Una modesta richiesta

di Christian Raimo

È difficile criticare l’amministrazione veltroniana proprio sulle politiche culturali non correndo il rischio di sembrare elitari, bastian contrari, inutilmente polemici. Dalla Festa del Cinema alla Notte Bianca al Festival delle Letterature a Massenzio ai concerti al Colosseo alle varie Case (del jazz, della letteratura, del cinema, dei bambini…), l’immagine di Roma, l’offerta di iniziative, e soprattutto l’indotto economico legato alle manifestazioni culturali parla da solo. E dice: crescita, internazionalità, trasformazione. Le due giunte Rutelli prima e le due Veltroni ora, tutte sotto l’egida di Gianni Borgna, hanno cercato di espandere all’intero anno solare la formula dell’Estate Romana che fu di Nicolini. Un modo per trasformare una città a fortissima vocazione provinciale e paesona in qualcosa che assomigliasse, almeno sulla carta, a una metropoli.
È vero che – se questo era lo scopo – è occorso fare i conti con una serie di resistenze, non solo esterne. Soprattutto con le varie forme più o meno esplicite di cricche, quelli che si possono chiamare eufemisticamente entourage. A quale politico non piace occuparsi un po’ anche di cinema, di arte, di teatro? Ecco le logiche delle lobby, dei circoli, degli “uomini legati a…”, che appunto in una sfera gassosa come è quella della gestione della cultura istituzionale – dove è arduo definire e imporre criteri nitidi (professionali/artistici) nella selezione delle persone destinate a amministrare fondi e spazi pubblici (teatri, fondazioni, festival, accademie…) – finiscono spesso per prevalere. Per equilibrio politico nel migliore dei casi, per indolenza o incompetenza nel peggiore.
Non si può chiedere a Veltroni e alla sua giunta di andare contro la propria indole, contro la propria missione presuntamente nazional-popolare. Si può forse far notare che questa Roma per tutti non è proprio per tutti, prezzi medi dei biglietti alla mano; e buste paga degli stessi stagisti impiegati in questo terziario culturale nell’altra. Ma questa appunto può apparire come una polemica vaga, un dito puntato su una scelta politica che ha fatto della mediazione tra ideali (e interessi) spesso opposti la sua cifra, neanche nascosta. E che fa mostra di contare come legittimazione dell’indiscutibile (se si parla di numeri) incremento economico conseguente.
Si può tuttavia avanzare a Veltroni e alla sua giunta una modesta proposta. Gli si potrebbe domandare uno sbilanciamento del suo ormai onomastico equilibrio. Una piccola presa di posizione. Il fatto è questo: a fronte di questa elevatissima teoria nell’offerta di iniziative, quello che rimbalza all’evidenza per contrasto è la difficoltà della produzione culturale, della crescita dal basso, sul territorio, di un fermento, di una proposta artistica ampia, diffusa, progettuale, articolata, di livello. Quella che si chiamerebbe una Scena. L’industria culturale in Italia è quello che è: un settore sicuramente non molto vitale, legato in modo spesso parassitario ai grandi gruppi che hanno il proprio core-business in altro, succube di logiche assolutamente commerciali, se non direttamente pubblicitarie. Per le piccole compagnie teatrali, per le piccole case editrici, per le piccole riviste culturali, per le piccole case di produzione cinematografica, per le piccole etichette discografiche, il problema principale molto spesso è sopravvivere senza svendere la propria unica risorsa: una certa indipendenza. Cercare di portare avanti la propria funzione di laboratori di ricerca.
Dunque, la modesta richiesta è la seguente. A Roma esistono e continuano ad avere un nome di fama scuole di formazione artistica. C’è un’Accademia d’Arte Drammatica, c’è un Centro Sperimentale di Cinematografia, c’è un’Accademia Nazionale di Danza, per fare degli esempi. Ripartiamo da qui. Oggi queste scuole vivono una crisi, seria. Per varie ragioni, che potremmo sintetizzare nella mancanza di ammodernamento di queste strutture e nella parallela perdita di autorevolezza. Vale a dire: la didattica non forma delle professionalità in grado di valere una volta usciti dalla scuola. Gli studenti della Silvio D’Amico sono addirittura in sciopero. Per il nuovo anno del Centro sono stati tagliati i posti per i bandi d’accesso. E chiunque abbia tra i venticinque e i trentacinque anni e subisca la spietata e logica dei master e degli stage postuniversitari, può capire per empatia che valore abbia questa crisi. È una crisi di progetto, determinata da una mancanza di investimento.
Ora: invece di cercare di risolvere questa crisi tamponandola, perché Veltroni non dà un segnale chiaro? Perché invece di coccolare progetti come l’Accademia dello Spettacolo che Costanzo vorrebbe aprire a Cinecittà, non si investe seriamente in queste scuole storiche. Come? Possono bastare dei minimi sforzi. Eliminare le tasse per esempio, aumentare il numero degli iscritti, aprire la possibilità di corsi specifici singoli, garantire borse di studio per l’estero, migliorare le attrezzature tecnologiche disponibili, fornire accessi gratis al cinema e ai teatri… È possibile che, con centinaia di giornalisti accreditati, gli studenti del Centro abbiano pagato prezzo intero alla Festa del Cinema, per fare un esempio eclatante?
La modesta proposta non è dettata da una visione paternalistica della didattica artistica, ma quanto piuttosto da un’evidenza. Se questo benedetto terziario della cultura continuerà a espandersi come pare nei prossimi anni, non le sembra giusto investire direttamente sulle persone che di questo sviluppo potrebbero essere attori e non spettatori? Non le sembra giusto coinvolgere diplomandi e diplomati fin da ora nella gestione di queste istituzioni? Non le pare, per essere elementari, una scelta politica coraggiosa responsabilizzare le nuove generazioni nell’amministrazione della cosa pubblica? Non si potrebbe cominciare anche da qui a immaginare il futuro di questa città?

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9 Commenti

  1. Forse Christian è troppo giovane per ricordarsi cosa era Roma prima della lunga dinastia delle giunte di sinistra. C’era lo sfascio prodotto dalla peggiore Democrazia Cristiana degli anni ’60 e ’70. Il primo sindaco di sinistra è stato Giulio Carlo Argan (indipendente del PCI, 1976-1979), seguito da Luigi Petroselli (PCI, 1979-1981). E poi, dopo la parentesi di nuovo democristiana del periodo 1985-1989, ancora giunte di sinistra fino ad arrivare a Veltroni a partire dal 2001.
    L’ideazione dell’Estate romana da parte dell’architetto Renato Nicolini, assessore alla cultura della giunta Argan, è stata meritoria. C’erano ancora, a quei tempi, delle assurde sacche di emarginazione nelle periferie romane, c’era ancora troppa violenza. Solo col sindaco Luigi Petroselli sono state smantellate le ultime baraccopoli nelle periferie. C’erano inoltre stati gli “anni di piombo”, e la città era come implosa, la gente non usciva e non si incontrava più. L’idea dell’Estate romana è stata proprio quella di tirare fuori la gente dalle case, di farla incontrare alla basilica di Massenzio a vedere il Napoleon restaurato o a seguire le conferenze all’aperto di Fantalogica condotte da Lucio Lombardo Radice, magari tra un film indiano con sottotitoli in inglese da una parte e l’odore dei panini col würstel dall’altra. Sono state esperienze importanti per noi giovani di allora. Finalmente si usciva di casa, ci si incontrava e si viveva in qualche maniera un’ipotesi di crescita culturale collettiva. Tutte le polemiche che sono seguite sull’effimero, sono state solo sterili manovre politiche. L’Estate romana aveva prevalentemente un fine sociale, non strettamente legato alla formazione all’interno delle istituzioni preposte. Ed è stata tuttavia una rivoluzione copernicana.
    Quella di oggi non è che l’evoluzione di quella politica culturale. Il modello dell’industria culturale non ha funzionato, e la crisi economica del paese ha colpito pesantemente tutto il settore. L’unica risposta possibile è stata dunque quella di riprendere e ampliare il discorso in una direzione che favorisse la fruizione dei beni culturali sotto forma di “intrattenimento culturale”, in maniera tale da garantire una certa crescita economica della città mantenendo in piedi l’idea di far uscire la gente per farla incontrare nei luoghi dove si fa cultura. Certo oggi al posto di Lombardo Radice abbiamo Odifreddi, e al posto del panino col würstel abbiamo il kebab. Ma tant’è.
    Il finanziamento delle scuole, delle accademie e delle università è un compito troppo impegnativo, dal punto di vista economico, anche per un comune ricco come quello di Roma. Questo compito spetterebbe in realtà allo Stato. E poi siamo così sicuri che la vera produzione culturale e artistica passa ancora attraverso gli istituti di formazione preposti?
    Le cordate politiche, i favoritismi, e tutto il malcostume paramafioso che conosciamo, sono invece l’espressione più genuina della partitocrazia italiana. E contro questa sembra che neanche gli dèi possano nulla.
    cp

  2. A noi Tarantini sarebbe bastata la punta dell’unghia dell’alluce sinistro di Veltroni, per non trovarci nel disastro economico e culturale in cui ci ha sprofondato la giunta Di Bello. Rifletteteci su, forse lo stomaco troppo pieno gioca brutti scherzi.

  3. Non ho amato mai Veltroni e neanche la compagnetta Melandri. Sull’argomento mi sono espressa innumerevoli volte e sarei solo ripetitiva. Basti solo aggiungere che esprimo un giudizio da “addetta ai lavori”. Fosse un Ministero per le politiche agricole o anche alle Finanze, non saprei che dire.

  4. non conosco la situazione delle varie accademie citate da Raimo quindi rischio di dire cose semplicemente non vere ma spesso non si trova nessuno disposto a investire in questo tipo di istituzioni perché sono posti “bloccati” dove le decisioni e il potere sono oramai da decenni saldamente in mano a una “burocrazia intellettuale” sclerotizzata che sarebbe difficilmente in grado di rinnovare alcunché. Soprattutto spesso chi investe (sia pubblico che privato) necessita di un qualche controllo sui soldi investiti e dunque voce in capitolo nelle strutture decisionali cosa che spesso costa più sforzi dello stesso reperimento dei fondi.
    Dunque non sorprende che spesso si opti per creare strutture nuove e “parallele” che viste così sembrano semplicemente uno spreco di soldi. Capisco che se l’alternativa è l’accademia dello spettacolo di Maurizio Costanzo questo possa apparire deprimente (chissà però…). Questo è uno schema classico con tutto ciò che è pubblico: i “generosi intellettuali” di un tempo non vedono l’ora di diventare i custodi del tempio o più semplicemente di tirare a campare una volta assunti a tempo indeterminato. Datemi pure addosso ma è difficile fare l’artista e l’intellettuale con lo stipendio fisso e le garanzie sindacali. Viva le belle stagiste!

  5. non saprei. giustissimo dare valore e investire nella formazione, ma ci vorrebbe più serietà, più rigore.
    ha senso investire fondi in un istituto come il centro sperimentale dove grosso modo solo i figli di Qualcuno, o chi è bravo ad arruffianare le conoscenze giuste riesce riesce a entrare?
    con criteri di selezione che solo in seconda istanza prendono in considerazione il valore del candidato?
    dimmi un po’ tu

  6. Condivido il problema posto ma non la soluzione offerta: coinvolgere diplomati e diplomandi? Non è bastato l’insegnamento del 68 nelle Università? Se prima di quella data sembravano ancora luoghi del sapere dopo chi più se ne è accorto che lì si dovrebbe studiare?
    Vuoi fargli fare alle accademie la stessa fine?

  7. Non entro nel merito dell’articolo perchè non conosco la realtà delle Accademie, colgo però l’occasione per alcune brevi considerazioni: Da qualche anno a Roma impazza l’approccio veltronicentrico. Sia nel bene che nel male tutti si rivolgono a Veltroni, considerato un Santo Patrono per alcuni ed un Despota per altri.
    Forse conviene ricordare che Roma è divisa in una ventina di municipalità, alcune più vaste di una grande città, con enormi problemi al loro interno (alloggi, lavoro, immigrazione, ambiente, politiche culturali ecc.). Il punto a mio avviso è che non sempre queste aree sono amministrate da Presidenti di Municipio all’altezza della situazione, per non parlare dei vari consiglieri, assessori con deleghe…ecc. Chi si chiede qual è la preparazione di queste persone. Quali sono i canali di selezione di questa classe politica. Se le sezioni di partito sono sempre più ridotte a meri comitati elettorali, dov’è finita la formazione ?
    Possibile che ogni problema dev’essere ricondotto all’operato del sindaco? Non c’è il rischio di deresponsabilizzare centinaia di persone che lavorano nell’amministrazione pubblica, spesso con compiti e competenze molto importanti?

    Il mio augurio è quindi un maggiore decentramento. Un’ampiamento delle competenze delle singole municipalità sostenute da una responsabilizzazione dei governi locali. E’ un banalità, ma forse è bene ricordare che Roma è molto, molto più grande del centro di Roma.
    Buon Anno

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