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Libero di non amare

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di Mauro Casiraghi 

Non ho la minima idea di dove sto andando. So soltanto che non tornerò a casa. Mentre guido ripenso al giorno della sentenza di divorzio. Alessandra si era tagliata i capelli e portava un paio di scarpe nuove, coi tacchi alti. Sembrava ringiovanita, a prima vista. Ma a guardarla bene la sua pelle era spenta e tirata. Le lentiggini erano coperte da uno strato di fondotinta e una ruga profonda le scavava un solco tra le sopracciglia, come una cicatrice. Il giudice ci fece la domanda di rito: eravamo sicuri di volerci separare? Alessandra fu la prima a rispondere. Sì, lei era sicura. Il giudice ripeté la domanda a me. Io guardai Alessandra, aspettando che ricambiasse lo sguardo. Passarono dieci secondi. Venti secondi. Mezzo minuto. Sentiva che la guardavo, eppure non muoveva un muscolo. Teneva gli occhi fissi sulla scrivania del giudice. C’era un fermacarte di marmo e lei lo fissava come se fosse un’ancora di salvezza. Passò quasi un minuto di silenzio. Il giudice diede un colpo di tosse e rifece la domanda scandendo le parole: Ero deciso a procedere con il divorzio consensuale? Senza staccare lo sguardo da Alessandra dissi di sì. Quello che andava bene per mia moglie, andava bene per me.
Uscimmo dal tribunale in silenzio. Anche senza dire niente sapevamo cosa passava nella testa dell’altro. Tutti gli attimi della nostra vita insieme, dal giorno in cui ci eravamo conosciuti fino a quel preciso istante in cui tutto finiva. Era il campionario dei nostri successi e fallimenti, molti dei quali non coincidevano. Io avevo i miei, lei aveva i suoi. In piedi, lì sui gradini di pietra del tribunale, era arrivato il momento di lasciarci definitivamente. Ognuno per la sua strada. Fu allora che ci sentimmo prendere dall’euforia del fallimento. Ci era caduto un peso dalle spalle. Potevamo finalmente abbandonare l’impresa di doverci amare e rispettare fino alla morte. Potevamo smetterla di sentirci inetti e colpevoli. Eravamo stati esonerati dall’incarico. Fuggivamo dal campo di battaglia come due disertori. Poco importava che fossi stato io il primo a dare il via alla disfatta. Adesso eravamo uguali. Di nuovo soli, uno di fronte all’altra, come quando ci eravamo conosciuti.
– Ti accompagno alla macchina – disse Alessandra con qualcosa di strano nella voce. – Ho l’ombrello.
Guardai il cielo. – Non piove più.
La mia obiezione passò inosservata. Camminammo insieme verso il parcheggio. Quando arrivammo alla sua macchina rallentai, ma Alessandra passò il braccio intorno al mio e mi spinse a proseguire. Ora guardava la punta delle sue scarpe come prima aveva fissato il fermacarte di marmo. Affondava i tacchi nelle pozzanghere senza paura di bagnarsi i piedi.
Dall’altra parte della strada, non lontano dagli uffici del tribunale, brillava l’insegna verde di un Holiday Inn. Senza bisogno di dirci nulla scendemmo dal marciapiede e attraversammo di corsa in mezzo al traffico. Arrivammo nella hall affannati. Alla reception gettammo i documenti sul bancone. Afferrai la chiave, lasciammo perdere l’ascensore e prendemmo direttamente le scale. Ci precipitammo in camera e ci avvinghiammo l’uno all’altra appena entrati. Le alzai il vestito, tirai giù i collant, e lo facemmo in piedi contro la porta della camera, grugnendo come ubriachi. Alessandra si aggrappava al mio collo, in bilico su un tacco, e teneva l’altra gamba sollevata attorno al mio fianco, io premevo la fronte contro lo stipite della porta per puntellarmi e non cadere. Nei nostri corpi uniti non c’era niente di familiare, di riconoscibile. Non fu per niente come tornare indietro. Eravamo due persone diverse, estranee, che si dicevano addio senza essersi veramente conosciute.
Dopo, mentre si aggiustava il vestito spiegazzato, Alessandra scoppiò a ridere. Era una risata un po’ isterica.
– Che c’è di buffo? – dissi.
– Niente. Sto solo pensando che siamo ridicoli… Non è ridicolo? Farlo proprio oggi, voglio dire?
Mi sentii girare la testa. Tutti i sensi di colpa accumulati durante il nostro matrimonio mi saltarono addosso di colpo.
– Perché non ci riproviamo, Alessandra? Tu e Michela potreste tornare a casa per un po’. Un mese o due, fino alle vacanze. Facciamo una prova… ti va?
Parlavo sapendo benissimo che quello che stavo dicendo era un’idiozia. Lo sapevo io e lo sapeva lei. Ma Alessandra lasciò che la dicessi per intero, e quando ebbi pronunciato l’ultima parola non ci fu nessun bisogno di ribattere o di commentare. Mi fissò con lo sguardo di chi sa capire simili debolezze, anche se le disapprova, e per una volta non vuole infierire. Bastò quel suo sguardo serio, che le invidiai, per cancellare definitivamente l’idiozia che avevo pronunciato.
– Ciao, Sergio – disse aggiustandomi il bavero della giacca. Raccolse la borsa da terra, aprì la porta e se ne andò.
Rimasi nella camera dell’Holiday Inn a chiedermi ottusamente perché era fallito il mio matrimonio. Che cosa era andato storto? Al di là del tradimento, voglio dire. Dove e quando era cominciata la fine di tutto? Non riuscivo a capirlo. Sapevo solo che in quel momento, mentre già svaniva la sensazione del corpo di Alessandra, oltre alla tristezza e alla malinconia, continuavo a provare una dose altrettanto forte di sollievo. Come se la condizione di separato in cui ero ufficialmente entrato quel giorno mi fosse destinata da sempre. Una solitudine da cui era giusto non sottrarmi più. Ormai la mia vita era quella, e quella doveva rimanere. Se l’avessi accettata come nuova identità, intuivo, ne avrei ricavato molti vantaggi. C’era qualcosa di confortante nel percepire la mia condizione di divorziato come un punto di arrivo. Niente rischi. Niente sentimenti. Nessun coinvolgimento. Ero libero di non amare nessuno.

(Da: “La camera viola”)

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22 Commenti

  1. ho sempre pensato che i fatti tratti da esperienze vissute – in prima persona – abbiano un gusto in più,
    un sapore che va degustato.

  2. Le quattro frasi finali rappresentano tutto un mondo di esseri maschili che vive così, non solo nei mesi subito successivi al divorzio, ma anche negli anni.
    E volendo, non c’è nemmeno bisogno di essere divorziati, per pensarla così, eh ?
    Scusate l’appena accennata amarezza.
    Comunque, il racconto non è male, anche se la scena dell’incontro nel motel mi sa un pò di film.

  3. un buon incipit è importante, ma nella rete è fondamentale. E le prime righe di
    questo brano fanno proprio venire la voglia di continuare a leggere.

  4. Non capisco solo come faceva a svanire così velocemente la sensazione del corpo di Alessandra. Avevi fatto già la doccia? Così repentinamente? Oppure la copula era stata priva di scambi liquidi?
    Quando mi sono capitate cose simili sono stato 15 giorni senza lavarmi per conservare ogni minima sensazione del corpo di Ales…ops della mia partner.

  5. “Eravamo due persone diverse, estranee, che si dicevano addio senza essersi veramente conosciute”. Viene da chiedersi il perché di questo matrimonio.

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