutto voglia, ascoltarlo.

Il rapporto sempre più serrato tra il protagonista e l’atmosfera attorno a lui, che a tratti lo esalta, altri lo soffoca, altri ancora lo culla in un limbo ovattato di nulla e di silenzio, riceve da Piersanti un’estensione e una potenza che nemmeno nell’altra sua notevole opera, Luisa e il silenzio, era riuscito a raggiungere.
Avvocato di successo, uomo brillante, amministratore oculato e per certi versi funzionario cinico e calcolatore, ma di un cinismo quasi necessario, obbligato, senza cattiveria, all’apice della sua carriera, Enrico Metz rischia di essere travolto da un pauroso crack finanziario che coinvolge la società milanese per la quale lavora da anni in qualità di braccio destro dell’ingegner Marani, amministratore delegato del gruppo, che – proprio a causa della tempesta giudiziaria che sta per abbattersi sull’azienda – decide, improvvisamente e inaspettatamente, di suicidarsi.
Di punto in bianco Metz molla tutto. Lascia il lavoro, lascia Milano, si sottrae alle sempre più invadenti luci dei media che di botto si accendono sulla sua persona. Torna a casa, appunto, nella sua città natale. Una città che in tutto il romanzo resta implicita, mai detta, mai spiegata, mai mostrata. Da alcuni passaggi si può inferire che si tratti di un piccolo borgo emiliano, una sonnacchiosa città di provincia raccontata con pennellate secche e rapide: “Il cielo si stava annuvolando e l’aria sapeva di castagne arrostite. Solo in fondo alla lunghissima strada che tagliava in due la città, una timida macchia di rosso immersa nel grigio testimoniava il tramonto sulla grande pianura”.

Ridotto all’osso, l’intreccio che con una impressionante capacità di controllo stilistico Piersanti allestisce nel Ritorno a casa… può assomigliare a una storia zen, il racconto di un’ascesi non richiesta, una chiamata al cielo di uno svogliato redento che nasconde le mani dietro alla schiena, ancora sporche e puzzolenti di euro fruscianti. Enrico Metz è la resa borghese della piccolo-borghese Luisa di Luisa e il silenzio. Laddove la contabile di mezza età lasciava la piccola industria dove lavorava per lottare contro un cancro che la divorava dall’interno, il ricco avvocato lascia la grande azienda da cui è stipendiato per non essere divorato dal cancro pubblico che si mangia quel poco, pochissimo, che di sano resta dell’industria italiana. Due storie di progressiva spoliazione che si guardano e si parlano nell’opera di Piersanti. Perché la tensione verso una forma superiore di consapevolezza che muove in qualche modo Enrico Metz è tanto più vibrata e interna quanto più il dramma si allontana dal predominio feroce del suo essere pubblico e si avvicina a una dimensione intima, privata, mascherata dalla facciata della vecchia villetta nella quale torna a stare e al riparo dalle macchie d’ombra che i fiori e le piante del suo giardino, da lui ossessivamente e candidamente curate, gli proiettano sulla faccia. Disilluso ma non depresso, accompagnato dalla consapevolezza tutto sommato euforizzante che adesso, per lui, “iniziava una nuova vita (…), senza divisa e senza impegni asfissianti”, visto che “non era più un capo, era finalmente libero”, Metz si sottrae agli incantesimi e alle malie del potere – perché Metz era un uomo di potere consapevole di esserlo – liberandosi progressivamente dal pesante ordine razionale che guidava la sua vita di prima e costruendo, sulle macerie ancora fumanti di quella, un’ipotesi tutta nuova di realtà fatta di minutaglia esistenziale: fiori da curare, appunto, bagni caldi e passeggiate lente e svagate, lunghe partite di carte, ma anche adolescenti di cui prendersi cura, donne da amare, figli ormai adulti a cui rinunciare. E quando finalmente, “come Raskol’nikov, sfinito dalla sua azione, si è fermato in cammino, incapace di continuare ad agire” (così Rilke in una pagina di diario parla di Malte Laurids Brigge), fa l’ultimo passo verso quella serenità d’animo che nei tempi rampanti di Milano gli sembrava così aliena (“Sapeva di non poter durare in eterno, ma la relativa tranquillità della sua vita sembrava accompagnarlo verso la venerabile longevità del padre (…) Metz sapeva invecchiare con saggezza seguendo semplicemente il suo istinto”), decide di fare un passo indietro anche dal proscenio della nuova vita che s’è ritagliato, chiudendosi letteralmente in casa, per lunghi, lenti preparativi di addio al mondo (“Mai più avrebbe rimesso volontariamente piede là fuori”).

Dal lungo addio al mondo alla più sfrenata, assurda, becera, delirante mondanità, la mondanità per eccellenza, quella massima, l’insuperabile: la mondanità televisiva. Si ha, di fronte a Troppi paradisi di Walter Siti (Einaudi), la sensazione di trovarsi di fronte all’opera di un autore arrivato a fronteggiare un nodo di contraddizioni così compatto, così strettamente avvolto a un nucleo inavvicinabile, che l’azione – l’agire narrativo dei personaggi e quello più propriamente romanzesco della storia, l’evoluzione del suo intreccio – viene come continuamente risospinta al suo limite estremo, schiacciata ai margini da una forza centrifuga irresistibile, spinta via da un centro dove un derviscio impazzito con un televisore al posto della testa ruota forsennatamente le braccia e il corpo e spazza tutto via. Era inevitabile che il percorso narrativo intrapreso da Siti per disegnare i tratti di una “autobiografia di fatti non accaduti” (cominciato nel 1994 con Scuola di nudo e proseguito nel 1999 con Un dolore normale) trovasse nella televisione il suo momento finale, lo scioglimento probabilmente definitivo, il punto di non ritorno (“se in più di mille pagine ho prodotto un sosia, era perché io non c’ero, non ci volevo essere: adesso ci sono (…) se avrò qualcosa da raccontare, non sarà su di me”). Se la televisione non è il televisore, Walter Siti non è Troppi paradisi, eppure sia la prima che il secondo trovano nella forma con cui si manifestano al pubblico una rappresentazione compiuta, non esangue, non inconsistente. Tutto quel tenebroso svolgersi d’umanità che segna un qualunque tracciato televisivo d’oggi trova nel romanzo di Siti un controcanto di scintillante perfezione. Confrontato con i palinsesti mediatici, Troppi paradisi funziona come una radiografia, svela ossature e fasce muscolari, fratture e macchioline frastagliate, intrecci di vasi e tubolature aortiche dentro cui scorre la linfa del sistema televisivo. Nello sguardo del protagonista (che si chiama “Walter Siti, come tutti”: e qui lo scippo – “la finta ribalderia che è piccola vanità” – alla celebre frase che il compositore Erik Satie scrisse in una lettera indirizzata a se stesso è confessato ma non esplicitato, alla pari delle storie posticce dei talk show pomeridiani in cui la finzionalizzazione del reale è appunto dichiarata ma mai fino in fondo esplicitata), piantato costantemente sul vetro bombato dello schermo, si riversano tonnellate di pixel che – scomposti e ricomposti secondo l’andamento di un immaginario che è una sorpresa trovare in un personaggio costruito da uno scrittore nato nel 1947, un autore non compromesso fin dalla nascita col sistema televisivo, che non ha succhiato latte e cartoni animati giapponesi trasmessi dai canali commerciali – diventano surrogati saporiti e allettanti di una vita altra (“le situation comedy sono la famiglia che avrei voluto avere; genitori spiritosi, molti figli, battute che riescono sempre e villette isolate col giardino. Qualche volta, un cane rompicoglioni che però non abbaia di notte – le tensioni si scioglieranno per forza cinque minuti prima della fine, che è prossima perché il tutto dura mezz’ora”).
Un’entità psicologica che pare senza passato, il Walter Siti personaggio del Walter Siti scrittore. Schiacciato sotto il peso di un insostenibile presente (“il futuro non m’interessa”), come Zeno Cosini tiene un diario, stavolta tutto e solo mentale, zeppo di lapsus (“La mia prima mediocrità è caratteriale, ed epica, volevo dire etica”; “come se al precipizio senza fine si fosse opposto un sonno, volevo dire un fondo (…)”), e come Zeno, “Walter Siti” (così, tra virgolette) compie una parabola esistenziale perfettamente paradigmatica del tempo in cui è immerso, un arco vitale che innalza al quadrato il carattere fittizio della realtà, anzi del reale, quotidiano. Per mezzo di una operazione di completa e irreparabile compromissione col suo tempo, imbottendo la narrazione di corpi e merci e volti e nomi e storie e aneddoti, e soprattutto di gossip, pettegolezzi, dicerie, fatti realmente accaduti e però trasfigurati nell’alchimia della narrazione, modificati dall’interno, scuciti e riassemblati su altri corpi, altri nomi, Siti compie un’operazione fondamentale di restituzione dell’esperienza nuda del reale all’esperienza del testo. In Troppi paradisi la funzione veritativa che oggi tutti affidano alla televisione (“l’ha detto la tv”) viene ridonata, con un gesto di inaudita hybris, al romanzo, alla macchina di finzione per eccellenza che da due secoli a questa parte è il bacino di raccolta più capiente delle bugie degli scrittori. D’altronde, come spiega l’autore nella nota introduttiva, “Gli avvenimenti veri sono immersi in un flusso che li falsifica; la realtà è un progetto, e il realismo una tecnica di potere (…). I nomi e i cognomi hanno una pura funzione segnaletica (…). All’opposto di quanto accade nei romanzi a chiave, dove i fatti veri sono attribuiti a personaggi in maschera, qui a persone reali si attribuiscono fatti esplicitamente fittizi. Così funziona la post-realtà, nel regno dell’immagine, dove il prezzo da pagare per la notorietà è di essere trasformati in personaggi quasi-veri, condensatori di fantasmi”. Procedendo per mezzo di una lingua che tiene assieme registri apparentemente inconciliabili – l’oralità dialettale dei borgatari romani con il lessico medio degli autori televisivi, fino ad arrivare alle pillole di raffinatezza sintattica e lessicale sciolte negli infusi di buona letteratura che il protagonista ha ingollato in anni di studio -, Siti chiude la sua trilogia collocandosi davanti a un paesaggio lunare, disintegrato, su cui si aprono bocche di crateri e strapiombi vertiginosi, e senza crolli moralistici del capo, di fronte alla visione di quella spianata grigia, tira fuori dallo zaino una macchina digitale e, con pazienza, meticolosamente, comincia a scattare fotografie (in alcune, le più belle, c’è anche lui, dopo aver impostato l’autoscatto).

Grande intercettatore di realtà parallele, irreali, ucroniche, nella nota che precede La ragazza che non era lei (Einaudi) Tommaso Pincio scrive: “La realtà non è di questo mondo”. Un esergo che potrebbe essere stampato su tutti i frontespizi dell’autore romano, indagatore malinconico e visionario di un immaginario che è solo apparentemente dislocato in uno spazio e in un tempo lontano, aperto a suggestioni, idee, luoghi, modelli americani. Questa volontà di rianimare una vescica dell’immaginario che sembrava ormai esausta già da anni, prosciugata da cento anni di narrazioni originali – letterarie ma anche, o forse soprattutto, cinematografiche -, assieme alla tenace radicalità con cui Pincio ripopola di magnifici esemplari piumati quella voliera già così affollata, ricorrendo a strategie narrative pop che solo a letture superficiali possono sembrare sterili giochini postmoderni, ridisegna completamente l’orizzonte di riferimento delle sue storie. Le vie sempre sghembe, sempre indirette che sceglie per la sua letteratura conducono a un universo che dichiara fin dall’apertura di racconto il loro inclassificabile statuto: ““Vasto è il regno della polvere!”. Così ho sentito dire dal sublime. La radio del karma disse che era ora di svegliarsi, la notte era finita e un nuovo giorno pieno di polvere stava per iniziare”. Pincio è forse il caso più esemplare di narratore in cui il rischio di colonizzazione dell’immaginario da parte della sempre più potente corazzata di narrazioni made in Usa viene rielaborato, e felicemente risolto, con una fascinazione che da un lato accoglie in pieno quelle storie, diventandone contemporaneamente registratore e megafono, mentre dall’altro le afferra per la collottola, le scuote, le schiaffeggia, le aggredisce. In un’intervista lo scrittore ha affermato: “E’ una semplice conseguenza dell’essermi formato su certi modelli culturali, di aver respirato quell’aria in un momento particolarmente formativo della mia vita. Per me risulta molto naturale raccontare storie che attingono all’immaginario americano, ma questa attitudine non deve essere affatto intesa quale forma di preclusione aprioristica nei confronti del paesaggio di casa nostra. Non va inoltre dimenticato che le mie narrazioni presuppongono un discreto tasso di ostilità per quel mondo che il senso comune definisce reale”. Per Pincio l’invenzione di una trama romanzesca equivale al gesto di chi sgombera la tavola apparecchiata per il pranzo con un movimento brusco dell’avambraccio, un colpo secco che butta all’aria piatti e bicchieri. Trascina tutto via, scaglia lontano cose e oggetti, libera il piano del discorso da incrostazioni localistiche e lo offre a una varietà di personaggi che sembrano ombre di se stessi, colti in un momento di radicale incertezza sulla propria vita e, viene da dire, sul proprio statuto di esistenza. E sono appunto le parti più riuscite proprio quelle in cui Pincio fa oscillare la narrazione da un piano di realtà “oggettiva” a un altro fatto di percezioni confuse e inafferrabili, oniriche. Non è un caso che lo scrittore abbia definito il romanzo come una “Matrix dei sentimenti”. La ragazza che non era lei sembra dettato prima di tutto dalla irresistibile necessità di allontanare non solo nello spazio, ma anche nel tempo – un tempo senza tempo, dickianamente fuor di sesto – un’esperienza che non può limitarsi a svolgersi dentro gli angusti confini del presente. Il romanzo si mette in moto proprio nel momento in cui Laika Orbit, seduta in compagnia di una coca cola sfiatata in un fast food vuoto e polveroso, si accorge di non voler essere lì, di non voler essere lei. Il suo viaggio angosciante – in compagnia di uno strano tizio conosciuto proprio nel fast food, in lungo e in largo per la città di Cloaca Maxima, dominata da una gigantesca industria per la produzione di escrementi e putrefatta da una polvere rossastra che si posa incessante dovunque e su chiunque, sorretta da una logica sregolata – nasce dalla stagnazione passiva della sua giovane vita, e le incerte visioni che si trova ad affrontare si organizzano proprio attorno a un principio di dolorosa insoddisfazione di sé, un caos tumultuoso che sembra trovare nel volto nascosto della realtà una parziale, seppure angosciante, sistemazione. Ne traspare, a narrazione finita, una serie di immagini che presentano l’inquietante uniformità dell’incubo, assieme alla conferma della ininterrotta potenzialità simbolica dell’immaginario pop di cui Pincio si è reso incessante interprete per mezzo di una lingua piana, niente affatto preziosa o ricercata né nel lessico né nella sintassi (per un certo periodo si sentiva dire in giro che i libri di Pincio sembravano tradotti dall’inglese, e chi lo diceva non si rendeva forse conto della nutriente intuizione critica che aveva prodotto, considerandola piuttosto come un’offesa).

Le cinque parti che compongono Apocalisse da camera (Einaudi) esordio letterario di Andrea Piva (salernitano di nascita e pugliese di adozione, nato nel ’71, sceneggiatore di Lacapagira e Mio cognato) sono segmentate in rapidi paragrafi di non più di tre pagine, brevi flash narrativi che nonostante la brevità del racconto riescono a dare respiro all’intera narrazione senza soffocarla o appesantirla. In mezzo a questo flusso spezzato si dipana la storia di Ugo Cenci, assistente universitario di filosofia del diritto all’università di Bari con un debole per le belle studentesse. Studente svogliato, laureato senza grandi ambizioni, dopo la laurea in Giurisprudenza s’è installato sotto l’ala protettiva del professor Frappelle, amico di lungo corso di suo padre, che lo che ha accolto nelle fila dei suoi scherani da cattedra fidando più sui lunghi anni di amicizia col genitore che sul curriculum dell’assistente. Cocainomane saltuario ma tenace, alcolizzato e imbattibile ingurgitatore di pillole e farmaci, Ugo Cenci ha trasformato la sua altrettanto imbattibile ossessione per le donne in un redditizio scambio di favori: esami in cambio di sesso. Un mercato sano e fiorente nelle università italiane, che Piva racconta con la giusta dose di distanziamento ironico, necessaria per non cadere nella stigmatizzazione vuota e moralistica di un male che per alcuni, studenti e professori, sembra essere solo un accidente necessario e tutto sommato indolore. Un mercato – è la scena d’apertura del romanzo – destinato, sembra, allo smantellamento, visto che tra i banchi si fa sempre più insistente il chiacchiericcio intorno al dottor Cenci e ai suoi rapporti con le studentesse. Nell’unica giornata in cui Piva ambienta il suo romanzo, Ugo sembra allora fermare il flusso impazzito del presente nel quale è immerso e ritornare in qualche modo indietro: agli anni in cui viveva con i genitori, ai momenti felici dell’adolescenza, all’incontro di anni prima (che si sarebbe potuto trasformare in amore ma che invece scivola verso uno scioglimento terribile e grottesco) con Giulia. Sarà la concatenazione suicida di alcol, hascisc e cocaina e scaraventarlo di nuovo nel suo presente assurdo, in un delirio paranoico finale che si concluderà in un modo che è giusto lasciare alla scoperta del lettore.
È un’epica di agghiacciante normalità, quella che racconta Piva. Già un altro esordio, Ad avere occhi per vedere (minimum fax) di Leonardo Pica Ciamarra, aveva dispiegato sotto gli occhi dei lettori l’orrore che si cela spesso nei corridoi dei dipartimenti universitari. In Apocalisse da camera quello sguardo è come attenuato, soffuso, più sfumato, lambisce con maggiore leggerezza quei territori, stemperandoli in un disincanto che sembra posarsi, come la neve nel famoso racconto di Joyce, “su tutto, sui vivi e i morti”. Perché qui l’orribile protagonista non è il personaggio peggiore del libro. Gli gravitano attorno – messi come sullo sfondo eppure vivi e sbozzati a tutto tondo, piccole correnti carsiche che scorrono sotto la crosta del romanzo restando sempre presenti e forti – docenti cinici e disillusi, genitori che hanno tirato in barca i remi dell’intelletto per dedicarsi a lunghe sessioni di consumo televisivo, sceneggiatori folli convinti che il futuro delle fiction sia la scrittura di serial che hanno come protagonista un pastore tedesco che risolve casi di omicidio. L’Apocalisse di Piva, raccontata con una scrittura sinuosa, che si snoda per mezzo di lunghi giri di frasi assemblate con un lessico ora volutamente basso ora raffinatamente alto, è anche, o soprattutto, la storia di una personale evasione, un tentativo di segare le sbarre, annodare le lenzuola sul moncherino metallico e fuggire, calandosi con velocità, senza preoccuparsi troppo di segarsi i palmi delle mani, da quel carcere chiamato vita.

Da sempre dominato dal tema del rapporto con gli scrittori che lo hanno preceduto, e da un sentimento agonisticamente intenso, quasi aggressivo, di fusione sentimentale con i personaggi che dalla penna di quegli scrittori sono venuti (per rendersene conto basta sfogliare le scene della festa nella casa cantoniera negli Esordi, con Emily Dickinson a braccetto con Leopardi, Bartleby intento a spolpare un ossobuco, Pascal, Cervantes, Puskin che chiacchierano attorno al tavolo delle bibite), Antonio Moresco offre nell’inclassificabile Lo sbrego (Holden Maps – Rizzoli) il resoconto di un furente corpo a corpo con la scrittura, e con gli scrittori che di quella sono artefici sommi. Un materiale clamorosamente didattico, quello dello Sbrego, eppure di una tale densità emotiva capace di tenere assieme (“prendere dentro”, direbbe l’autore) le disordinate ambizioni onnicomprensive della idea di letteratura di Moresco con una scrittura agile ma non fittizia, affollata e viscerale che procede per illuminazioni continue, apponendo su quella passione un sigillo che attesta che queste pagine sono frutto di un dialogo fremente e ininterrotto, commovente e anche aggressivo, con i libri e la letteratura. E non forse un caso che, in un’accezione di basso uso, in italiano “sbrego” significhi, oltre che “strappo”, anche “offesa”, “affronto”. Con l’animo lievemente ostile di chi sembra non trovare, nelle vulgate critiche sui suoi autori, la stessa lente con cui li legge, e con la conseguente, improvvisa sete che esplode in fondo alla gola – un’arsura che può essere placata solo fabbricandosi da sé una piccola galassia portatile, un sistema che funziona come un minuscolo universo letterario con ferree leggi proprie e meccanismi inaggirabili – Moresco deve essersi divertito molto nel lanciare una sfida prima di tutto, prima ancora che narrativa e più genericamente letteraria, critica. Privilegiando un metodo che procede per continui salti da un autore all’altro, da un periodo all’altro, da un libro al successivo, senza assi cartesiani o reticoli di fogli millimetrati a segnarne le curve e le funzioni, Moresco dà forma a un saggio asistematico, ricchissimo di spunti autobiografici, di notazioni laterali, organizzato nel modo più libero: quanto di più lontano si può immaginare dai rigori della scientificità accademica assai di moda dopo le ubriacature formaliste, strutturaliste, linguistiche degli anni ’70. In questo prodotto letterario – a metà guado tra narrativa, saggistica, e appunto lettura critica – l’oggetto d’arte non viene immobilizzato analiticamente, ma inseguito descrittivamente nei suo meccanismi interni, tallonato da uno stile corposo e in fondo anche velleitario – perché una scrittura critica di tal fatta è inevitabilmente destinata, se non al fallimento, alla irripetibilità: “Mi sembra che quello che faccio non coincide mai completamente con quello che faccio, di non trovare mai pace, sollievo (…) Che ci sia sempre qualcosa da qualche parte che non mi dà requie, che brucia, ma che questo non coincida mai completamente col contenitore dentro cui brucia. C’è sempre qualcosa, qualcosa di grosso, voglio dire, che non trova posto, che non si esaurisce in questo”. Da qualche parte Jacques Derrida ha parlato della necessità di “un’antropologia o di una oftalmo-patologia culturale”. Tutti i libri di Moresco, ma questo in particolare, risentono sempre di un fondamentale registro sub specie visionis. Lo sbrego nasce proprio da una particolare patologia dell’occhio: il nistagmo oculare, un movimento ritmico e involontario che interessa appunto gli occhi. “Fin dall’inizio del libro – ha spiegato l’autore in un’intervista – ho inserito subito questa mia particolarità visiva. Da una parte mi accompagna fin da quando ero piccolo, ed è una cosa che per me ha avuto molta importanza sul mio modo di vedere l’esterno. D’altra parte probabilmente mi ha costretto a riempire i vuoti, a immaginare con la mente i pezzi che non vengono messi in combaciamento dall’occhio. Questo disturbo (del quale in questo momento quasi non mi accorgo, mentre in certi momenti della mia vita è stato presente allo sfinimento) mi permette di fare un discorso su come nasce la visione, di come nasce la visione alfabetica, e quindi di sottrarmi alla costruzione rigida di ideologie, di teorie, attorno al gesto dello scrittore, che è una cosa che caratterizza un po’ tutto il ‘900”. È un atteggiamento di banditesca protervia, quello che viene fuori da queste pagine scatenate, una forma sformata in un panorama letterario che sembra del tutto incapace di parlare di scrittori con la stessa commovente e fierissima devozione di Moresco; un libro che costituisce un elemento di rottura di fronte al quale è difficile, oltre che stupido, girare il capo e fare finta di niente.

Con una mitezza della scrittura che – come all’interno di un laboratorio di chimica – funziona da reagente per eccitare le molecole impazzite che ne compongono la trama, Giulia Fazzi con Ferita di guerra (Alberto Gaffi editore) immerge un io al femminile in un microcosmo – la fabbrica Rubino di Carpi – dolente e livido, denso di un senso luttuoso dell’esistere che si traduce in una successione di gesti ed episodi di una violenza indicibile (e appunto proprio una violenza sessuale la giovane protagonista sarà costretta a subire dal suo capo). Giulia Fazzi fornisce uno spaccato di straordinaria nitidezza dell’ambiente della fabbrica, claustrofobicamente segnato da confini non solo fisici e spaziali ma anche temporali (è sempre il tempo – tempo per vivere, tempo per amare – che sembra scarseggiare nella vita di Lisa): “Quando entri in fabbrica dalla porta sul retro, la prima cosa che vedi è il corridoio davanti a te e, in fondo, la porta del capannone. Ti lasci alle spalle il mondo di fuori. Ti lasci alle spalle casa, amici, genitori”. Un climax, quello che sfocia nella violenza subìta da Lisa, frutto di un processo di lentissima e metodica accumulazione d’odio, uno stratificarsi di rancore che si poggia giorno dopo giorno sulle spalle della protagonista. Non ci sono istanze allegoriche, in questo romanzo, né tratti metaforizzanti o astraenti: Giulia Fazzi racconta una storia di violenza e sopraffazione con quel sapore amaro, metallico, di chi abbassa di un grado il livello di distanziamento del narratore dalla storia narrata, capace di aggirarsi – scrutando, toccando, annusando – in mezzo alle macerie atroci che la guerra del lavoro contemporaneo lascia sul terreno di vite giovani e già segnate, appunto, da ferite immedicabili.

E da un’altra storia di violenza – più trattenuta, più lontana, persa in quel periodo brumoso della coscienza e della memoria che è l’infanzia, ma di certo non meno dolorosa –prende le mosse anche Elisabetta Liguori ne Il credito dell’imbianchino (Argo editore). Liguori si muove rasoterra, soprattutto nell’imbastire l’intreccio del romanzo: due voci narranti alternate (quella del Biondo e quella del Cancelliere, incaricato dal dottor Spiga, magistrato in pensione, di consegnare al Biondo una lettera che suona come un testamento) per raccontare una storia di un bambino abbandonato dalla madre, affidato a un padre duro e brutale, convinto che l’educazione di un figlio passi per le pietre dei pugni e il metallo della cintura: “Quello menava, parlava e sputava saliva. Mi voleva sempre davanti agli occhi. Mi voleva e mi menava e non mi sembrava strano manco per niente (…) La cinghia arrivava quando era stata violata una regola. Sono importanti le regole, sono cose serie”. Ricorrendo a registri linguistici (ma anche sintattici, lessicali, grammaticali) che segnano con l’evidenza lampante che solo le parole riescono a dare i confini che separano la narrazione del Biondo da quella del Cancelliere, Elisabetta Liguori plasma fatti psicologici e biografici essenziali come un das morbido, dando forma a piccole sculture nervose e impulsive (il Biondo), o riflessive e silenziose (il Cancelliere) mosse da stati d’animo e pulsioni psichiche fondamentali, millenarie: l’amore paterno, l’affetto filiale, la fiducia, la paura d’essere abbandonati. Muovendosi in uno spazio linguistico zeppo di trovate, spunti, innesti dialettali, Elisabetta Liguori fa sì che, attraverso la filigrana della storia, si intraveda tutta l’incertezza e l’arbitrarietà che governano i rapporti umani, e affidandosi a un finale fuoco catartico, purificatore, capace di instillare una goccia di speranza anche nella parola fine, disegnata dalle lingue incandescenti che azzannano i faldoni contenenti la vicenda giudiziaria del Biondo.

(pubblicato in Nuovi Argomenti n.ro 36, “Bestie“, ottobre-dicembre 2006)

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7 Commenti

  1. about Pincio:
    “Questa volontà di rianimare una vescica dell’immaginario che sembrava ormai esausta già da anni, prosciugata da cento anni di narrazioni originali ”
    Io la definirei prostatite cronica: Pincio con la mano sul muro che si sforza di pisciare qualcosa di interessante e non ci riesce!

  2. Pincio è un mirabile esempio di scrittore caduto in disgrazia perché abbandonato dall’ispirazione (e accettato dalla Comunità Letteraria e incensato proprio nell’atto di questa caduta). Lo spazio sfinito era un grande libro. Un amore dell’altro mondo mi sembrò bello, ma rileggendolo oggi lo trovo un libro noioso e bidimensionale. La ragazza che non era lei, invece, è un fallimento colossale. E la “lingua piana, niente affatto preziosa o ricercata né nel lessico né nella sintassi” di cui parla Sorrentino mi sembra nient’altro che la parabola di uno stile vorticosamente disperso in una patetica mancanza di idee; e infatti mi turbò parecchio il fatto che Stile Libero avesse deciso di pubblicare lo stesso un pastrocchio come LRCNEL senza neanche tagliare il finale-plagio preso paro paro da The beach. Allora quando penso a quest’evoluzione/involuzione mi verrebbe da conoscere i particolari del lavoro di editing che Carratello e Briasco fecero su Lo spazio sfinito, perché credo che siano stati molto molto bravi.

  3. mille volte meglio un bocchino di elisabetta racconto. anzi, scusate, mille volte meglio un racconto di elisabetta bocchino.

  4. non sono d’accordo sul giudizio eccessivamente severo espresso nei commenti riguardo al libro di pincio. certo, un lettore appena appena smaliziato obietterà a ragione che i personaggi sembrano del tutto idioti, le situazioni penosamente false, la trama goffamente improbabile, le idee generiche e trite, il linguaggio sguaiato e maldestro, lo stile insipido e dilettantesco. rimarcherà che si tratta di un’opera perfettamente inutile, che mette in scena una narrazione da operetta recitata in falsetto, con dialoghi irritanti e insipidi tenuti insieme da un’ambizione spropositata frutto di un’intelligenza modesta; un bavardage sovreccitato che spira un’aura di ilare ottusità. è tutto vero, non lo nego, ma proprio qui sta il fascino sottile, il singolare pregio di quest’opera: nell’aver dato libero sfogo a un velleitarismo che ha però la pazienza, la necessità, la qualità ascetica di un grande amore; e nell’aver colto l’idiozia e l’insensatezza dell’esistere rappresentandole con la sciatta retorica del quotidiano, imprigionando il tutto in ‘idee’ da cioccolatini, brandelli di quella filosofia che chiunque intende, giacché è appunto la miseria della filosofia. un libro che non può ‘significare’ nulla perché ciò di cui si occupa è appunto insignificante; meglio, è formulato in modo da non avere significato alcuno. non mi sembra poco.

  5. Cavolo, Sorrentino, se avessi avuto dubbi questo tuo ultimo commento me li ha tolti, io trarrò dal tuo articolo questi benefici:
    Piersanti forse, quasi certamente sì.
    Siti l’ho già letto con soddisfazione.
    Pincio non mi avrà.
    Piva neppure (soprattutto per la materia, noiosa).
    Moresco no. (Ho capito che Moresco vuole percorsi amorosi, non critici)
    Giulia Fazzi forse, se si può preventivamente sfogliare in libreria.
    Elisabetta Liguori come Fazzi.
    Le ultime due soprattutto per curiosità, sperando che la materia femminile e la violenza si trasformino in stile, ché di per se non mi bastano, anzi mi respingono e non ho ben capito dal tuo pezzo se ne hanno uno o se invece si tratta di nuovi esempi di quella letteratura sociale che sta dilagando ovunque, anche qui.
    Però grazie.

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di Piero Sorrentino Va bene, la scena di apertura è bella. Il risveglio nella stanza d’albergo, il sole, le biciclette...
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