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Componimenti misti di storia e d’invenzione

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di Valter Binaghi

Confesso che non avevo capito fino in fondo Scurati, là dove nel suo saggio La letteratura dell’inesperienza (Bompiani 2006) scriveva: “Non ha più senso rimarcare il territorio finzionale del romanzo quando nella vita quotidiana (leggasi nella società dello spettacolo n.d.r.) l’immaginario non è più perimetrato dal reale”, e poi, però, aggiungeva: “il romanzo storico mi appare ancora un sentiero da percorrere”, per quello che riteneva ancora l’obiettivo fondamentale, cioè “la critica alla società” che non si può esercitare se non come “critica dell’immaginario”.
Mi chiedevo infatti in quale misura il racconto storico, che da quando esistono cinema e televisione è il luogo del saccheggio e della trasposizione per antonomasia, possa proteggere ed esibire una critica all’immaginario dissolvente della società dello spettacolo, quando ne è la vittima principale. Non si può non pensare alle orrende saghe in cui i vari Christian Jacq o gli Evangelisti nostrani hanno triturato antichità e medioevo nel fumettone truculento o a recenti operazioni hollywoodiane come “Troy” o “300”: il senso di queste imprese culturali è esattamente l’opposto di quello voluto da Scurati, visto che anzichè cercare l’alterità tragica del passato finiscono di colonizzarlo addomesticandolo all’ideologia spettacolare, progressista o fascistoide poco importa.
Poi ho letto Una storia romantica, il suo romanzo recente, e devo ammettere che l’operazione tentata da Scurati ha non solo una sua coerenza intellettuale, ma anche una concreta possibilità di riuscita e soprattutto, come proverò a mostrare, un risvolto pedagogico non disprezzabile.
Il romanzo è focalizzato sulla figura di Italo Morosini, combattente rivoluzionario nella Milano delle Cinque Giornate (1848) ed ora (1885) senatore del Regno in odore di corruzione, nonchè marito di una donna ai tempi idolatrata, ora contemplata di lontano, nella solitudine sempre più inaccessibile in cui si è rinchiusa. Mentre il senatore è incaricato di presiedere una commissione per l’attribuzione di medaglie al valore ai reduci delle Cinque Giornate, gli perviene un misterioso plico contenente un memoriale. La sua lettura ha il potere di strappare Morosini alle sue occupazioni abituali, prima precipitandolo nella rievocazione dei giorni febbrili della rivoluzione, poi svelandogli qualcosa di essenziale, che sconvolge la sua memoria del passato, la percezione abituale del presente e l’opinione su coloro che credeva di conoscere intimamente.
Non è un romanzo perfetto (se mai ne esistono): tra la prima parte, meravigliosamente incalzante, smagliante nelle scelte pittoriche ed entusiasmante nella narrazione, un affresco ottocentesco che sa coniugare la potenza dell’onda popolare e lo slancio eroico del singolo padroneggiando la cultura raffinata del romanticismo e giustificando ampiamente il titolo, e la terza, in cui domina l’incedere cupo della disillusione e della tragedia, ve n’è una seconda costituita interamente da lettere d’amore che io ho trovato francamente noiosa, forse inutile e comunque non all’altezza del resto. Non è un romanzo perfetto ma è un romanzo importante, come e forse più del precedente Il sopravvissuto, di cui peraltro sono stato un lettore entusiasta.
Importante innanzitutto per la generazione cui io appartengo, una generazione che fatica a saldare l’utopismo febbrile degli anni Sessanta e Settanta con la prosa sciatta del presente, e questo a livello biografico prima ancora che nel giudizio storico.
Questo genere di lettore scoprirà qui che anche quell’emergenza rivoluzionaria, proprio come quella da lui vissuta, si nutriva dell’innocenza metafisica e demente della giovinezza, di cui a tratti l’astuzia della Storia si serve per operare le proprie palingenesi, suggendo fino all’ultima stilla la linfa di una generazione salvo poi abbandonarne il guscio vuoto sul ciglio della memoria, dove il rivoluzionario di un tempo, fin troppo rinsavito, finisce per non riconoscere più nemmeno se stesso. E accanto a questo penoso Morosini, che contempla il proprio irriconoscibile ritratto arrivando a chiedersi quale sia l’ultima verità del proprio destino, c’è il suo amico e rivale in amore, colui che ha ostinatamente rifiutato di rientrare nei ranghi (si chiama Jacopo, come il disadattato romantico per antonomasia Jacopo Ortis), dando origine alla penosa controfigura del rivoluzionario di professione votatosi a un terrorismo cosmopolita, che scambia la propria fissazione narcisistica per fedeltà all’amore di un tempo. Neanche per lui c’è redenzione, perchè non c’è fedeltà nell’amore all’Idea (algida spoglia del connubio carnale che fu), ma solo un rifiuto regressivo del principio di realtà.
Dunque Una storia romantica parla dell’Ottocento per parlare di noi? Non solo il romanzo di Scurati lo fa, ma ogni romanzo storico degno di questo nome, visto che a domandare sulla storia è sempre una comunità che s’interroga sul proprio presente. Se è vero che le pagine migliori sul nostro Risorgimento furono scritte in epoca fascista da chi, come Gramsci, s’interrogava sulle remote ragioni della nostra nazionale arretratezza, niente di strano se a gettare luce psicologica e metafisica sull’ultima epidemia rivoluzionaria di questo mondo sia uno scrittore di nemmeno quarant’anni che non vi ha partecipato, ma forse proprio per questo è in grado di restituirla nella visione cui la poesia attinge squarciando la miseria della cronaca.
Ma non vorrei essere equivocato: il romanzo di Scurati non è un messaggio intergenerazionale, rivolto da un giovane ai fratelli maggiori o ai padri, tutt’altro: la sua forza dirompente sta nel racchiudere una sorta di metafisica della giovinezza, che ogni volta restituisce coi propri sogni teneri e feroci una giovinezza al mondo, ed è tanto più importante per chi, giovane oggi, rischia di soccombere all’inganno estremo di un destino prefabbricato dall’immaginario spettacolare.
Scurati è uno scrittore atipico nel panorama italiano, perchè i suoi romanzi sono sostanziati di pensiero senza cedere alle facili seduzioni dell’ideologia, e soprattutto non si vergogna di puntare a ciò che in passato ha fatto grande la letteratura, cioè una funzione pedagogica più che febbrilmente vaticinante o rassegnata all’intrattenimento. Ringraziandolo per questo e invitandolo a non desistere da questo obiettivo (cui anch’io come scrittore m’illudo di fare costante riferimento), lo invito invece a disertare i salotti televisivi della Bignardi, dove la letteratura è invitata solo per essere arrostita al fuoco rapido della chiacchiera, e dove lo scrittore può accomodarsi solo facendo abiura di ciò che lo rende tale, molto più che Galileo sulla seggiola dell’Inquisitore.

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63 Commenti

  1. Che i libri possano cambiare la mente, provocare, evocare cambiamento culturale, scardinare visioni e mentalità, questo accade. Raramente. Talvolta è bene, talvolta è male. Quando però uno scrittore diventa pedagogo, scade nel fantasma del paradigma dell’educazione. Un pardigma falso! Uno scrittore deve parlare del suo rapporto con la vita, degli oggetti della vita. In questo senso anche del suo fantasma da pedagogo. Ma quando poi si vuole teorizzare in letteratura la sua funzione, ecco che si scade nell’ideologia del potere letterario, e la bellezza e amabilità del suo discorso non sta nel suo contenuto di verità, ma nel suo aspetto riuscito finzionale. La teoria della letteratura, insomma, vale in quanto abilità retorica. In quanto al vero è pari a zero.
    Uno scrittore è tale solo quando scende nelle proprie catacombe e ha qualcosa da raccontare, non c’è in lui alcuna vocazione pedagogica. Pro-duce, conduce fuori solo per un effetto simpatetico, forse.

    p.s. Mi conforto di quanto in più sedi ho sempre sostenuto in merito, l’ultimo interessante lavoro di Maurizio Ferraris: La Fidanzata Automatica, edizioni Bompiani, che molti teorici di letteratura farebbero bene a leggersi

  2. Ho l’impressione che il senso che dò al termine pedagogico sia del tutto diverso da quello che usa Luminamenti, quindi la sua critica non lo scalfisce. Per ciò che intende lui io parlerei di ideologia, e di questo non c’è traccia nel libro di Scurati.

  3. Tengo a precisare che ho fatto solo un discorso minimo senza fare riferimeno a Scurati. Io non so se lui ha scritto un romanzo puntando alla funzione pedagogica (che è ovviamente ideologia sull’educazione. Rimango del parere di Illich in proposito. Vedere nello Specchio del Passato edizione Red). Solo leggendo il libro si può capire (oltre che nelle sue dichiarazioni d’intenti). Non so se lui ha scritto un romanzo con questa intenzione. Per me sarebbe una cattiva intenzione che vizia la scrittura e quello che ha da dire uno scrittore scavando nella sua esistenza nel mondo. Cmq Scurati è un ottimo scrittore e sebbene il salotto televisivo della Bignardi non è luogo all’altezza di Scurati, non ci trovo nulla di sbagliato nel frenquentarlo se uno rimane alla propria altezza, cioè se stesso (questo è il difficile). Ho visto Scurati dalla Bignardi e mi sembra si sia comportato bene. Lo stesso non potrei dire di Genna che non mi ha prodotto lo stesso effetto. Peccato (e certo in questo caso la Bignardi poteva prepararsi meglio su Genna), perchè Genna è una mente ma ha problemi davanti allo schermo, non lo buca.

  4. Il termine pedagogico, nel mio intento, rispecchia quello che un tempo si attribuiva agli studia humanitatis: mettere l’uomo di fronte alla profondità del suo dramma e delle sue potenzialità, educandolo a essere sè stesso.
    Il contrario dell’indottrinamento, che mortifica il personaggio di un romanzo in una visione preconcetta e anzichè educazione all’autenticità produce propaganda, o del puro intrattenimento che utilizza stereotipi della cultura di massa per confezionare trame e e vicende per lo più disanimate.
    La critica, come ha insegnato Eliot una volta per tutte, dovrebbe essere educazione del gusto segnalando opere del primo tipo ed esaltandole a scapito del secondo e del terzo, cosa che provo a fare qui.
    Caro Luminamenti, qui Illich e la descolarizzazione (di cui sono lettore entusiasta da decenni) c’entrano come i cavoli a merenda. Capita quando si vuol parlare di un libro senza averlo letto.

  5. ho letto , condividendone l’assunto, “la letteratura dell’inesperienza”, facendolo seguire da una ri-lettura della “Società dello spettacolo” di Debord – credo che leggerò quanto prima il romanzo (anche questo tuo intervento fa accrescere l’interesse)
    – condiivdo il concetto (anti-ideologico) di pedagogia, come educazione all’autenticità

  6. A me Scurati ha dato l’impressione di prendersi troppo sul serio, talmente sul serio che sembrava un’imitazione di Lucarelli fatta da Bisio, o qualcosa del genere.

  7. Beh dato che secondo te non l’ho letto e che non capisco nulla sempre secondo te di pedagogia, faccio parlare direttamente Illich.

    “Ciò che mi propongo è di incoraggiare la ricerca sul paradigma educativo come distinta dalla ricerca interna a tale paradigma, cioè un tipo di ricerca che esamina i miti, le pratiche, le strutture e gli assunti oggi comuni a tutte le società in cui l’educazione, in seguito a un processo di sradicamento, si è configutata come uno specifico settore d’attività, una sfera o un contesto formale” (pag 103)

    Qui Illich già precisa che la sua ricerca verterà sul paradigma educativa, cioè sulla necessità che c’è un bisogno di educazione e la distingue da ciò che accade al suo interno, cioè dentro i luoghi (scuola o altro/i) dove si educa. Lui contesta (a torto o a ragione, per me a ragione) il paradigma, cioè il fatto che si debba educare. E la storia della pedagogia, come tutti sanno è la storia dell’Homo educandus.

    e continua: ” Questo costrutto pedagogico è rappresentato da un’ideologia da cui sono scaturite le nostre convinzioni circa l’Homo educandus…” e continua a pagina 112:

    A pagina 109 del testo da me citato edizione 1992 aggiunge: “Secondo l’esempio di Keplero, dobbiamo ora riconoscere che la sfera educativa è un costrutto analogo alla sfera di Mercurio e che il bisogno degli esseri umani di venire educati si può paragonare al bisogno di vivere nel centro immobile dell’universo”

    Dov’è qui la scuola? che cosa c’entra la descolarizzazione che è un altro discorso ancora di Illich e che fa altrove? E’ evidente in questa sua proposizione la sua critica al paradigma educativo.

    e aggiunge: ” Educazione, nell’accezione odierna, significa apprendimento, con la supposizione che esso sia un prerequisito di ogni attività umana e che, nello stesso tempo, le sue opportunità siano, per definizione, scarse”. E tu stesso Binaghi cadi in questo equivoco, quando dice nel tuo testo “… e soprattutto non si vergogna di puntare a ciò che in passato ha fatto grande la letteratura, cioè una funzione pedagogica più che febbrilmente vaticinante o rassegnata all’intrattenimento”, consideri cioè la funzione pedagogica in condizioni di scarsità, tutta occupata dall’intrattenimento.

    E aggiunge a pagina 114: I pedagoghi sono così ansiosi di dimostrare la loro discendenza legittima da Socrate, Varrone, Budda, che per essi la storia dell’Homo educandus è diventata tabù.

    E aggiunge: “Una volta riconosciuto che i concetti fondamentali di cui ci serviamo (bisogni educativi, apprendimento, risorse scarse, ecc) corrispondono a un paradigma niente affatto naturale, sarà aperta la via alla storia dell’Homo educandus” (pagina 115).

    E ahimé, ci sono scrittori, teorici della lettura che concepiscono nella scrittura una finalità pedagogica: dobbiamo istruire, insegnare, produrre apprendimento nei lettori.

    Ti faccio notare che il discorso di Illich sulla descolarizzazione è differente ed è affrontato in un altro testo e nel testo invece da me citato, la parte che riguarda dalla descolarizzazione non è inserita nel capitolo delle pagine da me citate, ma molto dopo. Ci sono sì punti di contatto, ma sono due discorsi con significati distinti.

    Inoltre ti consiglierei di leggere il suo La Storia dei Bisogni e nella Vigna del testo.

    Infine ti faccio notare che c’è una grande differenza tra apprendere e formare, una cosa è la bildung ebraico-tedesca, un’altra cosa ancora è il moderno concetto di apprendimento che è perfettamente inserito nel paradigma educativo.

    Quello che tu chiami studia humanitatis non ha nulla a che fare con la parola pedagogia. Ma basterebbe guardare all’antropologia e ai suoi sviluppi per rendersi conto di come l’idea di insegnare qualcosa attraverso un libro è un costrutto improduttivo.

    Questo non significa ovviamente che il libro non sia un possibile mezzo per scardinare la realtà. Ma non agisce pedagogicamente! Non è un modello socratico, dove la pedagogia maieutica è governata da domande che portano alla risposta che Socrate conosce.

    Altra cosa è quando le domande portano alla propria personale risposta (maieutica dolciana. Danilo Dolci).

    La pedagoia presuppone una morale che non c’è:

  8. @Luminamenti
    Il risultato dei tuoi interventi in un thread è quasi sempre il medesimo.
    Vuota e supponente esibizione di cultura, quasi sempre estranea all’argomento. M’hai stufato.

  9. Al di là della supponenza (vuota o meno) e dell’irritabilità, trovo che Lumina stia aprendo ad un discorso che merita attenzione.
    Non buttiamola in vacca.

  10. Caro Binaghi tu hai problemi di bile.
    Non sai conversare. Mi sembra di aver portato argomenti (discutibili). Ma tu non mi sembri interessato. E mi sembra che hai la memoria corta su illich (anche se non è il vangelo), ma intanto quanto dice è esattamente quanto io ho riportato della sua idea sulla pedagogia. Capisco che ti dà molto fastidio esser smentito clamorosamente.
    ma dimentichiamoci di illich e parliamo del concetto se un romanzo debba o no avere una funzione pedagogica. Io lo nego!

  11. Mi darebbe molto fastidio essere smentito essere smentito clamorosamente se ciò avvenisse. Ma se io parlo di cazzi (umanesimo letterario) e tu di canguri (pedagogia autoritaria) più che infastidito sarei annoiato.
    Credo di avere letto tutto ciò che è tradotto in italiano di Illich.
    Solo non mi pare di doverne discutere qui.

  12. è che il nostro caro uolter ci ha questa fissa di salvare, educare, indirizzare :)))
    certo è che presenziare in un qualsiasi salotto televisivo è come minimo da ingenui, volendo essere buona e cercando di capire le umane debolezze.
    ma si sa, chi rinuncerebbe ad apparire nel vuoto del tubo catodico?
    non apparire in un mondo in cui se non appari non esisti è un atto profondamente “educativo”profondamente “rivoluzionario” profondamente “pedagogico”.
    saper dir di no alla tua umana vanità.
    il mio è un pensierino radicale e mi concedo il lusso di pensarlo.
    baci
    la funambola

  13. Mi piace la discussione tra Binaghi e luminamenti, pur non capendo del tutto di che parlano – del resto mai letti Scurati e Illich.
    A istinto mi vien da stare con Binaghi, che comunque ha fatto un buon articolo di critica letteraria per NI (e in NI da un po’ di tempo i gli articoli autografi impegnativi, di livello alto, son diminuiti), magari non approfondito ma molto personale, prendendo posizione, e su un tema scomodo come quello “pedagogico”; perché non ampliare il tema e trattarlo in modo più approfondito, Binaghi, e parlare del fare pedagogia nei vari ambiti della cultura, non solo in quello del romanzo?
    Io aspetto ancora che NI si apra, come era previsto nel suo Manifesto, a tutte le branche del sapere, non solo a quello letterario in senso stretto ma anche a quello, per esempio, filosofico-scientifico, per il quale l’Italia ha un’idiosincrasia antica, che risale all’idealismo di Gentile se non a prima e che oggi si manifesta in posizioni ideologiche-fideiste e tutt’altro che pedagogiche nei campi dell’astronomia (il principio antropico) e della biologia (neocreazionismo d’accatto).
    Lorenz

  14. L’articolo di Binaghi secondo me è molto bello. Condivisibile per molti versi. Quanto alla necessità di liberare la letteratura dal peso schiacciante della volontà di educare mi sembra che si può rischiare o l’equivoco o la castroneria. L’educazione, il condurre fuori, il rendere intelligenti e ricchi è necessariamento un esercizio di potere e violenza? Il letterato educatore è un pedagogo autoritario?E, in generale, gli educatori sono tutti cocciuti istitutori che vogliono raddrizzare il legno storto dell’umano o addomesticare il selvaggio come Truffaut nel suo film “Ragazzo selvaggio”?Io ci andrei cauto. Va bene, non ci vuole Foucault, non ci vuole la critica di Derrida all’educazione panottica dell’Emilio di Rousseau, non ci vuole nemmeno Illich per svelare la componente di potere nell’educazione! E Dante, Petrarca, Boccaccio e infiniti altri non violentano i lettori nella loro volontà di educare. Chi non nota la densità didascalica della Commedia? Dante è caduto nell’ “ideologia del potere letterario”? Che i numi ci salvino dall’ideologia dell’attacco alle ideologie! Dante, MAchiavelli, Pietro Verri, Manzoni etc avrebbero dovuto vergognarsi della loro volontà di ammaestrare e parlare “degli oggetti della vita”(eeeeeh?)? Dovremmo espellere dalle scuole tutti questi arroganti scrittori-pedagoghi? Gli umanisti del XV secolo erano dei rozzi ideologi quando si richiamavano agli scrittori greci e latini come modelli di stile, ma anche di virtù? Davvero il matrimonio tra scuola e letteratura è fondato su una rozza illusione?

  15. Un esempio. La prima parte del romanzo di Scurati (e non dico che tutto il libro sia all’altezza di quella) fa molto più che raccontare uno scenario romantico. E’ romantica, nel senso che c’è tutta la lingua del romanticismo, l’equivoco incestuoso tra amore e rivoluzione, i sogni di una generazione spacciati per palingenesi universali, il desiderio febbrile di morire per amore e far esistere con questo atto estremo l’Assoluto che la ragione nega! Chi lo legge non viene “istruito” ma condotto a fare squisita esperienza mimetica: essere romantico mentre legge, ma sapendo di leggere, perchè questo è l’equilibrio magico dell’arte in certi momenti. E allora tu indossi i panni e gli ardori dell’eroe, eppure ne contempli la dimensionata figura dal luogo di una consapevolezza riflessa. E può accadere questo perchè ci sono un romanticismo, una rivoluzione e un primo amore ideali, che ciascuno in qualche modo ha provato perchè sono un luogo dello spirito. E dico anche dove Scurati ha esagerato: nella fitta rete di citazioni ed elaborazioni letterarie di cui ha costellato il romanzo, non sgraziate ma inutili, perchè egli aveva già fatto di meglio per creare le condizioni concrete di fare questa esperienza, estetica lo ripeto. E per chi vuole poi trarne materia di giudizio, anche morale. Sentire il buono e il guasto, e quanto è sottile il confine tra l’eroico e il narcisistico se non si alimentano di un sentimento popolare, e i limiti di altre stagioni rivoluzionarie. non per via di un ragionamento, me per una sorta di senso interno che nasce in te quando entri in contatto con la pura forma di qualcosa, che d’ora in poi diventa un paradigma del tuo percepire. Non solo questo ma questo fa l’arte, quando è arte.

  16. Il Signor Binaghi discetta di arte senza essere mai entrato in una Galleria di Arte Contemporanea.
    Spero che Daria Bignardi non rifili agli italiani le Invasioni Barbariche per i prossimi dieci anni.

  17. Ho poco tempo. Intanto posso solo dispiacermi dei toni di Binaghi. Ho dato un mio parere, che va al di là delle intenzioni di Scurati che non conosco, come ho precisato nei precedenti post. Su cosa Illich ha detto ho riportato in proposito parte di quello che lui ha scritto, quindi chiunque potrà rendersi conto di cosa ha detto senza accusarmi di non averlo letto e capito in merito alla sua critica sul paradigma educativo e sulla vacuità dei progetti pedagogici che non c’entrano un’acca con la descolarizzazione di cui parla binaghi.

    Ma al di là di questo ciò che manca è un riflessione sull’atto della scrittura in relazione all’intenzione pedagogica.
    Mi sono solo limitato a esprimere i miei dubbi sul punto 1) dell’interessante articolo di Binaghi: “…e soprattutto non si vergogna di puntare a ciò che in passato ha fatto grande la letteratura, cioè una funzione pedagogica più che febbrilmente vaticinante o rassegnata all’intrattenimento”.

    Questo ho messo in discussione. Nego con forza che ciò che ha fatto grande la letteratura è la sua funzione pedagogica. Questo era il mio argomento e non so proprio nulla di come la pensi il bravo Scurati in proposito.

    Se Gianni Biondillo è disponibile a pubblicarlo, prossima settimana, scriverò un approfondito articolo su questo specifico argomento. Se vi interessa (Binaghi compreso)

  18. Il pericoloso accostamento fra letteratura e “funzione pedagogica” non poteva passare inosservato. D’altra parte né Binaghi né tanto meno Scurati sarebbero così avventati da intendere il termine ‘pedagogico’ nel senso in cui è stato inteso da Luminamenti, che ripropone vecchie questioni che ci avrebbero appassionato ai tempi dell’università; ma dubito che qua dentro ci sia ancora qualcuno che assegni alla scrittura finalità pedagogiche.
    Forse se fossi Binaghi, anche per scongiurare equivoci, più che parlare di “funzione pedagogica” avrei semplicemente annoverato Scurati “tra i pochi che non si vergognano di puntare su” una ‘poetica’ (ben tratteggiata nel libello citato) non incline a rimuovere il tragico, al contrario di buona parte degli interpreti del nostro postmoderno letterario, per i quali sarebbe già fin troppo generoso parlare di poetica.

  19. Però insomma, la Bignardi è l’unica che dà un qualche spazio agli scrittori anche se non vendono un milione di copie, e di libri si occupa da sempre, non sarà l’apostrophe o come cavolo si chiamava q

  20. (continua, scusate lo spam, problema tecnico) … o come cavolo si chiamava quel programma francese, ma è quantomeno decente, in mezzo a tanta schifezza televisiva, se poi intervista pure Materazzi, pazienza. Non capisco l’avversità che qui e là trapela contro di lei e il suo programma, a meno che non si tratti della solita storia per cui chi ci sta a fianco, ma un po’ più al centro, finisce con l’esserci più inviso di chi sta all’estremo opposto. E poi, è notorio che ai tempi di Valcareggi, se non la buttava dentro Riva, era dura fare gol.

  21. @livermore, scrive: “D’altra parte né Binaghi né tanto meno Scurati sarebbero così avventati da intendere il termine ‘pedagogico’ nel senso in cui è stato inteso da Luminamenti, che ripropone vecchie questioni che ci avrebbero appassionato ai tempi dell’università; ma dubito che qua dentro ci sia ancora qualcuno che assegni alla scrittura finalità pedagogiche”

    Luminamenti non intende il termine pedagogico nel senso che a lui pare, ma nel senso che la pedagogia ha dato a se stessa.

    L’idea poi che una grande letteratura derivi da una funzione pedagogica è un messaggio chiaro e e forte, che Binaghi scrive.

    La grande letteratura non dipende dall’intento e dalla funzione pedagogica.

    Poi Binaghi ha scritto: “termine pedagogico, nel mio intento, rispecchia quello che un tempo si attribuiva agli studia humanitatis: mettere l’uomo di fronte alla profondità del suo dramma e delle sue potenzialità, educandolo a essere sè stesso”.

    Qui Binaghi fa una permutazione del termine pedagogico con studia humanitas.

    Mi permetto di fare notare che emerge tutto il moralismo e l’ideologia pedagogica: “educandolo a essere se stesso”.

    Qui emerge l’idea forte che l’umanesimo sia universale. E’ la convinzione su cui è nata la pedagogia.

    Se io presuppongo di sapere cos’è un Uomo, allora solo allora mi può venire in mente l’idea di scrivere: “educandolo a essere se stesso”.

    E che cosa significa quest’ultima affermazione? come faccio ad educare a essere se stesso se è un altro ad educarmi? Beh, qui il problema viene risolto con una certa idea dell’umanità, un’idea che è divenuta normativa, autoevidente e che viene ritenuta universale.
    Non basta fare dichiarazioni contro l’indottrinamento quando questo sta come il rimosso dietro studia humanitas!

    Non c’è da stupirsi se poi la letteratura d’intrattenimento ha preso campo, quando la funzione pedagogica, data dai presupposti da me indicati, è risultata fallimentare. L’azione ha provocato un reazione. Ma ciò che l’ha resa fallimentare non è la sua specificità metodologica o espressiva, piuttosto l’idea normativa sull’Uomo, il suo paradigma.

    La debole letteratura del post-moderno è la conseguenza di questa posizione.

    La critica dell’immaginario di cui parla Scurati è possibile solo se c’è qualcuno che si pone nella posizione di sapere che c’è da una parte un immaginario buono, che vale, e da un’altra parte c’è un immaginario cattivo, che non vale. Mi sembra una posizione debole e facile. Ed è una posizione pedagogica. L’educazione al gusto è un problema della ricezione della forma, come già aveve analizzato l’etologo Lorenz, ma la possibilità di un apprendimento del gusto è molto limitata.

    Qualsiasi progetto di teoria della letteratura mirato a scardinare tale status è inattuabile oltre che sbagliato, perché la norma dell’arte è provocare sentimenti, e la trasgressione, se mai, è non provocarli, criticarli, frustarli.

    Come realizzare ciò lo sa solo un bravo scrittore, dopo un lungo apprendistato e sfugge alle retoriche della teoria della letteratura intorno al reale e all’immaginario applicate a una critica politica della società che implicherebbero varie modalità intorno alle strategie di scrittura a seconda dell’orientamento ideologico della letteratura.
    Un bravo scrittore suscita sentimenti se si tiene lontano da tali sabbie mobili, che molto spesso appaiono invece come il tentativo di raccogliere un’audience

  22. Intervenire in questo dibattito non è semplice.
    ci ragiono.
    (provo)

    Tutti autodidatti dunque? Non più maestri d’arte o di vita?

    Il maestro non è un pedagogo, ma, direi, il pretesto per l’allievo di amare l’arte, la scienza e la vita.

    Certo, il maestro insegna una disciplina, un metodo (e in questo caso è autoritario), dei concetti, forse un’etica e un’estetica, ma insegnerà soprattutto, al momento giusto, a infrangere le regole e quel metodo e a superare i concetti e, addirittura, si aspetterà che l’allievo oltrepassi quell’etica e quell’estetica.
    E non lo farà insegnandolo, ma semplicemente lasciandolo libero l’allievo o lasciandosi suo malgrado ‘uccidere’.

    Per contro l’autodidatta che non ammette maestri, se è forte ed è raro, determinato e sincero crea ex novo in maniera dirompente il suo percorso e rivoluziona la storia (Wagner), più spesso credendo di essere maestro a se stesso perde il confronto con la storia e resta banale.

    Ora il libro non fa pedagogia in senso stretto, in questo condivido il pensiero di chi l’ha detto, tuttavia il libro edifica, fa crescere, trasmette emozioni e per questo insegna comunque, suo malgrado.

    Ma è il libro un maestro e chi lo legge l’allievo, o il libro è solo un pretesto per l’autodidatta che fa tutto da solo?

    Quando lo legge il libro, il lettore lo ascolta e impara ciò che da lui in qualche modo promana come un maestro, oppure è tutto nella testa del lettore-autodidatta che succhia e il libro soltanto un materiale da cui attingere e succhiare come da qualunque altra cosa?

    Per chi l’ha detto la pedagogia del libro è forse il taglio dato dall’autore (il mestro è comunque sempre il libro e non l’autore) di creare una metodologia, un processo, un percorso che disveli in maniera via via più chiara un messaggio, un’impronta più o meno precisa.
    Lo dichiara di più perché vuole fare così, ci insiste di più, perché vuole precisare il suo messaggio. Non in senso didascalico, ma attraverso i molteplici giochi che la letteratura consente.

    Forse sono i diversi gradi di intenzionalità di sviluppo del discorso letterario che spostano l’accento più sul versante maestro-allievo (romanzo-lettore), o su quello libro/materiale-autodidatta.

    Mi piacerebbe però che qualcuno ragionasse anche del romanzo storico che a me piace molto.

  23. secondo “canoni classici,l’istruzione viene concepita come ausilio agli esseri umani nella comprensione dei dilemmi fondamentali dell’esistenza e della natura essenziale dello spirito umano”.L’arte forse non può limitarsi a questo.Deve toccare altre corde

  24. E’ vero, sono perfettamente d’accordo che l’arte deve toccare altre corde!

    Ma poi, dopo il momento di (come chiamarlo?) stupore, contemplazione, sgomento, piacere, altro…, qualcosa rimane di edificante nei sensi, nella mente e nell’anima? (nel senso che edifica e fa comunque crescere o andare oltre).

    E allora l’arte insegna comunque qualche cosa? L’arte comunica? E se sì è maestra di etica estetica e vita o siamo semplicemente noi fruitori a rivoluzionare, attraverso l’arte, il nostro mondo interiore ogni volta?

    Quello che volevo dire che non si parla ovviamente di didattica e i maestri veri non sono degli insegnanti, ma essi stessi opere d’arte viventi che trasmettono tutto ciò che ho detto prima.

    Io ho avuto questa esperienza.

  25. @Luminamenti
    Dovresti firmarti Contorcimenti.
    E’ incredibile quello che riesci a farmi dire.
    Ho spiegato chiaramente che la pedagogia dell’arte è nella visione, cioè nella possibilità di far percepire l’idealità di un tipo, di un sentimento della vita, permettendo al fruitore di sperimentarlo in sè stesso.
    E’ il contrario di una pedagogia intellettualistica e autoritaria.
    Ma a te che te ne frega? Vuoi cantare la tua solfa, a tutti i costi.
    E cantala.
    Parlare di nobiltà e mediocrità e pensare di elevare il gusto presuppone un umanesimo universale? Si, ho questa debolezza. L’alternativa è la Babele delle assiologie autistiche. Se ti piace accomodati.

  26. Temo che la tendenza a scrivere un romanzo individuando prima lucidamente un’intenzione ideologica o pedagogica sia solo il segno della perdita di centralità del romanzo in quanto forma plastica e sorprendente, prima di tutto per l’autore. Nessuno dei grandi romanzi è nato su una scaletta di idee, per quanto eticamente apprezzabili.
    Questo tipo di poetiche sono desunte a posteriori dai teorici della letteratura ed è divertente parlarne, ma nulla nei diari o negli epistolari o nelle opere dei grandi romanzieri ci può indurre a vedere disegni così compatti. Li vediamo disegnati a volte come sentieri strumentali, che vengono imboccati e abbandonati quando la forza del romanzo prevale sulle intenzioni dell’autore, che se ne serve come un sostegno per procedere, e per fortuna, perché la poetica diventerebbe una gabbia stretta e soffocante.
    Non posso che essere d’accordo con Luminamenti, tutto quanto dice sulla natura delle grandi opere lo condivido, non c’è immaginario buono o cattivo,
    La domanda, per me, non è il programma di Scurati, ma il fatto che Scurati sia riuscito a scivere un grande libro. Ci è riuscito?

    Questo che tu dici, Valter:
    “Poi ho letto Una storia romantica, il suo romanzo recente, e devo ammettere che l’operazione tentata da Scurati ha non solo una sua coerenza intellettuale, ma anche una concreta possibilità di riuscita e soprattutto, come proverò a mostrare, un risvolto pedagogico non disprezzabile.”
    mi farebbe pensare di no, perché non si tenta un’ “operazione” quando si scrive un romanzo, né quello che chiediamo a una grande opera è mera coerenza intellettuale, la coerenza intellettuale la chiediamo – forse – alla persona, e certamente non a un grande romanzo, che più che essere coerente deve stupirci e offrirci una nuova visione.
    Se lo leggiamo come dovremmo leggerlo non cerchiamo il risvolto pedagogico. Lasciamo queste cose ai manuali letterari per le scuole, che infatti non sono mai riusciti a fare del nostro paese un paese di lettori, perché andando in caccia di poetiche e pedagogie, hanno tagliato le gambe a tutto quanto di vivo c’è nelle opere.

  27. Si, ha ragione Luminamenti, ognuno capisce quel che vuol capire e scrive quello che aveva già deciso di scrivere. Soprattutto di un libro non letto, causa antipatie per l’autore o idiosincrasie per il recensore.
    Per fare grandi libri ci vogliono anime grandi, e grandi lettori per riconoscerli. e questa è la verità della pedagogia
    Di solito spariti i primi spariscono i secondi, e questa è la sua debolezza.

  28. l’educazione non è mai stata democratica, nè mai lo sarà: è un parto, non un partito.

    il declino dell’educazione comincia nel momento in cui si mette in discussione l’autorità del maestro: ovvero nel momento in cui l’educando non sente più il dovere morale e intellettuale di criticare il maestro (cioè il dovere della rivoluzione culturale) ma solo il diritto cartabollato di farlo.

    questo è il baco: quando la rivoluzione diventa un diritto, non più un dovere.

    solo il vero rivoluzionario sa riconoscere il vero maestro: per l’hobbista della rivoluzione la pedagogia è un non-problema: tutti devono avere il diritto di essere maestri, nessuno il dovere di farlo.

    caro Luminamenti, è questo, a mio parere, il filo tra rivoluzione e pedagogia. non necessariamente un filo rosso, sia chiaro. ed ecco perchè un libro che parla di rivoluzione non può non essere pedagogico nel senso proprio del termine.

    id est: per esser pedagogo e scurati non necessariamente cesare ti devi chiamare.

    oh, se vedete la bignardi in giro per nazione indiana me la salutate?
    secondo me ha delle gran belle gambe.
    ah, se avessi scritto anche io un romanzo pedagogico.

  29. il romanzo di Scurati – perdonate il linguaggio prezioso – fa cagare, come tutti i romanzi costruiti a tavolino su un’idea. Gli dte troppa importanza a questo scrittore, davvero troppa. E’ uno scrittore “medio” che sorprende solo quando sbaglia e inciampa come in questo caso.

  30. Binaghi mi dice: “Si, ha ragione Luminamenti, ognuno capisce quel che vuol capire e scrive quello che aveva già deciso di scrivere. Soprattutto di un libro non letto, causa antipatie per l’autore o idiosincrasie per il recensore.”

    E dove avrei parlato in positivo o in negativo del libro di scurati?
    In quanto alle antipatie non ne ho con gli sconosciuti. E il mio intervento è sempre stato orientato a esprimere la mia idea: la grande letteratura non si fa con propositi pedagogici.

    Poi finisce: “Ho spiegato chiaramente che la pedagogia dell’arte è nella visione, cioè nella possibilità di far percepire l’idealità di un tipo, di un sentimento della vita, permettendo al fruitore di sperimentarlo in sè stesso. E’ il contrario di una pedagogia intellettualistica e autoritaria”.

    Bene, mi sembra allora di averti capito bene e non averti frainteso. Hai la vocazione del pedagogo e un’idea umanistica e pedagogica della letteratura che io non condivido senza bisogno come fai tu di classificarti tra le anime grandi o le anime piccolo, grandi lettori o piccoli lettori.
    Non riesci proprio a parlare di un argomento mescalondo insieme valutazioni superficiali e gratuite sulla persona che esprime un’idea diversa da te? Nego che si possa fare buona arte con queste tue idee. La convizione che esista l’idealità di un tipo e di un sentimento della vita e che per giunta sia possibile farlo percepire e sperimentare è a mio parere errata e vizia gravemente la possibilità di costruire una valida opera letteraria.
    Invece dell’ideale parlerei del reale, invece della critica all’immaginario parlerei dell’immaginazione. Una cosa è (pre)costruire una direzione, un’idealità, un’altra cosa è raccontare, narrare senza pensare di costruire, inventare un modello ideale, senza la pretesa di essere paradigmatico, senza la persuasione di sapere cos’è l’idealità e illudendosi di farla sperimentare ai fruitori. Non funziona così il lettore.

    Ma, spero, ne riparleremo, ne riparlerò. Se posso prossima settimana impegni permettendo. Grazie cmq per avermi letto Binaghi

  31. Senza intenzione formativa è difficile concepire un grande impianto, che non è l’unica qualità ma una delle qualità che fanno grande un romanzo.
    Senza condividere un umanesimo universale è difficile concepire una continuità tra passato e futuro, il che fa di un romanzo storico un allegoria.
    Senza coerenza intellettuale è difficile addirittura dare unità a un testo.
    L’anti-pedagogia di Luminamenti e l’anti-poetica di Alcor risalgono a un sessantottismo febbrile ed equivoco, che nel nostro paese ha prodotto tutt’altro che grandi romanzi, ma uno stuolo di scritture autoriali, innamorate della propria pagina, costantemente alla ricerca della magia dello “stile”.
    Lo “stile” è come la spontaneità. Quando si comincia a cercarlo a tutti i costi, ci si è votati alla sua negazione: il programma.

  32. Lettrice laureata certo no, non capisco l’acidità, ho solo espresso il mio parere e le mie riserve. Quando dico “come dovremmo leggerlo” non intendo dare lezioni a nessuno, ma invitare a leggere liberamente seguendo l’eventuale capacità dell’opera di essere viva, o ancora viva per noi, e senza andare alla ricerca delle intenzioni dello scrittore, che hanno sempre poco a che fare col risultato, e a lasciare che le grandi opere (parlo di grandi opere – e non di Scurati, che non ho letto e non leggerò, avendo già avuto un’esperienza assai deludente con Il sopravissuto) perché un rivolo della discussione ha messo in campo anche quelle) ci attraversino liberamente, al di là del loro impianto ideologico o della loro capacità di edificazione.
    Nell’orizzonte dell’edificazione ad esempio un libro come “Il sogno della camera rossa” o persino l’ “Odissea”, non troverebbe alcuno spazio.
    Io sono probabilmente una lettrice amorale, dal punto di vista dell’ideologia, ma non credo dal punto di vista della letteratura.

  33. Non avevo letto il tuo ultimo commento, scusa, ma riferire il mio giudizio a un settantottismo febbrile ed equivoco è una grande stupidaggine. Nel sessantotto avevo già ventidue anni e la mia formazione di lettrice era quasi compiuta, i grandi libri li avevo in buona parte già letti e mi avevano formato più di quanto hanno potuto fare i decenni successivi.

  34. Impianto ideologico ed edificazione sono termini tuoi, ed è esattamente quello che io non cerco e non trovo nel libro di Scurati. Ma, se ti ha deluso “Il sopravvissuto”, è inutile che seguitiamo a parlarne. Per me è uno dei pochi romanzi importanti degli ultimi anni.

  35. Trovi e apprezzi però il “risvolto pedagogico” che dovrebbe servire all’ edificazione dei lettori, mentre io cerco la forza letteraria, che agisce in modo differente.

    Ma hai ragione, inutile continuare, Io sono convinta che di Scurati scrittore non resterà traccia, tu trovi quello che a me è parso un libro disanimato e volontaristico un romanzo importante, ci muoviamo su terreni lontanissimi e una discussione servirebbe solo a scaldare inutilmente gli animi, non tanto da parte mia, ma, viste le tue reazioni, da parte tua. Non ho voglia di litigare, non vedo che frutto se ne può trarre.
    Una sola cosa, non tanto per te, ma per chi eventualmente dovesse leggerci, il tuo riferimento allo “stile” come piccola gabbia di autoreferenzialità può nascere solo da una concezione dello stile come “bello scrivere”, e cioè da una caricatura dello stile. Con chi equipara lo stile al bello scrivere – sperimentale o meno che sia – con chi ne fa dunque una caricatura, io non ho linguaggio in comune e non posso discutere. Non ci intendiamo sui fondamentali, come possiamo confrontarci?

  36. Perfetta identità di vedute.
    Tu fai in effetti una caricatura di ciò che io chiamo funzione pedagogica e che per me è la differenza tra l’arte e la vuota esibizione del proprio sentire.
    Ognuno nel suo guscio, allora.

  37. Dovendo parteggiare, scelgo valter binaghi (non nei toni però). Ferma restando la carica etica ed estetica del romanzo, che in questo senso è pedagogica (ovviamente è il lettore-allievo che elabora l’apprendimento attraverso la propria esperienza), ritengo che anche l’autore possa immettere intenzionalmente quel quid nel testo che risultara come il suo messaggio e il suo insegnamento. Anzi, direi che l’autore anche non volendo veicola nel testo letterario la sua cifra, la quale, chiaramente, il lettore-allievo farà sua attraverso l’arricchimento che l’opera gli ha dato.

    Il lettore-allievo impara sempre dall’opera d’arte.

    Poi, volevo dirvi che prima di dibattere anche con toni accesi, occorre capire bene il significato che ciascuno ricollega alle parole. Sicuramente il termine pedagogico è stato usato da valter binaghi in senso nobile e non averlo capito porta ovviamente ad una sterile polemica.

  38. Binaghi dice: “L’anti-pedagogia di Luminamenti e l’anti-poetica di Alcor risalgono a un sessantottismo febbrile ed equivoco”.

    Per fortuna che lui aveva negato di fare ideologia (vedere il suo primo post, dove lo dichiara esplicitamente, per non parlare dei post successivi, articolo compreso).

    Chissà come si sarebbe scagliato contro se avesse detto che portava avanti un discorso ideologico. E’ palese la demagogia e la maschera ( a poco a poco però i veli si stanno abbassando).

    Quando quindi dicevo che non basta fare dichiarazioni contro l’indottrinamento, contro il pedagogismo autoritario perché questo sta dietro come il rimosso, perchè non si riesce a vedere la costrizione entro cui si colloca il discorso letterario, prospettando un modello ideale, fa la comparsa il fantasma della morale pedagogica che non vuole educare a essere se stessi (progetto altissimo e nobile), ma vuole eterodirigere questo processo a propria immagine – l’immagine dell’altro, immagine di chi crede di essere nel giusto e sopprime l’idea dell’altro, soffocante quella libertà espressiva nella scrittura capace di rappresentare i mondi dell’esperienza (totale) incontrati all’incrocio con il proprio esserci al mondo e vissuti. Tutto deve essere riportato a una norma edificata senza fondazione e lo scrittore ridotto (perché di riduzione si tratta) alla magra figura platonica del filosofo-politico che governa la plebe aspirando alla raffinazione del suo gusto.

    Eppure, è paradossalmente stando lontano da tale ideale di falsa humanitas (che allontana dall’umano e impedisce ogni progresso etico) che lo scrittore può sincronicamente e diacronicamente perturbare il campo antropico. Tutto è modificabile culturalmente. Per interferenza catastrofale. E punto di non ritorno. L’utopismo letterario toglie al bene il pregio effimero della materialità: la godibilità sensibile, e gli sottrae anche il vantaggio particolare di quell’apice della mente dove si cessa di avvertire tanto il transito del tempo quanto dello spazio. La funzione pedagogica nell’intenzione letteraria (romanzesca, narrativa) toglie l’aura alla scrittura, la capacità di meravagliarsi e la fascinazione ipnotica, magica che inchioda il lettore all’evasione dalla sua presente dimensione cronotopica. Noi lettori, ascoltatori, osservatori, viviamo la manifestazione estetica, rispondiamo alla libertà che penetra nel nostro essere e ci mette alla prova, e riconosciamo nelle sue caratteristiche formali i lineamenti della creazione stessa. Persino la risposta più penetrante del lettore alto, più armonica, s’imbatterà sempre in un’alterità irriducibile. Nessuna lettura circoscrive definitivamente i significati (ideali?), la vita nel signficato dell’opera. Questo merita la serietà della gioia e dell’accoglienza, una forma estetica, una contro-reazione, contiene sempre ciò che sfida l’incorporazione definita e stabile.
    Quando gli artisti e gli scrittori ci dicono che non dominano i significati completi o latenti che essi stessi hanno suscitato, testimoniano di questa alterità. Quando lettori, interpreti o osservatori di sensibilità e conoscenze simili rispondono in modo discordante alla stessa opera, significa semplicemente che le loro libertà hanno affrontato sfaccettature diverse di ciò che nella forma estetica è in sé irriducibile a quella forma.
    Questa alterità mi appare, in senso quasi materiale, come un vestigio via via rinnovato del momento della creazione originale, mai totalmente accessibile. E’ nell’idioma e nell’immagine suscitata dalla scrittura, nell’articolazione degli eventi, che il lettore percepisce, più o meno consapevolmente, l’avvento del nostro esserci al mondo, l’urgenza e il desiderio mimetico evocato dalla lettura di trovare un senso alla nostra storia (personale)

  39. Niente, non c’entra niente.
    La pedagogia non sta nella forma artistica, ma nell’intenzione dell’autore, specialmente quando decide di essere popolare. Si è popolari non quando si mette un popolo in scena ma quando si prova a interpretare i suoi gesti, a dargli dei simboli in cui riconoscersi. Poi il risultato può essere artisticamente riuscito o meno, questo è altro discorso. In questo senso sono stati popolari e pedagogici Dante e Manzoni, ma anche minori come De Amicis e Riccardo Bacchelli. Chi prova ad esserlo oggi cercando l’autenticità di un senso comune oltre il velame degli stereotipi dell’ideologia spettacolare, merita segnalazione, perchè è la forma più necessaria e difficile. Moccia è popolare e pedagogico, Gomorra è popolare e pedagogico, Manituana è popolare e pedagogico, Una storia romantica lo è e io stesso ho provato a esserlo con “I 3 giorni all’Inferno”. Alcor dirà che nessuno di questi è un grande romanzo e glielo concedo. Ma a me (che non sono un critico) adesso interessano anche romanzi importanti, di cui si dovrebbe parlare per un motivo o per l’altro.

  40. E’ nota ad esempio la vocazione pedagogica del romanzo storico. Anche in Italia abbiamo avuto un romanzo storico a profonda vocazione educativa, solidale col progetto dell’unificazione nazionale. E quando non accentuava oltre misura l’impegno educativo, realizzando una sorta di “abbassamento” del romanzo e della coerenza interna del racconto rispetto all’informazione e l’indottrinamento (fino a trasformarsi in un pretesto) è arrivato ad esiti estetico-letterari dignitosissimi.
    Poi possiamo anche dire che, come insegnatomi da un maestro come Gargani, se intendessimo assegnare un’etica alla narrazione, diremmo che questa consiste nel rinunciare a qualsiasi volontà di verità, e così facciamo felice anche il buon Luminamenti. D’altra parte, la virtù dei romanzi di Scurati, a mio parere, sta proprio nel fatto che la sua scrittura si configura come un’indefinita sperimentazione di un’impossibilità, come una speranza sempre delusa di un possesso irraggiungibile. Niente di più lontano dallo “scrittore ridotto alla magra figura platonica del filosofo-politico che governa la plebe aspirando alla raffinazione del suo gusto”.
    La letteratura non salva. Non potrà mai ridurre la differenza originaria tra essenza ed esistenza. Quello che può fare è limitarsi a registrare tale lacerante scissione all’infinito. Credo sia verità nota a Scurati quanto a Binaghi, non mi pare il caso di insistervi troppo, Lumina.

  41. Bene. Direi che è ora di tirare lo sciacquone. Adesso autistici citano valorosi anonimi come Gargani. Discussione televisiva. Nazionalpopolare. Tutti cresciuti col Maurizio Costanzo Show?

  42. ben prima di Duchamp, Don Chisciotte scelse un catino per elmo. quel gesto ha anticipato quello che siamo diventati. ritengo che la pedagogia in letteratura sia questione da esegeti e che i lettori tutt’al più debbano preoccuparsi di ricordare le storie che hanno amato fino alla fine. e quoto in toto l’ultimo intervento di Allucinamenti.

  43. Signor Binaghi, non si diletti di Arte. Citare Duchamp è da ginnasiali ai primi mestrui. Se viene a Londra, la porto a vedere Damien Hirst alla Tate Britain.
    Come al solito, Lei non capisce un cazzo di quello che scrivo. La cosa è rassicurante.

  44. Ohi Morgillo, suvvia, che due maroni, Hirst ormai lo cita pure il mio macellaio. Ci siamo illusi tutti: da come redarguiva Binaghi, dava idea d’esser meno incline al vieto e risaputo…

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