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Usus scribendi – Una cosa sui miei racconti

[Quattro nuovi autori che ci spiegano dal di dentro cosa stanno facendo, quale letteratura tentano di produrre. Un pezzo ciascuno. Niente domande, niente sollecitazioni esterne. Il primo contributo è qui. il secondo qui . G.B.]

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di Luca Ricci

Per merito (o colpa?) di Guido Davico Bonino, che nel risvolto del mio primo libro einaudiano mi accusava di originalità, mi sono sentito spesso rivolgere la fatidica domanda: ti reputi originale? Ovviamente è una domanda che porta a un vicolo cieco. Credo a una letteratura che è un impasto diabolico tra conscio e inconscio. Vista l’ossessione da cui scaturisce, la parte di controllo sembrerebbe minima. Eppure questa piccola parte è tutto ciò che abbiamo, l’unica cosa di cui si può (si deve?) parlare. Tuttavia, voglio ribadirlo, la scrittura prima di tutto accade. La narratologia non coincide con la letteratura. Potrei addirittura affermare che se intendiamo per opera O, per letteratura L e per narratologia N, ne consegue:

O – N = L

La letteratura per me è questo. E’ quel che rimane sottraendo all’insieme dell’opera la parte di narratologia. Purtroppo il risultato ottenuto è vago quanto perfettamente inviolabile. Inutile piangersi addosso, meglio passare a qualcosa di più concreto. Un aspetto formale che di certo ha contribuito a rendere i miei racconti quello che sono- fortemente stilizzati, ridotti ai minimi termini, immediatamente riconoscibili-, è la gestione dello spazio. Col passare del tempo (sono al terzo libro di racconti, e un quarto è già in buona parte scritto) ho capito che m’interessava costruire uno spazio narrativo localizzato, che comunicasse un forte senso di claustrofobia. Visto che continuavo a scrivere quasi esclusivamente di coppie o nuclei familiari standard (un marito, una moglie e un figlio), mi sono detto che la casa sarebbe stato il luogo prediletto del mio universo narrativo. Di racconto in racconto, questa intenzione si è poi trasformata in una precisa e sistematica regola interna. Sono dell’idea che uno scrittore debba cercare la propria esagerazione. Portare all’eccesso le sue naturali inclinazioni (se la serialità in narratologia è sinonimo di prevedibilità, io rispondo che il mio fine non è intrattenere il lettore, ma portarlo dentro un’esperienza). Così il libro L’amore e altre forme d’odio è diventato una specie di quadro di Escher, dove una teoria di scalinate porta ad altre scalinate, o alcune finestre si aprono su altre finestre in tutto e per tutto identiche.
Più che in casa, i miei racconti si svolgono al chiuso. L’esterno è una semplice protesi dell’interno. Il fuori è dato dalle terrazze, dagli androni dei palazzi, dai giardini, ma non si oltrepassa mai ciò che compete la casa, ciò che è proprietà di chi abita l’interno. Il finale di Fantasma, quaderno:
Fuori, sistemai la roba sotto la sella della moto. Alcuni aghi di pino erano caduti sulle pedaline. Li tolsi con la suola della scarpa e avvertii come un dolore”.
Quando il marito/narratore esce di casa, percorre il giardino e raggiunge la moto, il racconto letteralmente finisce. Non può esserci racconto, fuori dai limiti spaziali auto-imposti. La soglia di casa diventa allora una discriminante fondamentale, una frontiera che delimita cosa è narrabile e cosa non lo è, quasi un’istanza ontologica. Il secondo capoverso di Sul bordo (titolo significativo non vi pare?):
Poco dopo suonò il campanello e andai ad aprire. Fuori dalla porta trovai un uomo sulla quarantina (…) Indugiammo ancora un po’ sulla porta, senza dire una parola. Poi lo feci entrare. Quello fu il primo errore”.
E’ sempre un errore che spezza l’equilibrio iniziale e favorisce un movimento narrativo. Personaggi irreprensibili non darebbero corso a nessuna storia. In questo caso l’errore (il primo, quantomeno) consiste proprio nel far oltrepassare all’uomo la soglia di casa. Il narratore/marito commette lo sbaglio che genera il racconto. Il finale di Cacche di Dio:
Sulla soglia della porta me ne rimasi in disparte (…) Feci un passo in avanti, affiancandomi a mia moglie: te la teniamo noi”.
Il marito/narratore decide di tenere a vivere con sé la bambina che gli ha appena rovinato il pranzo proprio sulla soglia della porta. La soglia rappresenta spazialmente il momento della verità. Ovvio, tutto si deve decidere prima di uscire dal corpo del racconto. Il finale della Casa di fronte:
Eravamo ancora nell’ingresso, la porta spalancata, quando successe. Dal piano di sopra ascoltammo i passi scendere lentamente. Mia moglie spuntò dalle scale avvolta in uno scialle scuro. A quel punto i bambini erano già scappati”.
Ancora una volta l’epifania avviene sulla soglia di casa. I bambini scambiano la moglie del marito/narratore per l’uomo nero, scappano e fanno terminare il racconto. Ovviamente ci possono essere delle piccole varianti. L’incipit de Il bastone da passeggio:
Quando mi accorsi del bastone, mia moglie aveva già superato il cancello del giardino e stava avviandosi verso la porta di casa. Fui io a richiamarla”.
In questo caso il racconto inizia dall’esterno, ma è un esterno ironico, visto che siamo appena fuori dal cancello, e il marito/narratore è addirittura costretto a richiamare indietro la moglie. Sembra quasi che entrambi i personaggi sappiano che fuori di casa non c’è possibilità di racconto (la moglie zelante viene richiamata dal marito che è anche il narratore, l’unico che possa fare uno strappo alla regola). L’esterno è sempre subordinato all’interno. In Diciassette sedie si legge:
… andai nel capanno a recuperare le sedie. Erano vecchie sedie di legno, che usavamo d’estate per i barbecue all’aperto. Mi ci vollero diversi viaggi per trasportarle dentro tutte”.
Il marito/narratore esce di casa e raggiunge il capanno degli attrezzi. Il suo movimento si limita a un viaggio ripetuto dalla casa al capanno degli attrezzi per recuperare alcune sedie. Non c’è libertà in questo movimento, il personaggio si limita a compiere un tracciato prestabilito, come il cane legato al guinzaglio che non può non tornare dentro la cuccia. Una percezione dell’esterno si ha talvolta grazie alle finestre, ma anche in questo caso il panorama è familiare, è circoscritto alla proprietà privata della casa. In Ancora due minuti si legge:
Mi affacciai alla finestra. La rimessa e la rastrelliera delle biciclette erano immerse nell’oscurità”.
Il marito/narratore guarda fuori e nota soltanto particolari del condominio. Il suo non è uno sguardo panoramico su un altrove. Si guarda addosso, anzi dentro. L’immagine di morte (vede cose inanimate avvolte nell’oscurità) riprende infatti l’immagine della figlia assente, su cui si basa tutto il racconto. L’esterno è un finto esterno, è come uno specchio che riflette l’interno. In Lezione di geografia si legge:
Oltre la finestra della cucina, sospese nell’oscurità, appaiono le luci delle cucine degli altri”.
Fuori dalla proprietà privata non c’è nient’altro che la proprietà privata dei vicini. Un passaggio da La veranda:
Il giardino lo conoscevamo a menadito, era in tutto e per tutto uguale al nostro. Come il resto, l’ingresso, il salotto, le scale che portavano al primo piano, le camere da letto. Le rifiniture, gli infissi, le piastrelle: era stato fatto tutto in serie”.
Villette a schiera identiche, che replicano lo stesso scenario abitativo. La famiglia si vede riflessa nella famiglia che la segue o la precede, e così all’infinito. La veranda stessa è luogo capzioso per eccellenza, una porzione di giardino o una terrazza al coperto, in cui interno ed esterno finiscono per sovrapporsi, per svilirsi a vicenda. Raramente lo spazio si modifica. In Notte di sole si legge:
Ci bloccò il rombo dell’elicottero. Giunse da lontano, ma in pochi secondi era sopra le nostre teste”.
Marito/narratore e vicina sono sulle rispettive soglie di casa (ma davvero?), in una corte (altro luogo spurio, esterno ma racchiuso). Lo spazio in realtà non si modifica, ma sopraggiunge temporaneamente un elemento che proviene davvero da fuori. Le rare volte in cui succede, si registrano pesanti conseguenze narrative: difatti a causa dell’elicottero il gioco di seduzione tra i due personaggi s’interrompe. Esistono alcuni racconti che fanno eccezione. In realtà l’eccezione serve a rafforzare la norma, in qualche modo a sottolinearla, quando non sia solo illusoria. Incidenti si svolge al luna-park, ma la coppia protagonista si annoia come se fosse in casa (non fanno nient’altro che bere e stare in silenzio). A rimarcare il concetto i personaggi sono imprigionati dentro due recinti (il chiosco e l’autoscontro). Stessa dinamica anche per Intimo, in cui il ménage domestico viene spezzato da luoghi di per sé conchiusi, per non dire opprimenti (cinema e supermercato).
Avrei potuto parlare anche del narratore (uso una narrazione che è il contrario dell’indiretto libero, una sorta di diretto prigioniero), o di quanto conti per me l’abolizione dei nomi propri (sostituiti dalle funzioni socio-familiari che i personaggi ricoprono), o del perché utilizzi una lingua media e un lessico ampio (non m’interessa la gratuità linguistica, lo sfoggio della bella prosa o della pagina erudita). Altri aspetti che tento di controllare, mentre la scrittura, lo ripeto, accade. Non c’è spazio, ironia della sorte. Almeno una cosa spero di essere riuscito a dire: preferibilmente non si esce mai di casa, nei miei racconti.

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4 Commenti

  1. Giovanotto,
    lo chieda a Rossano Fiunda cosa sta facendo…
    lo chieda a Glauco Longhi…
    Chieda a Rodolfo Frenia quale letteratura tenta di produrre…
    SE NE HA IL CORAGGIO!!!

    cordialmente,

    Cav. Marcello Stacchia

  2. Nella mia umile opinione, l’autore tenta un’analisi semiotica dei suoi stessi scritti, ma senza utilizzare la varietà e complessità degli strumenti semiotici e soprattutto mancando l’obiettivo fondamentale di un’analisi semiotica del testo: ovvero usare gli strumenti per dire qualcosa, per spiegare qualcosa. Che nei suoi racconti non si esca di casa è palese a chiunque li legga…

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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