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Ipotesi su Anna

annadi Helena Janeczek

Addio grande scrittrice. Addio cantrice di verità. Addio coraggiosa. Addio. Che la terra ti sia lieve e le tue parole continuino pesanti. (Dai commenti di “Internetbookshop”, in data 8.10.2006)

L’odio è altrettanto lecito dell’amore ed è rivolto a coloro che disprezzano…Georg Büchner, “Il messaggero dell’Assia”, pamphlet politico del 1834

“Ahimè”, disse il topo, “il mondo diventa ogni giorno più angusto. Prima era talmente vasto che ne avevo paura, corsi avanti e fui felice di veder finalmente dei muri lontano a destra e a sinistra, ma quei lunghi muri precipitano così in fretta l’un verso l’altro che io mi trovo già nell’ultima camera e là nell’angolo sta la trappola in cui andrò a cadere”. “Non hai che da mutar direzione” disse il gatto, e se lo mangiò”. Franz Kafka, Piccola Favola, traduzione di Anita Rho.

All’aeroporto di Francoforte che è il più grande d’Europa non esiste un negozio di giocattoli. Non è possibile. C’era, mi ricordo che c’era. Avevo già notato che in genere negli aeroporti tedeschi l’offerta di regali per bambini è di una scarsità impressionante, ma a Francoforte c’è di tutto: “Caviar House”, “House of Champions”, “Boss”, un supermercato e due store hi-tech e telefonia, una cinquantina di negozi e boutique e allora uno, uno solo di giocattoli dovrebbe saltar fuori.
E’ domenica. Trovare qualcosa all’aeroporto è obbligatorio. Domenica, 8.ottobre 2006.

Sabato, 7.ottobre 2006. Esco dalla Buchmesse che è la più grande fiera del libro in tutto il mondo quando ormai hanno diffuso per tutti i padiglioni la sirena e il messaggio che si chiude. Sei e mezza circa. Sto scendendo dalle scale mobili con una collega, siamo ferme nel flusso denso ma non accalcato di persone che escono dai padiglioni europei. La mia collega, che vende diritti all’estero e quindi conosce mezzo mondo dell’editoria, saluta una donna dietro a lei.
“Ciao come va?”
“Sono sotto shock”.
La mia collega pensa sia un’iperbole, una battuta per introdurre il resoconto di un’asta particolarmente dissennata e ridacchia per convenzione e cortesia.
“Hanno ucciso Anna Politkovskaja, nostra autrice”.
La donna è francese. Parla bene l’italiano, ma dice “uscisò” e “autrisce”. La mia collega non ha in mente chi è Anna Politkovskaja, ma la tizia di Gallimard glielo sta ricordando, le sta raccontando la storia dell’avvelenamento sull’ aereo con cui cercava di raggiungere Beslan.
“Il tè”, intervengo. La notizia, piuttosto piccola sui nostri giornali, ricordo di averla portata in casa editrice per promuovere l’acquisto di “La Russia di Putin”.
“E stavolta sono riusciti ad avvelenarla?” chiede la mia collega.
“Non, stavolta le hanno sparato con un….come si disce…con un fuscil?”
“Ah”.
E qui finisce la scala mobile.

Al ristorante persiano gestito da iraniani in esilio, pieno di compatrioti venuti per la fiera (l’editoria per ragazzi iraniana è considerata all’avanguardia) che portano a mangiare i loro colleghi occidentali, chiedo della notizia alla mia amica che fa l’agente letteraria e sta nel vero cuore commerciale della fiera, all’“Agents’ Center”.
L’Agents’ Center è quasi identico all’ufficio in cui nel “Processo” di Orson Welles lavorava K- “quasi” per la presenza di colore, poco. Uno stanzone grande come una fabbrica, delimitato da pannelli in compensato, dove in lunghe file di tavoli siedono da un lato gli agenti etichettati da cartelli affissi sopra le loro teste, dall’altro i funzionari editoriali. Saranno venti o più le file ininterrotte delle scrivanie in laminato grigio.
“Lo hai saputo?”
“Sì. Ho visto arrivare la telefonata alla sua agente, l’ho vista sbiancare, lontana, come in un muto”.
“E poi più niente?”
Vedo la mia amica mentre accoglie la notizia che si sperde sopra i banchi indaffarati, nei suoni degli altri telefoni, e svapora sopra e sotto ai pannelli sangue di bue. La scrolla dal volto con un sorriso ai clienti, ricettacolo di morte minuto e beneducato. Ha la stessa età di Anna Politkovskaja e un sorriso da brava bambina bionda, disarmato e vero, un sorriso che chiede “per favore, voletemi bene, anche se non lo merito”, come supporrò più tardi potesse avere o aver avuto Anna. Più tardi supporrò infatti che nascere ragazze di buona famiglia, anche di buona famiglia sovietica, possa diventare un rischio mortale.
“Bisognerà guardare il telegiornale”, dice la mia amica e mischia il riso alla salsa di melograno, antica come un altro impero sgretolato.

Mi sveglio presto, troppo presto, la mattina dopo. Sui canali normali tedeschi ci sono i cartoni animati e quelli tematici d’informazione aprono con la notizia di due giornalisti tedeschi uccisi in Afghanistan mentre stavano andando a fare un servizio nella zona dei Buddha distrutti. Poi politica interna. La giornalista russa verrà dopo, non hanno pensato di accorparla ai due connazionali. La perdo facendo zapping sulla CNN che, a sua volta, ha altre priorità fra cui l’anniversario del terremoto in Pakistan. Vedo la scritta che corre sotto, non pare aggiornata: Anna Politkovskaya, the russian journalist, shot yesterday in her home in Moskow. O giù di lì. Infine parte un servizio che dice due cose, che l’hanno sparata o trovata sparata nell’ascensore, più gli antefatti che riguardano la sua carriera, la Cecenia, il teatro Dubrovka, il tè, il libro contro Putin. Chiusa sulla Russia che perde una delle sue ultime voci libere.
Questo è lo schema. La notizia verrà data così, con integrazioni e aggiunte, con farciture variabili a seconda di chi la riprende, giornale o telegiornale, di che livello e quale nazione, e ovviamente a seconda di quanto sia considerata fresca e grossa rispetto alle altre. Unico orpello, in questo telegiornale delle sette su CNN, è un inciso nella frase finale: “Politkovskaya”, a mother of two…”

L’albergo in cui mi trovo è direttamente comunicante con la fiera, il solo, un semicerchio bello e netto di cemento e vetro, però arredato in un modo che pare riprodurre in versione deluxe uno stile Ikea che a sua volta vuole riprodurre un gusto borghese falsamente allegro, sospeso fra la vergogna del possesso e l’ostentazione. Per un disguido di prenotazioni sono finita a prelevare per una notte e quelle poche ore di veglia la camera occupata fino al giorno prima dal nostro direttore che si trova su un piano per qualche ragione più esclusivo e quando per la prima volta cerco di raggiungerlo, l’ascensore non vuole saperne di fermarsi. Allora, dopo un principio di claustrofobia e nausea per il continuo su e giù, esco a quello immediatamente inferiore, il quinto. Ma non c’è nessuna possibilità di risalire, la porta di ferro è chiusa, e per le scale si può soltanto scendere, scendere, scendere lungo un tunnel verticale di puro cemento. Sarebbero solo cinque piani, ma questi non finiscono, sarà semplicemente perché sono alti, perché il vetro doveva prevalere sul cemento, di fatto ad ogni pianerottolo davanti al quale c’è una porta armata, aumenta il senso di essere finiti dove nessuno mai metterebbe piede e mai sospetterebbe la presenza di un ospite appena registrato, ma solo possibili intrusi illegali. Un luogo dove si può uscire e non entrare, dove si è fuori, qualcosa di molto peggio di un non-luogo. La norma per la quale in ogni edificio deve esserci una via d’uscita in caso di incendio, attacco terroristico o altre emergenze, si fa sempre più inverosimile e lontana.
Poi finalmente mi ritrovo nella hall, costretta a riprovare con l’ascensore. E’ stata una piccola questione di ignoranza, si può risolverla copiando quel che fanno gli altri, ovvero avvicinando la chiave badge al pulsante dell’ascensore, il quale è anche un lettore predisposto a registrare il numero di camera e solo grazie a questo lasciarti uscire. Apriti sesamo. In camera c’è tutto quanto quel genere di albergo suole offrire- accappatoio, dolcetto della buona notte, bollitore per farsi un tè o un caffè – ma l’unico canale in inglese che si riesce a vedere è CNN. Per gli altri bisogna sottoscrivere quelle opzioni a pagamento che di solito riguardano i film blockbuster per tutta la famiglia e soprattutto i porno. Sfoglio i supplementi letterari raccattati il giorno prima e resto su CNN.

Stacco di colpo lo sguardo dalle recensioni quando sento che si parla di di “Women and war” e “Dying for the truth”. Il programma si chiama “International Correspondents”, lo conduce una certa Fionnuala Sweeney, da Londra. Dopo la pubblicità appaiono nello studio una giornalista televisiva e una che scrive. E’ più duro per una donna che per un uomo fare il corrispondente dalle zone di guerra? chiede Fionnuala alla reporter del “Times” di Londra. Sorriso. Risposta consona a quel sorriso, leggermente sfacciato e dolce. Proprio per niente, no. Finché non hai un figlio. Lei l’ha avuto tardi. Quando il bambino aveva cinque mesi stava a Baghdad. Dice: allora capisci che uomini e donne non sono uguali. Quella della CBS non è d’accordo, anzi confessa che con i bambini piccoli ritrovare spazio per sé grazie al suo lavoro le faceva solo piacere. Lei viaggia molto, è vero, mentre suo marito insegna e dunque può fare, testualmente, “Mr. Mom”.
Potrebbe essere anche lei un’insegnante, quella di un college, capelli corti biondi, fisico secco, te l’aspetti d’estate in bermudas, magari se li mette anche quando va in onda dai teatri di guerra, the job I love. L’altra è un po’ sformata, possibilmente ancora dalla gravidanza di due anni prima – più i figli ti arrivano tardi, più fatichi a tornare in forma – ciocche lunghe di capelli bruni le ricadono sul volto disordinati, ha una bocca molto piena e occhi grandi, scuri. E’ vivace e diretta, ma dal modo in cui risponde guardando in faccia Fionnualla Sweeney e mai la tizia della CBS, sembra che non la consideri né giornalista, né donna alla pari. Alla domanda sulla paura di rimetterci la pelle e lasciare a casa orfani, non si pronuncia, mentre l’altra, come era prevedibile, sostiene che la perdita di un genitore è sempre un fatto terribile, anzi conosce maschi che lo temono di più. Poi accenna a due colleghi ammazzati in Iraq e questo, senza dubbio, è stata per tutti a sobering experience.
Quel che ha da dire su questo punto la giornalista del “Times”, lo esprime in modo indiretto, ma inequivocabile. Lei nei luoghi di guerra ci va da sola, ma se prima ci stava anche per mesi, ora non più: prende l’aereo, atterra, fa quel che deve fare, ritorna a casa. Si chiama Janine di Giovanni. Ha vinto numerosi premi, ha scritto libri molto elogiati. E’ stata nei territori occupati, in Bosnia, in Kosovo, dove fu presa ostaggio da paramilitari rischiando di essere fucilata o alla meglio stuprata, ha visto trucidare due amici giornalisti in Sierra Leone, è stata in Somalia, Ruanda, Nigeria, Etiopia, Costa d’Avorio, Liberia, è andata in Afghanistan, in Iraq, in Algeria, a Timor Est, è stata a Grozny durante la caduta. Però non degna di una sola parola Anna Politkovskaja, mother of two, che potrebbe aver incrociato a Grozny. E anche quel che viene dopo un altro blocco pubblicitario, “Dying for the truth” si riferisce a una morte vecchia di anni, un giornalista americano ucciso in Iraq. Ci vogliono mesi perché capisca che quel che stavo vedendo era solo la replica di una trasmissione mandata in onda il giorno prima. Ma l’effetto rimane uguale: aver dovuto confrontare i sommersi e i salvati, averli contati, anche se sono soltanto due.

Lascio il pronto soccorso e vado al rifugio. Ci sono due rifugi nel villaggio, uno per femmine, uno per maschi. Dentro al rifugio femminile c’è un lettino per bambini e una stufa. “Siamo organizzate”, dice una donna di quelle più anziane, “dobbiamo esserlo”. Hanno vasi di verdure sotto aceto e me ne offrono. Rifiuto. Una ragazza mi dice che i bombardamenti – le bombe che cadono dagli aerei così spesso, le ronde dei carri armati ancora più frequenti, i mortai – non sono il vero problema.

“No, il vero problema sarà il giorno in cui i russi entreranno in questo villaggio e lo
puliranno”, dice sobriamente.

“Che cosa intendi con – pulire?” chiedo. “Butteranno granate nei rifugi e nelle case della gente”, dice. “I combattenti a quel punto saranno altrove, ma noi non abbiamo dove andare.

Verso il tardo pomeriggio, quando cala la luce e sopraggiunge il freddo intenso del Caucaso, torno all’ospedale. La Cecenia è totalmente isolata: non ci sono volontari stranieri qui, non un dottore, niente Nazioni Unite e a parte me, un fotografo tedesco e un reporter francese, nessun giornalista. Questo posto potrebbe essere fatto saltare dalle cartine geografiche e nessuno lo verrebbe a sapere.

“O i russi ti ammazzano e chi potrà mai testimoniarlo”, dice un soldato.

Nell’ospedale di campo le suole dei miei scarponi sono piene di sangue. Il fondo dei miei jeans è orlato da una sottile striscia rossa. I materassi dove giacciono i giovani combattenti – tutti intorno ai vent’anni- sono anch’essi rossi e zuppi, il dottore sta alla sua quarta amputazione. Al secondo piano, in una piccola stanza alla fine, un combattente ventiseienne di nome Muslim è sdraiato in un angolo con mezzo piede coperto da uno straccio insanguinato. Ha difeso la capitale da agosto e ne è uscito la notte scorsa.

“Ho calpestato una di quelle mine che feriscono, ma non uccidono”, dice, “è stato un dono dell’Onnipotente”.

Janine di Giovanni è del New Jersey, giovane moglie middle-class con aspirazioni letterarie quando dalla tv irrompe Felicia Langer, avvocatessa dei palestinesi sopravvissuta al genocidio nazista, con la quale stabilisce un contatto che le cambia la vita. Parte per Gaza, per la prima Intifada, il suo primo lavoro come reporter. Poi anni di Bosnia, l’uomo con cui avrà suo figlio lo conosce durante l’assedio di Sarajevo, un collega. Quando arriva a circa tredici anni di carriera e a quaranta di vita, cerca di rimanere incinta. Di bambini ne perde tre. Da Baghdad, nel 2005, una notte scrive una lettera-testamento a quello che ha finalmente avuto, piangendo, consapevole che se qualcuno se la vende, lei, cittadina sia inglese che americana, dovrà patire mesi di prigionia e lontananza dal suo bambino prima che qualcuno verosimilmente le tagli la testa su Al-Jazeera, forse meno consapevole di quanto possa far male alla madre di un lattante, a qualsiasi madre di un qualsiasi lattante, starne lontano, di quanto possa sentirsi deprivata, dimezzata, indebolita da un dolore che è come quello di un arto fantasma, ma è insieme arto e anima. Non può più rischiare di morire. Non troppo. Non ce la fa più.

Dopo aver aspettato un’ora intera un telegiornale che risulta cancellato da un lungo programma contro Donald Rumsfeld, vado in fiera. Verso mezzogiorno, libera per un po’ da appuntamenti, realizzo di trovarmi nella hall dove espone anche l’editore tedesco di Politkovskaja e decido di passare. Più mi avvicino, più temo un baccanale sul cadavere caldo, giornalisti televisivi e radiofonici già attrezzati per intervistare qualsiasi celebrità si aggiri per la fiera, lo stand tappezzato da copie di “Tschetschenien” e “Putins Russland”. L’anno scorso ricordo di aver scambiato due consigli frettolosi col direttore editoriale, finché appannandosi gli occhiali azzurri mentre depositava due molli baci standard sulle mie guance, mi disse “devo andare, sono molto impegnato con la Politkovskaja, abbiamo appena pubblicato il suo secondo libro e mi tocca seguirla costantemente”. Non mi sarei aspettata di trovare lo stand abbandonato a un paio di stagiste o standiste, non l’ombra di un giornalista, né funzionario editoriale, pochissimi visitatori e nessuno che pare cercare quel che cerco io, i libri di Anna Politkovskaja ammazzata il giorno prima. Non ne trovo esposta neanche una copia, verso le dodici del 8.10.2006. Ed è così che mi rassegno a non cercarne tracce visibili e condivisibili per il resto della giornata, e comincio a covare Anna Politkovskaja, covarmi dentro l’angoscia e i dubbi sulla sua vita e la sua morte, trovarmeli appallottolati in quel “mother of two”, stringermi all’orrore della domanda “ma quanti anni avranno questi figli di una donna che è morta non perché questo faceva parte dei rischi più o meno elevati del suo mestiere, ma perché era condannata a morte.” Perché succede questo: più mi si ripropone il “mother of two”, più si mette a fuoco la visione del morto che cammina, della madre morta che cammina: con le borse della spesa, il sabato pomeriggio, verso casa. Fino a quando, alle nove di sera non mi siedo all’imbarco dell’aereo per Malpensa e dentro una copia omaggio della Frankfurter Allgemeine Zeitung, trovo la mia frase tradotta in tedesco con un aggettivo in più: “Mutter zweier erwachsener Kinder”, di due figli adulti. E questo, a partire dal decollo fino a qualche giorno dopo, un po’ mi rasserena.
Anna Stepanovna Politkovskaja è nata a pochi anni e persino a pochi chilometri di distanza da Janine di Giovanni. A New York, figlia di diplomatici sovietici- ucraini, non russi- che lavorano alle Nazioni Unite. Porta un nome da ragazza impegnativo, Mazepa. Ivan Stepanovič Mazepa, il principe dei cosacchi che alla fine del seicento si schierò con gli svedesi contro lo zar Pietro I e fu annientato nella battaglia di Poltava, diventando per gli uni simbolo di libertà nazionale, l’eroe dei poemi di Byron, Jan Sobiecki, Viktor Hugo, per gli altri, per i russi, un traditore scomunicato dalla chiesa, coperto di onta o di silenzio nei secoli imperiali a seguire, sino alla fine di quello comunista. Ivan Stepanovič, Anna Stepanovna: vengono i brividi a percorrere questo filo, Ivan, Vanja, Anja, Anna: tranne per il cromosoma di una lettera, pare lo stessa schema che si ripete, la difesa di un popolo e di una patria, la sfida allo zar. Però quel cromosoma in più significava armi e uomini per Ivan, sebbene alla fine gliene erano restati pochi, mentre per Anja non c’è mai stato altro che la parola scritta e qualche alleato in Svezia, Francia o altri luoghi remoti che l’appoggiava, ma non si schierava in campo. Così mentre l’eroe nazionale ucraino riesce a rendere l’anima nel suo letto, muore per mano nemica Anna Stepanovna che lotta con il nome del marito per un popolo tra cui non è nata e una patria che non esiste ancora o non esiste più. La Russia: quella di Puškin, Gogol’, Tolstoj e Dostojevskij, di Cechov, Goncarëv, Bulgakov e Pasternak, Majakovskij e Esenin, di Anna Achmatova e Marina Cvetaeva sulla quale, nonostante sia all’indice, scrive la sua dissertazione quando nel 1980 si laurea alla facoltà di giornalismo dell’Università di Mosca. Mentre lavora sulla poetessa morta in esilio che proclamò tutti i poeti sono sporchi ebrei e a cui una figlia, Irina, morì di fame in orfanotrofio, Anna cambia i pannolini di Ilya, due anni, e della neonata Vera. Sono gli ultimi plumbei anni dell’era Brežnev, ma ad Anna non sembra mancare nulla di quel che desidera tranne la libertà: quella per tutti, molto più di quella individuale. Certo, la casa sarà stata piccola e la vita semplice, ma, come per i libri proibiti che riesce a leggere sin dall’infanzia, ha una famiglia che la aiuta. Altri vivevano in komunalke, in un appartamento condiviso con altre famiglie – la giovane famiglia Politkovskij sembra di no. Ma Anna non è solo privilegiata, Anna è fortunata, sembra quel che si dice “baciata dalla fortuna” e “nata sotto una buona stella”: ha sposato un ragazzo conosciuto quando era ancora a scuola, il primo amore, hanno avuto due bambini, maschio e femmina, entrambi biondi come il grano, si è laureata nello stesso anno del marito e alla stessa facoltà. Figli, libri, progetti, ideali: li condividono, li crescono insieme. Alexander comincia a lavorare per la tv di stato, segue le Olimpiadi di Mosca del 1980 specializzandosi in arti marziali, è ambizioso, a differenza di Anna non ha alle spalle nessuna famiglia influente, è figlio del popolo e della sua città. Anna vorrebbe cominciare anche lei a lavorare, ma per qualche anno ancora rimane a casa con i bambini. Con la Perestrojka le cose cambiano, i figli vanno a scuola, Alexander, dopo il danno subito per una legge che proibì le arti marziali, si inventa un programma televisivo che diventerà simbolo del nuovo corso, il primo a criticare apertamente la realtà: Vslgljad, “Sguardo”. Alexander è una star, viene eletto in parlamento, riempie di pubblico i teatri e la casa delle persone più interessanti. All’apice della sua gloria, quando forse già si avvertono i primi scricchiolii, comincia molto in sordina il cammino di sua moglie. Anna segue la posta dei lettori per Isvestija. Poi scrive per la rivista dell’Areoflot girando tutto il paese con i biglietti gratis. Sul finire degli anni novanta, mentre le televisioni russe si preparano ad espellere Alexander Politkovskij, Anna diventa giornalista d’inchiesta per i quotidiani liberali: Obshaya Gazeta, poi Novaya Gazeta. Nel 1999 scoppia la seconda guerra cecena e Anna Stepanovna Politkovskaja comincia a seguirla per il suo giornale.

A Nizza, nei pressi della grande chiesa grigia neogotica di Nôtre-Dame presidiata dai clochard, in mezzo alle vie che scacciando ristoranti vietnamiti e anche un centro ebraico per ragazzi si sono trasformate in casbah magrebina, hanno aperto un negozio di alimentari che si chiama “Leader Grozny”. Si trova incastrato fra un call-center algerino e una minuscola boutique di biancheria intima a poco prezzo, in una strada che potrebbe anche essere “Rue de Russie”. In vetrina ci sono vasi di cetrioli sott’aceto e pesci affumicati rossicci e neri, davanti e raramente dentro donne in gonne lunge e fazzoletti annodati intorno alla testa, le stesse donne che a volte si scorgono sugli usci degli alberghi a una stella della stessa zona che è quella della stazione, con o senza figli in braccio. Sembrerebbero zingare, zingare come un tempo ce le si immaginava, se non fossero così pallide, pallide loro e i loro bambini, di un biancore innaturale, come se gli incarnati già chiari di natura fossero stati sottoposti a un candeggio ulteriore. E’ da tempo che le vedo spuntare dai portoni o riposarsi sulle panchine dei giardini e pensavo fossero russe, russe sfigate in confronto a quelle che passeggiano sulla Promenade des Anglais o fanno shopping nella Piétonne, dove le boutiques di moda ormai espongono tutte cartelli in cirillico. Anche le scritte sui vasi o sui sacchi di kasha di “Leader Grozny” hanno caratteri cirillici e sono quasi certa di aver preso quelle donne per russe perché le ho sentite parlare in russo. Ora mi viene da pensare che forse lo sono, forse lo sono state: donne russe di Grozny. Forse è per questo che hanno avuto il privilegio di portare fino in Costa Azzura la loro pelle salva, solo sbiancata in anni di assedio e di rifugi. Così ora possono comprare i loro cibi identici a quelli che un chilometro più a sinistra, in direzione della grande chiesa ortodossa fatta costruire dagli zar e frequentata un tempo dai profughi bianchi, vende “La Petite Isba Russe” al prezzo doppio. Devono solo tenere in testa quei foulard di fiori sbiaditi che le fanno sembrare serve di certe magrebine dagli hijab elaborati e impeccabili e forse, con l’aiuto dell’Onnipotente, Inshallah, lo sono.

Cecenia, tromba delle scale di cemento impuro, annerito e traforato, su cui Anna è uscita nel 1999 e da allora comincia a scendere, scendere, scendere per sette anni successivi. La stella della nascita, proprio perché era buona, perché brillava forte, brillava della luce di verità, giustizia e libertà che vuole irradiarsi, si sta oscurando.
Si può costruire la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino tormentato? E quanti sono stati trucidati in Cecenia, quanti ne ha contati coi propri occhi protetti solo dai suoi occhiali da maestra di matematica, di quanti ha sentito raccontare da altre madri, madri cecene che se li sono visti portare via, i figli e le figlie, per non essere mai più restituiti, nemmeno come corpi da seppellire, e anche madri russe. Si può leggere Dostojevskij e poi rimetterlo al suo posto in libreria? Certo, ma non tutti. Si può conoscere la favola del topo uscito dalla gabbia in un mondo illimitato che lo sgomenta per cui corre verso i muri per ripararsi, ma i muri si fanno presto troppo stretti, e allora ascolta il gatto che lo divora. Si può conoscerla e darle ascolto, ascoltare Franz Kafka e non finire per ascoltare il gatto?
Circa la metà dei ragazzi russi nati intorno agli anni ottanta, scrive Anna Politkovskaja, i coetanei dei suoi figli, è morta per droga nei novanta come risultato dei tempi che cambiavano, della necessità di sopravvivere o della smania di far soldi dei loro genitori, lasciandoli da soli. Ilya e Vera no, Ilya e Vera sono nati anche loro sotto una buona stella, sono salvi e hanno avuto il privilegio di seppellire loro madre. Persino il privilegio di essere inquadrati dalle telecamere di tutto il mondo, cosa che non avvenne per i duecentodieci giornalisti uccisi da quando esiste in quanto tale la nazione russa che in quanto tale farebbe parte del mondo libero. Se almeno ammazzassero soltanto quelli, solo le voci libere, ma è costume ammazzare un po’ di tutto quel che dà fastidio, poveracci e potenti, criminali e eroi, perché sul libero mercato non costa molto, e poi si è sempre fatto così in Russia, nella Russia che non è quella di Puskin e Dostojevskij, ma quella reale. Nella Russia che Anna chiama di Putin sua figlia Vera sta aspettando un figlio che lei non conoscerà, però pazienza, il tuo sangue non vale più di quello degli altri, dice la Bibbia, prima o poi mi faranno fuori, deve aver detto ai suoi figli, voi siete grandi e io sono stanca di scappare. Dove vado, dove vado ancora? Cosa ci faccio nelle case degli amici di Londra o di Parigi che mi dicono vieni, vieni, salvati, cosa ci faccio nei loro bei salotti dove mi offrono da bere e da mangiare e mi fanno parlare ai loro amici di come qui da noi si crepa o si cade a pezzi e poi restano col bicchiere sospeso in aria, per un momento. Io non posso, io non voglio cambiare strada.

Zifa, la mamma di Žorik Agaev, alunno di seconda elementare, non esce quasi più di casa.
« E se poi Žorik ritorna a casa e io non ci sono? Cosa faccio se succede?» dice la donna, sorridendo. «In città mi credono pazza. Ma sbagliano. Ne sono sicura. Il mio Žorik è vivo, lo tengono da qualche parte.»
Le famiglie di Beslan i cui figli risultano tuttora dispersi si sono fatti idee diverse: c’è chi, come Zifa, crede siano ancora tenuti in ostaggio da qualche parte; chi invece pensa siano morti e i loro resti siano stati seppelliti per errore da altri genitori, scambiandoli per quelli dei propri figli (…)
Il comportamento di Zifa ha origine da qualcosa che Dio dovrebbe far sì che nessuno viva sulla propria pelle. Lei è la donna che dava il suo latte materno ai bambini durante i giorni della prigionia. Quel latte che doveva nutrire la piccola Vika. Aveva cominciato con l’offrire il seno a tutti quelli che sedevano vicino, poi aveva preso a stillare piccole gocce del liquido vitale in un cucchiaino che i bambini si passavano di mano in mano
«All’inizio i bimbi prendevano il latte direttamente dal mio seno, dice Zifa.
«Anche i più grandicelli?» domando
«Certo. Si avvicinavano a me con circospezione e poi succhiavano. Il mio Saša, che ora ha dieci anni, si è adattato con piacere.Žorik invece si rifiutava. Allora gli ho tolto dai piedi i mocassini nuovi- il papà ne aveva comprato un paio ciascuno a lui e a Saša, per il primo settembre-, in uno ci ho strizzato dentro il latte, perché Žorik non provasse vergogna. Ma la pelle della scarpa ha assorbito tutto il liquido…»

Eroina. Martire. Donna di altissimi valori, di incorruttibile moralità. Lux in tenebrae. Cantrice di verità. Sì. Ma forse non grande scrittrice. Quelli, si può sapere dove sono, dove troviamo gli eredi di Gogol’ e di Cechov, i nipoti di Solšenizyn e di Šalamov, che abbiano il fegato e la capacità di dare un corpo solido e una visione a quel che è stato raccontato da una brava e colta e coraggiosa giornalista, da una donna sola? Tutti spariti? Tutti impegnati a far soldi scrivendo sceneggiature per fiction o per reality- tv, tv indubbiamente sotto stretta osservanza governativa? Tutti spauriti? Censura, autocensura, censura del mercato sia interno che internazionale? Fuga all’estero, esilio interiore, sguardi rivolti alle rovine del passato, rovine che hanno smesso di rovinare? Conosco, è vero, un paio di scrittrici: Petruševskaja, Alekseievič. Ancora donne, donne non più giovani, sfiorite, affaticate, madri con le borse della spesa che fanno quel che possono, raccontano quel che vedono e che sanno e capiscono anche se non vedono e non sanno e non capiscono abbastanza. Si accontentano di andare dietro agli eserciti in ritirata o alle esistenze in sfacelo, stanche e marginali madri coraggio della Russia che esiste, Russia della quale non si vede, sa e capisce abbastanza; non della Russia che non esiste più, che vedeva, sapeva e capiva ogni cosa, ogni uomo schierato sul campo di battaglia di Borodino, dal soldato semplice a Napoleone, e misurava ogni mossa sulla scacchiera della salvezza o della dannazione. Mai stati così morti il conte Lev Tolstoj, il principe Andrei e il principe Myshkin, ora che regna uno zar che non è tale, ora che la Russia cerca di sottomettersi a se stessa e non ci riesce, talmente rivoltata e stravolta da non sapere più dov’è il sotto e dov’è il sopra, e non sapere più chi regna. Chi regna veramente? Anna Stepanovna, omonima di un principe cosacco, credeva di saperlo. Anna Politkovskaja descriveva i villaggi ceceni rasi al suolo, gli equipaggi ridotti alla fame dei sottomarini nucleari in Siberia, le regioni più ricche di giacimenti ed industrie diventate ossi da spolpare e buttar via per mafiosi in lotta, cercando di non perdere mai l’orientamento. Il suo centro si chiamava Putin, Akakij Akakejevič, come il protagonista del capotto di Gogol’ a cui lo paragona. Lo paragona per renderlo piccolo perché il suo odio è grande, il grande odio di una piccola donna cresciuta in un paese mai esistito. Chi regna veramente potrebbe essere troppo lontano, troppo mutante, troppo disumano, potrebbero essere troppi, e Anna, in fondo, lo sa e lo teme, ma non può arrendersi, pena qualcosa che è peggio di una morte annunciata, pena l’essere ridotta a immagine e somiglianza del suo paese, pena l’essere disfatta. Ha bisogno del suo odio, che la tenga insieme. La buona stella che risplendeva della luce di verità, giustizia e libertà ne è soggiogata. Poi lo sono le sue parole che non bastano, le parole che forse qualche volta sono state anche in grado di salvare, ma non sono capaci di eliminare, e il mondo che era stato talmente vasto diventa ogni giorno più angusto. Il gatto aspetta. Così cade Anna Stepanovna Politkovskaja, con le borse della spesa in mano, e nella testa le pallottole di un killer che può sparare tranquillamente, lasciare la pistola accanto al corpo e farsi riprendere dalle telecamere di sorveglianza mentre si allontana. Forse l’esecutore lo sapeva che quel bersaglio fin troppo facile era una giornalista troppo rompicoglioni, forse il mandante lo sapeva che quattro gatti in patria e molti all’estero l’avrebbero dichiarata eroina, santa e martire, ma cosa gliene importava. Ad Anna, invece, mentre aspettava che prima o poi qualcuno l’ammazzasse, quanto importava prefigurarsi quanto danno in più poteva fare ad Akakij Akakejevič Putin, lei e le sue parole, una volta che le avesse firmate col suo corpo e col suo sangue? Anna Stepanovna Politkovskaja, mother of two, è morta a Mosca, il 7.10.2006, davanti a casa sua quasi fosse in Cecenia: come shahida di verità. Che la terra le sia lieve e le sue parole restino pesanti.

(All’aeroporto di Francoforte non esiste più nessun negozio di giocattoli: solo un piccolo espositore in uno dei molti punti vendita per giornali, libri e altri articoli per il viaggio, appartenente alla stessa catena di tutti i suoi omologhi. Per cui, quando lo trovi, per un istante pare un miraggio.
“Ormai molti lo sanno”, dice la signora alla cassa, ”vengono qui da me che non ho spazio, ma so quel che va per la maggiore coi bambini. Ne ho anch’io.”
E’ così, i pochi articoli sono selezionati bene, per ogni età. Mi piacerebbe segnalarlo a Janine di Giovanni, se si trovasse a farvi scalo tornando a casa dalla guerra e soprattutto a Vera Politkovskaja se dovesse lasciare il paese dove sta portando avanti la sua gravidanza vivendo sotto scorta perché potrebbe aver visto in faccia il killer di sua madre.)

Citazioni da: Janine di Giovanni, The fall of Grozny, (La caduta di Grozny), su www.janinedigiovanni.com, traduzione mia, e Anna Politkovskaja, Proibito parlare, Mondadori 2007, pp.219-220. Il testo fa parte dell’antologia “I Persecutori”, Transeuropa, 2007.

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11 Commenti

  1. Bell’omaggio a una donna. Helena Janeczek non scrive spesso per Ni, ma quando lo fa, è magnifico, sincero. Non ho letto libri di Helena Janeczek: conto ci rimediare, tanto più che l’argomento mi interessa.
    Spero leggere ancora posti da Helena Janeczek!

  2. Toccante testimonianza questa di Helena Janeczek!

    bisognerebbe rimediare a questa affermazione:
    ‘ Avevo già notato che in genere negli aeroporti tedeschi l’offerta di regali per bambini è di una scarsità impressionante’

  3. meravigliosamente terribile!
    grazie Helena

    x x x x
    x x x x
    x x x
    x x
    x x IGina!!
    x x
    x
    effeffe
    ps
    l’obra qui riprodotta è in un codice solo a noi conosciuto, me ne scuso con gli altri commentatori


  4. Chiacchierando e segnalando – Prima di tutto segnalo, come promesso, a Bruno Esposito due articoli su Liberazione (8 maggio p. 3) sulla fiera di Torino. Dal 10 al 14 maggio il Lingotto di Torino ospita la manifestazione editoriale, che festeggia v…

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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