Bye bye credulità

9788845257971g.jpgdi Christian Raimo

Fa male stroncare il proprio autore preferito. Eppure a pag. 163 delle 544 dei Rabdomanti di Rick Moody, mi sono arreso. Dopo aver pianto – letteralmente – leggendo I racconti di demonologia, La più lucente corona d’angeli in cielo, Il velo nero, avevo covato un’attesa quasi adolescenziale per questo “great american novel” di Moody. Completamente delusa. Intendiamoci, questo non è un giudizio liquidatorio, come la freccia avvelenata lanciata contro Moody dal critico Dale Peck, che in una famosa recensione sul “New Republic” lo etichettò quale il peggior scrittore della sua generazione. No, anzi: quello che gli rimproverava Peck, la sua eccessiva, ricattatoria (a suo avviso menzognera) richiesta di empatia, era proprio quello che per me rendeva Moody il migliore scrittore della sua generazione. Un autore sentimentale, patetico, che faceva dell’iper-esposizione – e della sua biografia e della sua bottega di scrittore – lo strumento per affrancarsi dalle pastoie della fiction americana contemporanea (le opprimenti “scuole” di scrittura, l’ansia di un pubblico che chiede intrattenimento, la funzione “sociale” della letteratura). Moody era, come molti altri suoi coetanei all’improvviso, un autore non ironico: si trovava al contrario imprigionato all’interno di un incantesimo che riusciva ad ancorare i suoi libri a quello che più chiediamo oggi alla narrativa, di renderci creduli. Come era in grado di far ciò? Così: tornando ossessivamente su due temi assai familiari al nostro repertorio emotivo, il senso di colpa e la dipendenza. E facendo leva su una straordinaria capacità di scavare nel tragico di una nazione avvolta in una percezione troppo indulgente di se stessa. L’America, diceva, nel bellissimo finale del Velo nero, è nera. (“Rosso, bianco e blu è solo marketing retorico, infatti è lo slogan a cui ci ispiriamo per non spaventare gli stranieri; il vero colore americano è il nero, primordiale, eterno, senza cuore, infinito, pieno di dolore”). Rick Moody ha visto morire all’improvviso la sua amatissima sorella, e Rick Moody è stato un alcolista. Da qui, dall’inesausto tentativo di comprensione di questi due eventi della sua vita di essere umano americano iperacculturato e inabile sentimentalmente, dal senso di sproporzione che si prova rispetto all’immagine di se stessi e a quella del mondo, sembrava generarsi ogni parola che scriveva. L’urgenza diventava ritmo: ipotassi o paratassi. La fame di senso diventava sperimentazione: metafiction o romanzo di formazione, nouveau roman o racconto borgesiano.
Qui, nei Rabdomanti, tutto questo sembra mancare, sembra essere stato auto-censurato. Fin dall’incipit, intitolato con una esplicitezza respingente: “Titoli di testa e tema musicale del film” (Seguono dieci pagine di anafore che vorrebbero seguire calligraficamente il percorso della luce sul globo terrestre ma rimandano all’idea dell’autore che si è studiato per dieci giorni le mappe di Google Earth). Per proseguire con quello che è il senso del libro: un corposo romanzo inclusivo sul multietnico patchwork antropologico americano. Da qui, ecco il tentativo di costruire il romanzo sull’industria della televisione americana, e al tempo stesso di donare una dimensione aurale alla descrizione del mondo dello spettacolo. Con che armi? Con una specie di bulimia linguistica, un inarrestabile iperdescrittivismo che più tenta di forzare l’attenzione del lettore, la sua capacità di interessarsi all’inutilità, al dettaglio, più in definitiva stanca. E quindi: ammiccamenti che non fanno ridere; flussi di coscienza impossibili; dialoghi ipercerebrali; snodi della trama all’insegna di qual è la scelta più implausibile?; virtuosismi; esercizi di stile; esibizioni di bravura e di tecnica letteraria, che fanno intravedere ogni volta le intenzioni dell’autore invece di dissimularle – i suoi debiti nei confronti del postmoderno, Elkin o Gaddis, la sua tensione etica per il romanzo europeo, Bernhard o Böll.
Torniamo così alla famosa profezia che David Foster Wallace proclamava sul futuro della narrativa americana nel saggio “E unibus pluram” nel 1990. Vedrete, i nuovi narratori saranno ingenui e sentimentali, saranno capaci di essere commoventi. Ed è stato effettivamente così. Le vergini suicide, Infinite Jest, L’opera struggente di un formidabile genio, Tempesta di ghiaccio… mettevano in scena personaggi dolenti, senza protezione, “burned children” (come li catalogava l’antologia uscita per minimum fax meno di dieci anni fa). Manifestare quest’“ustione” era a tutti gli effetti una dichiarazione politica. Esporre le proprie ferite nel paese che esportava democrazia e intrattenimento per tutto il pianeta. Ora, l’impressione è che per questi figli bruciati la sana esigenza di crescere li abbia portati a scrivere con un’ansia da prestazione, un afflato da impegno civile, il sentirsi parte della stessa America colpita dall’11 settembre in poi. Dove prima c’era un senso di dissidenza, quasi esistenziale, ora prevale il senso di responsabilità: e quello che traspare è il desiderio di raccontare questa nazione metonimica del mondo intero disegnando un grande affresco sociale, una strabiliante saga che corre attraverso i secoli, una millimetrica cartografia del presente. Perché, se alla fine, nessuno commuove più, né Jeffrey Eugenides con il suo Middlesex, né David Foster Wallace con i suoi racconti di Oblio, né David Eggers con La fame che abbiamo, né Moody con i suoi Rabdomanti…? Perché, se nessuno ci fa sentire fraterni di uno scrittore debole e ferito?

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3 Commenti

  1. Non sono d’accordo. Raimo, quanto ti aspettavi che durasse la fase autobiografica dell’autore? Ha già dato a sufficienza, non ti pare? Romanzi e racconti sul suo dolore, sui suoi drammi, e lui sempre sovraesposto. Talmente sovraesposto che, dopo la pubblicazione del ‘Velo nero’, quegli stessi critici che lo avevano osannato hanno cominciato a lamentarsi dell’Io in eccesso nelle sue storie (vedi intervista rilasciata da Moody a Gorlier su ‘La Stampa’). Con ‘Diviners’ ha tentato una differente strada narrativa: ha inventato, quasi per la prima volta, personaggi completi, in un disegno certo complesso ma molto ‘americano’ (poichè è una storia americana nel vero senso del termine). E’ anche ora che il ‘ragazzo’ chiuda gli scheletri nell’armadio e si confronti col suo tempo in maniera oggettiva. Tra l’altro l’11 settembre è tenuto ben al di fuori della narrazione (il romanzo è ambientato nel 2000), proprio per infondere l’idea di un Paese al collasso prima ancora delle Torri. Poi scusa: tu puoi fare quello che vuoi, certo, ma recensire/stroncare un romanzo letto al 20% come dichiari all’inizio ha qualcosa di superficiale o, per essere più delicati, di azzardato.
    Ti hanno commosso fino alle lacrime Eugenides, Eggers, Moody coi loro romanzi d’esordio, per poi deluderti coi seguenti… io trovo che ‘Middlesex’ sia un capolavoro, e non mi ha fatto piangere. Un capolavoro deve per caso fare questo, farci piangere? Mah.
    Poi spiegami in quale punto preciso ‘Infinite jest’ risulta commovente, così forse ci capiremo meglio, perchè ci sono mille aggettivi per quel libro, ma ‘commovente’ lo terrei fuori dalla griglia.
    Concludo: se tu avessi letto ‘Diviners’ fino alla fine ti saresti reso conto che il colore dell’America moodyana è ancora più nero, c’è la notte che incombe, stanno per arrivare i boeing, e stavolta è più nero del nero.

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