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La pozza d’acqua

di Linnio Accorroni

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“Bonjour. Je voudrais préciser que je préfère les questions d’ordre personnel, indiscrètes même, aux questions techniques. Donc je commence” (Conferenza di Sophie Call, Università di Tokio, 1999).

Della storia di Narciso tutti ci ricordiamo il finale. Ma, in realtà, a leggere con attenzione Ovidio, scopriamo che Narciso si trovò di fronte alla pozza nella quale, per la prima volta, si autoriconosce e subito dopo muore perché, in maniera intransigente, si era sempre negato al mondo, preferendo la quiete algida di una vita intransitiva, separata dagli altri. Ovidio ci racconta infatti che, prima di (ri)trovarsi di fronte allo specchio d’acqua, Narciso aveva rifiutato fanciulli, giovinette, ninfe, compresa la sventurata Eco. Scrive a questo proposito Boatto nel suo Narciso infranto. L’autoritratto da Goya a Warhol: “La pozza d’acqua nella quale Narciso va a incappare non è un caso, ma è il frutto della vendetta di Afrodite e Nemesi, indispettite per l’insensibilità erotica dimostrata dal ragazzo”. A pensarci bene, c’è come una morale implicita in questo mito: solo la completa cecità di fronte al mondo, solo uno sdegnoso ritrarsi da esso può consentirci la conoscenza di noi stessi, la rivelazione di ciò che siamo. Possiamo specchiarci, rifletterci e riconoscerci solo se voltiamo le spalle al mondo. È così che fa il Narciso che Longhi attribuì a Caravaggio, a Palazzo Barberini: le spalle rivolte al mondo, le mani saldamente poggiate a terra, il viso assorto nella pozza. Niente attorno a lui, se non la desolazione di uno specchio d’acqua nel quale un adolescente rapito contempla la propria bellezza.

Noi non ci conosciamo. Io non so niente di me stesso. Ma so però chi è l’altro: alzando lo sguardo e scrutandolo, posso vedere con compiuta chiarezza i suoi occhi, i suoi capelli, la piana della fronte, la curva discendente degli zigomi, la magrezza o il turgore delle sue labbra. Io di me conosco appena delle semplici propaggini, qualcosa che comunque posso percepire meglio solo se abbasso lo sguardo. Se lo alzo, infatti, colgo solo ombre, macchie che promanano comunque da me. Se l’abbasso, invece, posso vedere meglio: dita che impugnano una penna o una forchetta o scrivono su una tastiera, un pezzo di busto, le gambe attaccate grottescamente ad esso, i piedi coperti da scarpe, qualche ombra baluginante che rimanda al profilo della mia faccia. Basta, nient’altro. Questa povertà di dettagli, questa sostanziale inconsapevolezza è come una specie di cecità autoriflessa, introversa, interiorizzata. Se poi mi guardo allo specchio per riconoscermi, spesso esso mi rimanda il volto di un uomo che non mi piace e non corrisponde a ciò che vorrei essere: i capelli ormai sempre più radi, le occhiaie profonde, i baffi smorti. In ogni caso nello specchio non riesco mai a vedermi come gli altri davvero mi vedono: non saprò mai cosa sono autenticamente per loro, cosa vedono letteralmente in me. Anzi, se poi en passant dicono qualcosa sui miei tratti fisiognomici, constato con sorpresa che le loro osservazioni restituiscono di me un’immagine così poco aderente a ciò che io ritengo di essere. Quando mi guardo allo specchio poi vedo comunque un’immagine dissonante rispetto a quello che autenticamente (?) sono. Rovesciata da destra a sinistra la mia figura, come se lo specchio avesse fagocitato il mio “io vero” e ne avesse risputato un altro, speculare e inversamente simmetrico, al suo posto.

Rovesciando Narciso, quindi, si può dire che l’unica forma di conoscenza che ci è concessa è quella verso gli altri. Magari possiamo tentare di costruire la nostra autografia, partendo proprio da loro, attraverso ciò che veniamo a sapere su di essi: come se quei tasselli decomposti e sminuzzati di esistenza altrui, quei frammenti biotici potessero aiutarci a costruire un qualche precario simulacro di un’identità nostra. Questo è ciò che, in molte delle sue azioni fra vita e arte, tenta di fare l’artista francese Sophie Call. Nel 1979, alle origini della sua carriera, invita 28 persone a succedersi per 8 giorni nel suo letto con turni scanditi e regolari di 8 ore ciascuna. L’artista li intervista e ne annota riflessioni e pensieri. Nel 1980, in Suite vénitienne, segue uno sconosciuto, Henry B., da Parigi fino a Venezia con l’intento di ricostruire la vicenda intima e privata di uno di cui non sa assolutamente niente. Nel 1981, l’opera è l’Hotel: si fa assumere come cameriera in un albergo di Venezia per spiare quotidianamente la stanza degli ospiti. Ogni particolare è debitamente annotato e fotografato: ciò che resta nella stanza è simile a reliquie che servono a inventariare una microstoria della quotidianità. Nel 1983, è la volta di Le carnet d’adresses. Sophie Call trova un’agendina per strada e decide di ricostruire l’identità del suo proprietario intervistando i nomi che sono presenti nella rubrica dello sconosciuto. Per tutta l’estate sul giornale “Liberation” apparvero le cronache, i racconti, i frammentari tasselli che servivano a ricostruire la personalità dell’incognito proprietario dell’agenda, che, in quel momento, si trovava in Lapponia. Tornato dal viaggio e reso edotto su ciò che era accaduto, questi si infuriò a tal punto da non consentire successive pubblicazioni integrali delle cronache suddette e ottenne, come diritto di replica, che su “Liberation apparisse”, come perfetto contrappasso a ciò che era stato fatto della sua identità, un nudo di Sophie Call.

‘Prenez soin de vous’ (Abbia cura di sé) era il titolo che contornava il rosso carminio del Padiglione francese, allestito da Sophie Call, alla Biennale di quest’anno. Era quella scritta falsamente benaugurale la clausola finale della mail con la quale un suo fidanzato l’aveva ‘congedata’: “Ho ricevuto una mail di rottura. Non ho saputo rispondere. Era come se non fosse destinata a me. Terminava con le parole: Abbia cura di sé. Ho preso la raccomandazione alla lettera. Ho chiesto a 107 donne, scelte per il loro mestiere, di interpretare la lettera da un punto di vista professionale. Analizzarla, commentarla, interpretarla, ballarla, cantarla, sezionarla, esaurirla, capire per me, rispondere al mio posto. Un modo per concedersi il tempo di rompere. Con il mio ritmo. Avere cura di me.” Nell’installazione, che le cronache dicono essere stata molto frequentata (nel giorno in cui sono stato era strapiena) vi sono dei video in cui donne celebri e sconosciute, studentesse e cartomanti, ballerine e avvocatesse, attrici e insegnanti, una campionessa di tiro con la carabina, una giocatrice di scacchi, una cartoonist, una sessuologa, una psicanalista, una talmudista, etc… analizzano, scompongono, frammentano, criticano, ironizzano su quel testo in una serie di irresistibili variazioni sul tema. Che, a pensarci bene, è racchiudibile, anche per questa performance in cui la vita tracima in gesto artistico, in una formula che può racchiudere tutta intera la carriera di Sophie Call: Io è gli altri.

Conservo da due anni una pagina di Repubblica del 22 novembre 2004. Si parla del suicidio a soli 36 anni di Iris Chang, l’autrice sinoamericana di Lo stupro di Nanchino, un’opera che, dopo decenni di silenzi e omertà, ha narrato una delle pagine più tragiche del secondo conflitto mondiale: il massacro di 260000 civili cinesi in una sola città da parte dell’esercito nipponico. Furiose polemiche, divieto di pubblicazione del libro in Giappone, un paese incapace di fare i conti con la propria storia. Iris Chang, a seguito delle offese e degli attacchi ricevuti dopo il primo libro, ne stava preparando un altro, sui lager giapponesi della seconda guerra mondiale. All’uopo, aveva realizzato numerose interviste realizzate con i reduci americani dei campi di prigionia. Secondo il marito e il giurista Ignatius Ding che collaborava al suo progetto, la sua depressione è stata aggravata dalla frequentazione quotidiana con le vittime della tortura.

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11 Commenti

  1. Bel pezzo, con una chiusura che mi ha ghiacciato. Conosco la storia di Nanchino per averla recentemente udita da un appassionato di storia del Novecento durante un convegno. Il relatore ha commentato il suicidio della Chang con una frase molto semplice, più o meno: “Dopo aver visto cosa può fare l’essere umano, non so quante persone mosse da sensibilità e giustizia non crollerebbero”.
    L’orrore dell’essere umano non viene espiato in nessun capro. E’ ben saldo al nostro interno. Il libro non ho ancora avuto il coraggio di leggerlo. Tuttavia, sono convinta, c’è anche molto altro nel vivente, una bellezza inesauribile. Forse ciò che si deve davvero imparare nel cammino della conoscenza non è soltanto la profondità dello sguardo, ma anche la capacità di distoglierlo, non per non vedere, per timore o vigliaccheria, ma per vedere anche altro. L’autore di questo brano cita il mito di Narciso. A me viene in mente quello di Marsia, la pelle scuoiata, esposta. La zona liminale. Il tessuto in cui noi ci mostriamo e siamo percepiti sebbene spesso con intenzioni diverse dai risultati…

  2. Sophie Call artista di successo?
    E’ la miglior testimonianza del fatto che la cultura occidentale non sa più distinguere tra conoscenza e stupro. Per poi, ipocritamente, indignarsi delle violenze sessuali o delle baby gangs.

  3. Genocidio della razze “altre” è lo scopo ultimo, il percorso solito e già abusato. I Cinesi per esempio non si riconoscono nella “razza” tibetana non solo perché gli occhi sono più o meno a mandorla ed allora hanno messo in atto soltanto una tra le innumerevoli altre tipologie di “genocidi”. Nella fattispecie cinese poi, volendo continuare a parlare di “pozze d’acqua”, si può dedurre che i tibetani hanno saputo sviluppare una propria peculiare evoluzione verso una “modernità interiore” in contrasto con la ricerca della “modernità esteriore” considerata dai cinesi di questi tempi e anche in occidente l’unica e vera modernità. Il valore inestimabile della cultura di “razza” tibetana fa da contrappunto alla “nostra” e a quella dei cinesi, perché proiettata verso l’interiorità allo stesso modo in cui noi diamo invece peso alle cose esteriori. Ora paradossalmente i cinesi sono in linea con noi narcisi. E si fermano al pelo dell’acqua. E gli atlantici, ovvero quelli che rispetto alla pozza d’acqua stanno dentro, in questo caso la “razza” tibetana in quanto portatrice di una visione “altra”, potrebbe fornirci preziose indicazioni per aiutarci a ristabilire un equilibrio sconquassato perché follemente travolto dall’eccessivo materialismo. E’ una questione di vita o di morte. E’ la nostra stessa vita o morte. Ma a quanto pare già è pur palese chi ne avrà la meglio. Non certo il “meglio”.

  4. a me piace la sfumatura minima e forse anche il diverso modo di vedere.
    a me la venezia di sophie call non è piaciuta. il padiglione francese l’ho trovato invece un immenso altare di sé, dove l’altro è una parte di sé, un’autobiografismo che non si libera.
    un’arte degli anni ottanta, con il femminile ancora al femminismo.

  5. Lo scritto mi ha fatto tornare in mente una vecchia formula: “occuparsi di sè”. Perfetta perchè astratta: formula, appunto.
    Nella vita tutto è più complesso, parziale, difficile: siamo sempre preoccupati (pre-occupati) dalle fantasie e raramente riusciamo a distaccarci dal mondo.
    A proposito di Sophie Calle: pubblicizza il dolore per alleviare le pene che sono conseguite al distacco, o per dare una “sonora” lezione al suo ex, o per realizzare una rivincita dell’arte nei confronti della vita? O…

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