El boligrafo boliviano 6

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di Silvio Mignano

Sono vivo, uno pensa quando è uscito, ed è tutto ed è poco. Il pensiero e soprattutto la memoria tattile del corpo sono ancora lì dentro, nel budello claustrofobico di quaranta centimetri, nel buio pieno, dove i gomiti e le anche si sostituiscono alle gambe come mezzi di locomozione preistorici, provenienti dritti dritti da un’altra era, quando non eravamo ancora mammiferi e forse nemmeno rettili, pesci che esplorano l’atmosfera e strisciano sul ventre ansimando alla ricerca spasmodica di un po’ d’ossigeno, anellidi o platelminti che sperimentano la contrazione dei segmenti di carne scivolosa.
Sento ancora la pietra che graffia ogni porzione d’epidermide, le nocche abrase dal minerale, le dita imbiancate di calce che scivolano e afferrano, scivolano più giù e attrappano di nuovo e combattono per un millimetro di spazio, come una conquista preziosa, più preziosa di queste tonnellate d’argento e di zinco.

Un’avvertenza: se è vero – ed è vero – che la buona scrittura deve tenersi alla larga da superlativi e aggettivi assoluti, questa sarà forse cattiva letteratura, ma dovrete prenderla così com’è, perché Potosí non è un posto come tutti gli altri e con l’iperbole convive da quando esiste e ha un nome. Potosí: la città più alta del mondo, a oltre quattromilacento metri, con alcuni quartieri che superano i quattromilatrecento. La città più ricca e popolosa del mondo, nel Seicento, quando la sua popolazione era superiore a quelle di Londra e Parigi e la metà dell’argento estratto nel pianeta veniva da qui – o meglio, da un’unica montagna, il Cerro Rico. Una città oggi decaduta, capitale di uno dei dipartimenti più poveri della Bolivia e dell’America Latina. Strade in salita attraversate da un vento gelido che spazza il selciato, entra ed esce dai cortili coloniali e dalle baracche dei minatori e arriva fino ai piedi del Cerro, dove sembra fermarsi intimidito al cospetto della divinità feroce.
La si distingue senza fatica tra tutte le altre montagne della cordigliera, una piramide perfettamente triangolare, rossiccia in mezzo a rocce grigie o verdastre, quasi fosse fatta di un’altra materia, di argilla rugginosa – e davvero così dev’essere, se le sue viscere sono imbottite tuttora di minerali che continuano ad essere estratti anche quando le vene più ricche sono ormai estinte, prosciugate da secoli di avido sfruttamento. A metà costa un’altra montagna, un cerro più piccolo ma identico, con un santuario sulla sommità, cosicché da lontano si ha l’illusione di vedere la ripetizione di una figurina bidimensionale.
La strada che sale da Potosí al cerro a un certo punto attraversa un quartiere fitto di botteghe che vendono picconi, caschi, cinturoni e soprattutto quintali di dinamite, candelotti affastellati per terra, accanto alle porticine di legno stinto, o messi in ordine sugli scaffali, inquietanti volumi di una biblioteca pirica. Si caricano batterie per le lampade, si legge sui cartelli scritti a mano, mentre fuori, sulle bancarelle, enormi buste rigonfie di foglie di coca sovrastano i caschi di banane e le pile di manghi e papaie. Una banda di cani randagi scende lungo gli stretti marciapiedi e annusa la mercanzia, allontanandosi di corsa, con il passo spezzato dalla zoppia.

Nel piccolo ospedale di emergenza finanziato dalla cooperazione italiana indossiamo le tute rosse, gli anfibi e il casco con la lanterna. I minatori mi hanno accettato tra loro proprio perché siamo gli unici a fare qualcosa in concreto per aiutarli e perché vogliono che veda e che tocchi con mano – mai frase fatta sarà più vicina alla realtà – le condizioni atroci in cui sono costretti a lavorare e a strascinare la loro esistenza.
La jeep lascia il centro medico e si arrampica faticosamente sul pendio del cerro. Penso che mai più in vita mia vedrò un paesaggio come questo. È una piramide di Cheope in perenne costruzione, le pareti lisce che ammiravamo a distanza scomposte in un caos di gradoni sventrati, massacrati dal piccone e dalla dinamite, sfigurati da tubi arrugginiti, pulegge ammaccate, vagoncini calcinati, binari deformi. Così intabarrato mi sento un goffo astronauta. E Marte non dev’essere troppo diverso da questo deserto obliquo di roccia rossa che riesce a rimanere avvolto nel silenzio nonostante il brulicare di omini e di fantasmi, tra picchiettature di zolfo giallastro ed enormi massi che oscillano in bilico al di sopra delle nostre teste, ad ogni tornante della pista.
All’improvviso, qua e là, minuscoli villaggi di baracche mezzo scavate nella montagna, chiuse da porticine di legno o da tende lacere e sporche, dalle quali si affaccia il volto emaciato di una donna o quello di un bambino, il cui sguardo è impossibile da sostenere. Iniziano a lavorare a dieci o undici anni, senza la minima preparazione: alle cooperative basta che chiunque si presenti disposto a infilarsi nelle tane di topo perché venga arruolato senza ripensamenti. L’anno scorso la paga era di trenta boliviani al giorno, tre euro. Oggi, con i prezzi dell’argento e dello stagno alle stelle, si riesce a guadagnare ottanta o cento boliviani, ovvero fino a dieci euro. File interminabili di volontari accorrono da ogni angolo del paese, mi dice Azucena, la sociologa che garantisce i contatti tra il nostro ospedale e i minatori. Almeno venticinquemila persone entrano ed escono ogni giorno dagli ottocento chilometri di gallerie che perforano l’idolo di roccia come un formicaio impazzito, e gli esperti temono che da un momento all’altro l’intera struttura collassi su se stessa, un cono alto come il Monte Bianco che un giorno o l’altro crollerà seppellendo una Pompei di predestinati.
Perché andare in giro con questi miei compagni di avventura significa stare fianco a fianco con dei condannati a morte. Nessuno di loro vivrà più di trentacinque anni, e se hanno iniziato a lavorare a quindici è probabile che non arrivino a trenta. Chi è risparmiato dai crolli – che fanno almeno due vittime al giorno – sarà distrutto dalla silicosi e dai tumori, senza alcuna via di scampo. Lo sanno benissimo, sussurra Azucena, ma i cento boliviani sono una tentazione troppo forte. Quasi tutti hanno provato a fare i muratori o i contadini, ma non riuscivano a portare a casa più di venti boliviani, due euro. A sedici anni hanno già una donna e i primi figli, e solo questo lavoro gli dà la certezza di poterli mantenere. Quando moriranno, molto presto, gli orfani non avranno conosciuto altro che questo ambiente e sarà automatico, allora, entrare a loro volta nelle miniere per mantenere la madre o forse i bambini che nel frattempo saranno venuti. E la sfinge rossa continuerà a nutrirsi di una generazione dopo l’altra.
Nemmeno le vedove sono risparmiate dal meccanismo. Sono le serenas, guardiane notturne, oppure le palliris: a loro il discutibile privilegio di raccogliere le scorie scaricate quotidianamente dai vagoni e ammucchiarle finché non hanno raccolto una quantità di minerale sufficiente perché le imprese la comperino. Vanno in giro con le mani imbiancate come fornaie maledette e con le rughe che devastano e riscrivono i loro tratti, disegnando il volto di un’ottuagenaria sull’anima di una ragazza.

Davanti alla miniera La Plata c’è una casupola di legno, poco più di una garitta. Raúl, uno dei brigatisti volontari del pronto soccorso, vi tiene la sua minima infermeria e la lettiga per recuperare a braccia i feriti dal profondo della montagna. Uno spazio ordinato e pulito, sulle cui pareti la modella in bikini del calendario di una birra fa tenerezza, con le sue membra levigate in mezzo a questo inferno di polvere, sassi, fango e dinamite. Ci guardiamo un’ultima volta in faccia. Circola la coca, ognuno pesca dalla busta di plastica, strappa i piccioli con i denti e si ficca in bocca una manciata di foglie, tra le gengive e la guancia destra (perché proprio la destra?, dimentico di chiedere).
Ci incamminiamo verso il tunnel, seguendo i binari calcinati. Non è il mostro che mi hanno dipinto, penso mentre entro nella galleria alta quanto un uomo e larga un metro e mezzo. Ho dimenticato di accendere la torcia, Raúl mi fa segno con una pacca sulle spalle. Dopo cento metri siamo costretti a camminare a testa china e quasi già sfreghiamo i fianchi contro la parete. I minatori battono con una pietra sui tubi che scorrono sopra di noi. Che cosa fate, chiedo. È il segnale a chi sta dentro che c’è una pattuglia all’ingresso, mi rispondono, altrimenti i carrelli in uscita ci verrebbero addosso. Non ci sono certo due corsie, né il minimo spazio per nascondersi in una rientranza della roccia. Succede ogni tanto che qualcuno venga travolto?, chiedo ostentando leggerezza. Ogni tanto? I minatori ridono – ridono spesso, chissà come faranno. Tutti i giorni, señor, tutti i giorni. Dita tranciate e gambe spezzate sono gli interventi più comuni nell’ospedale da campo, e anche i più auspicabili, perché l’alternativa è trovarsi di fronte gente schiacciata dai massi che si staccano dalla volta o soffocata dai gas velenosi che in profondità si sprigionano senza preavviso. Invece quando una galleria crolla per una carica eccessiva di dinamite, o quando un poveretto precipita in un pozzo, di solito non arriva nemmeno all’infermeria.
Adesso il buio è totale. Seguo la torcia di Raúl e cerco di mantenermi in piedi sul fondo viscido. Meno male che sono due giorni che non piove, mi fanno sapere, altrimenti qui ci sarebbero venti centimetri d’acqua. A intervalli regolari mi capita di calcolare male l’altezza del soffitto, o forse è il tunnel che continua a rimpicciolirsi, e allora sbatto con la testa contro la volta, ma per fortuna ho il casco della cooperazione, in solida vetroresina. A molti minatori le cooperative danno solo quello di plastica gialla che si usa nell’edilizia, del tutto inadeguato, e c’è qualcuno che avanza a capo scoperto.
Ci fermiamo. Che cosa succede, chiedo ancora. Siamo in una specie di vicolo cieco che finisce – a me sembra che finisca – contro un muro impenetrabile.
Scendiamo, dice Raúl sorridendo.
Dove?
Poi capisco. Purtroppo. Ai miei piedi c’è un foro largo meno di quaranta centimetri. Non sono sicuro nemmeno che riescano a passarci le mie spalle, pur non essendo esattamente un rugbista. Mi guardo attorno, i minatori sono quasi tutti bassi e minuti, sebbene dotati di una muscolatura spaventosamente sviluppata. Raúl scende per primo, poi tocca a me.
Mi sono infilato nell’inferno. Siediti. Lasciati scivolare. Dove, qui c’è il vuoto. Così dev’essere, tu non pensare al vuoto sotto i tuoi piedi, cerca di aderire con il culo e con la schiena alla parete, lascia che le gambe penzolino. Bravo, così. Sono sceso di un metro, chissà quanti ne mancano. Alla fine di questo passaggio? Saranno quindici o venti metri d’altezza, señor. Che cosa? Sì, ma non sono retti, è una specie di zig-zag, attento, adesso metti un piede qui. Faccio come mi dice, ma la parete è di fango viscido e perdo la presa. Aiuto. Va bene, va bene, così dev’essere. Siamo dentro un tubo naturale che precipita ad angoli retti, senza lo spazio per muovere un dito. Alzo la testa e già non c’è altro che roccia, mentre sotto i miei piedi c’è solo il vuoto oscuro. L’incubo di un claustrofobico, o forse di qualsiasi essere vivente. Morire sepolti vivi, senza ossigeno, senza via di scampo. Imito Raúl, mi aggrappo con le mani a una trave di legno marcio, mi lascio penzolare nel vuoto come una scimmia e atterro mezzo metro più giù, facendomi un unico corpo con l’intestino argilloso del Cerro. Alla fine arrivo fino in fondo, è stato facile, mi dicono i minatori, ma a me sembra di aver perso anni di vita in mezz’ora di delirio.
Andiamo avanti. L’aria è rarefatta, non c’è quasi ossigeno e quel che c’è deve stagnare in queste grotte da tempo immemorabile, respirato, masticato e rigurgitato infinite volte dai lemuri che vedo strisciare davanti ai miei occhi. Due uomini a torso nudo scavano la roccia con la piccozza e rovesciano strane borse scure ripiene di minerale grigio. È zinco, mi dicono, prova a sollevarne una. Non riesco nemmeno a muoverla, ma non succede solo a me, gli altri della cooperazione non hanno meno fortuna. Allora uno dei minatori poggia a terra il suo attrezzo, afferra senza sforzo apparente due borse, una per mano, e le versa in una carriola. Sono esterrefatto, quaggiù nessuno dei parametri che reggono il mio mondo sembra funzionare.
¡Guarda!, grida Raúl. È un segnale di pericolo.
Mi volto a sinistra. Una stella pallida, una di quelle che si insinuano di notte alle spalle delle costellazioni, cerca di brillare al centro di un nero piatto, bidimensionale. Fisso gli occhi, spillando lacrime per lo sforzo di mettere a fuoco, e capisco con una punta di terrore che la luce sta crescendo impercettibilmente. Dopo qualche istante comincio a riconoscere anche un rumore, un rombo attutito che viene verso di noi. Cerco di estrarre dalla memoria i fotogrammi di un B Movie, un filmaccio dell’orrore nel quale ratti giganteschi hanno occupato le gallerie della metropolitana. Raúl quasi mi travolge spingendomi dentro una nicchia, l’imbocco di un tunnel laterale. Ipnotizzato, continuo a seguire il punto luminoso che si fa sempre più grande e rumoroso, finché a pochi metri da noi riesco a distinguere un vagone spinto da due figure fantasmatiche. Poi mi sfilano davanti a velocità folle, curvi come una squadra di bob, in un clangore irregolare di ruote arrugginite che scorrono sui binari incrostati di calcio e fango, mentre un terzo uomo sta aggrappato davanti e corre assurdamente all’indietro, trascinando quello che gli altri spingono. Una tonnellata, mi dice Raúl. Sono tre vagoni, nove minatori che passano in un attimo simili ad anime costrette nel peggiore dei gironi, Tantalo moltiplicato, maledizione dei miei incubi futuri.
Quando torna il silenzio si sente un picchiettio lieve, gentile illusione bucolica di un becco sulla corteccia, subito scacciata dalla vista di un altro uomo seminudo che con la sola forza delle braccia cerca di perforare la roccia martellando su un punteruolo sottile, lungo almeno mezzo metro. Perché non usa uno strumento più potente, domando sentendomi uno sciocco imitatore dell’Altissimo Poeta. Perché altrimenti la volta potrebbe crollare, spiega il mio paziente Virgilio. Ma vieni, aggiunge poi, andiamo avanti, e sta’ attento a dove metti i piedi.
Sono al cospetto di un cuadro, una sorta di cornice di legno che sovrasta un pozzo verticale. Due uomini azionano un argano divorato dalla ruggine. Non so cosa sia assicurato all’altro capo del cavo azzurro, sfilacciato e consunto, temo che possano essere indifferentemente pietre o esseri umani. Stanno facendo salire un carico di minerali, mi dicono, ma la carrucola serve anche per calarsi giù. A volte c’è un ingresso separato per i minatori, ma in questo caso non c’è spazio.
Raúl mi fa cenno con la mano, senza parole. Sorride. Capisco. No, grazie, ti ho seguito fin qui, ma questo non mi sento di farlo. A proposito, quanti metri sono? Pochi, due o tre, dice qualcuno alle mie spalle. Tra i dieci e i quindici, confessa Raúl. Lasciamo perdere. Guardo con una punta di incomprensibile rimpianto le teste dei minatori che scavano in fondo al pozzo, appena visibili alla luce tremolante delle nostre torce. Vorrei forse essere laggiù, coraggioso e condannato anch’io.
Vaghiamo ancora per chilometri e per un’altra ora, raggiungendo i compagni di Raúl. È la mia miniera, dice con una punta di orgoglio, come invitando gli ospiti nel suo salotto. “Sua” vuol dire che è il segmento dove lavora, nient’altro. Un minatore come gli altri, a ottanta o cento boliviani al giorno, nove o dieci ore ininterrotte di fatica disumana e alla fine ha ancora la forza fisica e morale per seguire il corso di pronto soccorso e per mettersi a disposizione, volontariamente e gratis, nell’avamposto di emergenza dal quale siamo partiti. Guardo i suoi occhi buoni, il suo sorriso sempre sull’orlo della risata, la guancia deformata dalla coca, e mi vergogno. Penso che tra meno di dieci anni sarà morto, e mi chiedo che cosa faccia io della mia vita.
Azucena, l’unica donna ammessa a queste profondità (Dania, coraggiosissima, ci ha seguiti per un bel pezzo ma si è arresa davanti al budello di quaranta centimetri), cerca di giustificare la mia presenza in mezzo a loro. Dice a tutti che sono io che finanzio il loro ospedale, io che sto per dargli una macchina per i raggi X e un’ambulanza. Sorridono. Vorrei spiegare come funziona la cooperazione, che cos’è un’ambasciata, dir loro che non si tratta solo di me, che non sono solo io a garantirgli tutto questo, ma non ne ho le forze. È un altro pianeta.
Colpi sordi ci raggiungono da un altro sacello, oltre la parete o sopra le nostre teste. Esplosioni. Stanno facendo esplodere la dinamite.
Sto morendo di caldo, adesso invidio questi uomini seminudi. Attraversiamo un altro foro angusto, forse cinquanta centimetri, catapultandoci come in una nave spaziale, e dall’altra parte del diaframma la temperatura precipita di colpo di cinque o dieci gradi. Mi sembra di gelare, mentre raccatto in fondo alla memoria nozioni di questo o di quel girone dantesco, lo Stige o invece la Caina. Penso ancora al diaframma, forse l’immagine più esatta. Mi trovo nel piloro o in qualche altro luogo di uno stomaco, dentro una bestia che ci digerisce lentamente, Pinocchio o Giona nel ventre della balena.

Al ritorno l’incubo è ancora più violento. Adesso bisogna salire lungo il budello infame. Venti metri senza appoggio, senza nulla che ricordi uno qualunque dei tanti modi in cui mi sono mosso in quarant’anni di vita. L’unica è seguire ancora Raúl. Appoggio la suola dell’anfibio a uno spuntone di roccia, mi siedo contro il fango e comincio a salire con il solo aiuto dei gomiti e delle anche. Non so nemmeno io come faccia, sono un lombrico che striscia verso l’alto metamorfizzandosi nello stesso tubo che lo contiene. Ogni centimetro, ogni porzione di spazio occupata da uno qualsiasi dei miei arti si converte in una conquista. Dieci minuti vogliono dire forse un metro, due metri, una nicchia dove la spina dorsale può aderire e il bacino riposare. Ma sopra la mia testa non c’è alcun varco, solo un tetto di roccia, e non vedo più la mia guida. Il panico mi afferra, forse ho sbagliato strada o semplicemente è impossibile salire in questo modo, sono inscatolato in una bara minerale. Poi lo sento, è sul lato opposto, adesso ricordo che il percorso è a zig-zag, devo adeguarmi alle curve surreali della montagna come se non possedessi uno scheletro, ruotare sul mio asse come fossi medusa di vuota gelatina che si lascia aspirare verso l’alto. Le nocche sono un’unica ferita, i gomiti laceri pur sotto il tessuto spesso della tuta, le ginocchia e le costole, improvvisamente sorelle, percorse da fitte insopportabili. Mi lascio cadere di peso su una cengia. Respiro a fatica. Per un attimo, l’unico attimo in questa interminabile giornata, mi è grato il pensiero di fermarmi e arrendermi. Faccio appena in tempo a scuotermi prima che nel mio sangue entri in circolo il veleno della rassegnazione, il dolce lasciarsi andare che coglie il subacqueo prigioniero in fondo al mare.
Un ultimo sforzo e metà del mio busto è fuori dal budello, sia pur dentro un’altra galleria appena più ampia, che tuttavia ora mi sembra una comoda autostrada. Ancora Dante, Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s’è dritto: / de la cintola in sù tutto ‘l vedrai. Dopo di me emerge a fatica il tondo Eddy, economo della cooperazione, potosino figlio di minatori. Teatrale, strabuzza gli occhi alla maniera di Aldo Fabrizi e recita: «¡Gracias, Dios, porque me hiciste estudiar!». Temo che gli altri se ne offendano e invece ridono, come se non della loro vita si trattasse.

Ed è quello che mi resta, quando sono nuovamente all’aria aperta, in un’atmosfera densa di polvere e zolfo, tra il clamore dei vagoni che entrano ed escono, eppure assaporando quest’ossigeno come il più dolce dei nettari. Mi resta il pensiero che tutta la mia atroce fatica non sia stata nulla, tre ore per una volta sola nella vita, a petto di questi eroi che trascorrono dieci ore al giorno lì dentro per tutta la loro breve esistenza e che per giunta non si limitano a calarvisi ma debbono anche scavare, estrarre, spingere e trascinare vagoni su e giù per questo cono rovesciato.
Eppure ridono. Eppure mi accettano come uno dei loro e mi danno il cinque per la mia risibile impresa. Eppure i loro occhi sono allagati di bontà.

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4 Commenti

  1. anni fa leggevo degli orrori di Potosì, che era luogo di miniere anche nel Cinquecento, nel primo volume della Storia del Pacifico, (Einaudi) dello Spate: ne consiglio a tutti la lettura.

  2. seguendo la bella e dettagliata descrizione dei luoghi viene una gran voglia di mollare tutto e partire per un viaggio!
    però quando si parla di miniere…
    di un lavoro sotterraneo, nei meandri della terra, dove l’aria è ancora più necessaria, dove la terra ti può inghiottire e tu sei inerme, allora io mi dico che restare fuori è come stare in paradiso, e chi fa un simile lavoro è da ammirare con generosità, perchè il suo coraggio supera le sue paure.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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