Etere 1 : l’antichità.

di Antonio Sparzani

i cinque elementi fondamentali: etere, acqua, aria, terra, fuoco

La storia di cui vorrei raccontarvi alcuni episodi corre su due rotaie, spesso parallele: l’una, quella della poesia e della letteratura, che continua a vedere l’etere come qualcosa di vago e misterioso, ma che in questa vaghezza trova la sua sottile bellezza, e l’altra, quella dei tentativi che ha messo in atto la scienza per cogliere finalmente, per serrare tra le tenaglie di una definizione precisa e quantitativa, questo inafferrabile elemento, che continuamente è stato congetturato esistere, ma che altrettanto continuamente è sfuggito ad ogni presa. Perché queste rotaie non sono poi soltanto due e non sono neppure tanto ben distinte: anche la filosofia e la medicina mescoleranno infatti i loro saperi nella trama, stranamente tenace, dell’etere.

Nei poemi omerici, punto cardine d’irradiazione della nostra cultura, l’etere è femminile, ή αιθήρ, (hē aithēr):
la parola allude etimologicamente al fuoco, il verbo aíthein vale ardere, bruciare, era il ‘luogo naturale del fuoco’, che appunto, tutti lo possiamo constatare sulla terra, va verso l’alto, perché tende al proprio luogo naturale. Questa era la dottrina aristotelica per eccellenza, i gravi cadono perché tendono al loro luogo naturale, che è la Terra, sempre la pregnante Terra-suolo, Erdboden, come avrebbe detto Husserl più di due millenni dopo.

L’etere compare più volte in Omero, sfondo naturale di avvenimenti che riguardano gli dèi dell’Olimpo: nel canto XIV dell’Iliade l’intrigante Era cerca di convincere, con la corruzione, il Sonno ad addormentare Zeus, così che questi non si accorga dell’aiuto ch’ella progetta di fornire ai Greci; il Sonno in un primo tempo nega l’aiuto, perché ben si ricorda di un passato episodio in cui egli, in un’analoga congiuntura, si era attirato l’ira di Zeus:

“… ma Zeus si destò e montò in furia,
maltrattando gli dèi nel palazzo, e me soprattutto
cercava; dall’etere certo m’avrebbe scagliato a sparire nel mare,
se non mi salvava la Notte, che doma uomini e dèi.

(Il. XIV, 256-59)

L’etere abita dunque la regione dalla quale Zeus può scagliare i suoi strali — e del resto già
in altri luoghi dell’Iliade un epiteto di Zeus è quello di ‘abitatore dell’etere’. Ma, in un secondo tempo, il Sonno, opportunamente convinto da Era che gli promette con solenne giuramento di concedergli in sposa, quale ricompensa, ‘una delle giovani Grazie’, ditemi voi se non è corruzione assai moderna questa, si prepara ad eseguire il compito pattuito, e per far ciò, trova un opportuno appostamento:

Ma qui s’arrestò il Sonno, prima che gli occhi di Zeus lo vedessero,
montando sul pino più alto che mai sopra l’Ida,
cresciuto gigante, per l’aria salisse nell’etere:
qui s’appollaiò, nascosto dai rami del pino,
sembrando l’uccello canoro…

(Il. XIV, 286-90, trad. R. Calzecchi Onesti)

Si sale dunque all’etere passando attraverso l’aria; rarefacendosi e purificandosi questa diventa una sostanza più trasparente e adatta alle dimore degli dèi, che palesemente non avevano problemi di respirazione.
In tutta la letteratura greca antica l’etere è una naturale presenza, quelli che lo desiderano possono ad esempio andarsi a leggere, praticando la suprema arte dell’otium, oltre a Esiodo, Theog., vv. 123-25, in cui si assiste alla sua creazione (figlio della Notte e fratello del Giorno), il folgorante inizio della prima Olimpica di Pindaro (vv. 1-8, dove pure l’etere è femminile, un’eccezione nella letteratura post-omerica) e soprattutto l’apocalittico finale del Prometeo legato di Eschilo (vv. 1080-93), nel quale “L’etere sconvolto col mare si confonde.”, perfino l’etere perde la sua inossidabile e trasparente purezza.

C’è però un ultimo luogo, nei testi dei tragici greci, che non voglio dimenticare, in cui l’etere è il tramite meraviglioso di un magico e tragico volo: quello che trasporta Ifigenia dalla terra di Aulide alla selvaggia e remota terra di Tauride. In Aulide il padre Agamennone era pronto a sacrificarla, si sa che la ragion di stato viene prima della famiglia, per far uscire le navi greche cui un’interminabile bonaccia impediva di raggiungere il mare di Troia; Calcante, l’indovino, aveva infatti predetto che solo il sacrificio ad Artemide di Ifigenia avrebbe consentito il proseguimento del viaggio. Di forte concisione drammatica è il racconto di Ifigenia stessa, che apre l’Ifigenia in Tauride di Euripide:

Grazie alle arti di Odisseo
mi strapparono alla madre, per nozze con Achille.
Arrivata in Aulide, misera, sulla pira
in alto sollevata, con la spada ero uccisa;
ma mi sottrasse Artemide agli Achei
sostituendo un cervo al mio posto, e attraverso l’etere luminoso
mi trasportò a dimorare in questa terra dei Tauri.

(Ifig. Taur., vv. 24-30, trad. a.s.).

‘Ero uccisa’ dice letteralmente Ifigenia, ekainómēn, per sottolineare l’orrore del gesto del padre, il gesto viene eseguito nella coscienza prima della sostituzione col cervo sacrificale. Artemide decide poi di sottrarre Ifigenia e di trasportarla, attraverso ‘l’etere luminoso’ in Tauride. Notate di passaggio che il topos del sacrificio d’un figlio, evitato all’ultimo istante da una divinità, era diffuso nell’antichità mediterranea: valga per tutti l’episodio biblico di Abramo e Isacco.

Anche nella latinità l’etere impersona quanto di più puro e trasparente sta in alto nel cielo, sopra la regione dell’aria. Un passo di intensa poesia è quello del secondo libro delle Georgiche di Virgilio nel quale si tratta della coltivazione della vite, e dell’opportunità di seminarla con l’approssimarsi della primavera:

La miglior semina delle vigne è quando, nella
primavera rosseggiante, candido è giunto l’uccello odiato dalle
lunghe bisce, o verso i primi freddi d’autunno, quando il sole
impetuoso non tocca ancora l’inverno con i suoi cavalli, ma l’estate
è ormai andata. La primavera, appunto, giova al fogliame dei boschi,
giova alle piante; a primavera è turgida la terra e desidera il seme
generatore. Allora il padre onnipotente con piogge fecondatrici
discende, Etere, nel grembo della sposa lieta, e grande, congiunto al
grande corpo di lei, tutte le creature vivifica.

(Georg., II, vv. 319-327, trad. A. Barchiesi).

Qui è il padre Etere, fortemente divinizzato, e dotato di grande potere generatore. Il vuoto è stato riempito di una sostanza non più solo materiale, in qualche modo è tornato ad essere una creatura divina, come nella teogonia esiodea.

Comincia così la storia di un’idea, e insieme di una parola, che interpreta la nostra esigenza di dare una sostanza e un nome a quel vuoto che percepiamo intorno al nostro mondo.

Non possiamo credere che sia proprio un vuoto; ce l’ha insegnato l’aria: non la vediamo direttamente, ma la percepiamo non appena muoviamo le mani, o non appena prendiamo coscienza del nostro respiro; e dunque anche per quel vuoto, siamo disponibili a pensare che, anche se non lo vediamo, qualcosa ci sia là fuori, che abbia qualche tipo di sostanza e qualche tipo di azione sulla nostra vita, o almeno qualche ruolo nell’economia del cosmo.

Con questa problematica del dare un nome e una sostanza alla materia del cielo molti si sono cimentati: questo versante più scientifico rispecchia in modo più esplicito un’esigenza di conoscenza del mondo; e su un tale versante già la sapienza presocratica prima, e aristotelica poi, propongono varie soluzioni. La più articolata è naturalmente quella di Aristotele, secondo il quale l’etere costituisce un vero quinto elemento [1] – che egli colloca in realtà al primo posto – accanto ai quattro ben stabiliti dalla tradizione empedoclea precedente, e cioè acqua, aria, terra e fuoco. Aristotele dedica una consistente parte (i capitoli 2, 3 e 4) del I libro del De Caelo a dimostrare l’esistenza di un ‘elemento supplementare’ che egli chiama il ‘corpo primo’, e che è il costituente della materia siderale, ciò che riempie i cieli. Il ragionare di Aristotele procede schematicamente attraverso questi punti:

a. Un corpo naturale è caratterizzato dal proprio movimento locale.
b. Ci sono solo due tipi di movimenti semplici, il rettilineo e il circolare, perché ci sono solo due tipi di linee semplici, la retta e la circonferenza.
c. Un movimento semplice è sempre la proprietà di un corpo semplice.
d. Esiste dunque necessariamente un corpo semplice che si muove naturalmente di moto circolare.

Fin qui l’argomentazione è evidentemente basata su considerazioni – geometriche e logiche – apodittiche e non osservative; i riferimenti all’osservazione diventano un po’ più chiari quando si osserva che terra, acqua, fuoco e aria eseguono movimenti rettilinei, in direzioni verticali (verso l’alto e verso il basso), mentre si associa il movimento circolare del corpo primo a quello della volta celeste. Aristotele infatti, dopo aver dimostrato l’esistenza di un tale corpo, osserva che ad esso si deve attribuire una perfezione ben maggiore di quella dei corpi che sperimentiamo sulla Terra, perché la linea che descrive, la circonferenza, è ben più perfetta della linea retta. Si tratta dunque di un corpo più perfetto e `divino’ degli altri. Su questa perfezione Aristotele si dilunga, fino a mostrare che esso non possiede né pesantezza, né leggerezza, né alcun’altra specie d’alterazione, quale generazione o corruzione, o accrescimento o diminuzione; e tutto ciò perché qualsiasi alterazione presuppone l’azione d’un contrario, mentre il movimento circolare non ha contrario, circostanza anche questa cui Aristotele dedica una lunga dimostrazione. La stessa etimologia del greco aither è da Aristotele, erroneamente, ricondotta alle parole aeì theín, che valgono ‘sempre correre’, a ribadire questa sua caratteristica fondamentale, quasi definitoria.

[1] da cui la denominazione del latino medioevale quinta essentia, continuata nell’italiano quintessenza, venuto a significare, per gli alchimisti, la parte più pura di una sostanza, ottenuta dopo cinque distillazioni, e, nella lingua contemporanea, comunque la parte più pura e più profonda di qualcosa.

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14 Commenti

  1. mi permetto di trascivere questa poesia, leggera forse più dell’etere…
    Lieve offerta di Antonia Pozzi

    Vorrei che la mia anima ti fosse
    Leggera
    Come le estreme foglie
    Dei pioppi, che s’accendono al sole
    In cima ai tronchi fasciati
    Di nebbia.

    Vorrei condurti con le mie parole
    per un deserto viale, segnato
    d’esili ombre –
    fino a una valle d’erboso silenzio,
    al lago-
    ove tinnisce per un fiato d’aria
    il canneto
    e le libellule si trastullano
    con l’acqua non profonda.

    Vorrei che la mia anima ti fosse
    Leggera,
    che la mia poesia ti fosse un ponte,
    sottile e saldo,
    bianco-
    sulle oscure voragini
    della terra.

  2. Molto bello questo articolo che mi suscita intrecci e ricordi. Mi permetto di aggiungere il mio amato Avicenna, padre della medicina.

    Dice Avicenna che l’ispirazione spirituale del cuore, tutt’uno col misurato, naturale calore d’un cuore quieto e abbandonato – sole e luna in armonia fra loro – muove con con lena soave i sentimenti acquei e plastici che nutrono e dolcemente ravvivano la carne terrena. Nelle tradizioni autentiche si insegna che la somma conoscenza spirituale conduce alla compiuta quiete, al respiro da elefante, intrattenendo uno spirito senza turbamento, simile a quello dell’elefante o del fanciullo sano. A nulla serve l’intelletto se non riconduce a questo stato di natura, talché si dice che il cuor contento, il fuoco uguale che genera una lena senza affanno, è il fine dell’intelligenza e la sua perfetta incarnazione.

    Questa quiete è per Avicenna la quinta essenza o etere, simbolaeggiabile nel corpo dai nervi, dal seme, dall’occhio, dai capelli (pervasi di igneo zolfo)

    ma volevo chiedere a Sparzani se aveva avuto modo di approfondire la questione che Lazlo ha posto in relazione all’etere, che lui dice essere il vuoto meccanico-quantistico.

    Io penso che prima o poi anche in medicina l’ipotesi elettromagnetica, che a me sembra meglio che da Laszlo, portata avanti da Emilio Del Giudice, verrà provata. Ancora, in biologia e biochimica, vale il modello di Monod, ma si mostra assolutamente insufficiente e inadeguato nello spiegare le reazioni chimiche, né mi sembra l’ipotesi termochimica, cioè l’idea che l’energia dei sistemi biologici scaturisca da origine termodinamica, sia sostenibile. Invece il QED mi sembra aperto a rivoluzione nella biologia futura. La fisica classica, come tu saprai, esclude questa possibilità.

  3. Antonio questo tuo articolo mi ha emozionato. La scrittura al pari del suo argomento scivola sulla pagina e la lettura ha qualcosa dl volo più che della caduta. E pensare che si dice a vol d’uccello della pagina quasi letta distrattamente, mentre invece è proprio in quella vertigine – che non può propriamente chiamarsi vuoto, ma solo paura del vuoto- che la parola diventa piena. Lo dedicherai un paragrafo all’elettricità?
    effeffe

  4. … Bello, stimolante… mi viene da pensare allo sforzo dell’architettura di rifare la forma del cielo e della luce (nel Pantheon, ad esempio).

  5. Be’ sparz, come sai meglio di me, adesso abbiamo la materia oscura; rimane peraltro godibile il tuo approccio da storico della scienza e seguiro’ la serie. Buon lavoro!

  6. Possiamo immaginare l’etere come uno stato parallelo degli elementi (giacché si sa che non esistono >quattro elementi< aristotelicamente parlando, ma piuttosto diversi stati della materia, e i processi che segnano il passaggio di stato, il fuoco uno di essi), così vicino alla “coscienza atomica” di leariana memoria da far venire il sospetto che sia semplicemente il tempo (essendo che noi ci siamo intrappolati dentro, vederlo come un quinto elemento quando già duriamo fatica con la quarta dimensione è ovviamente un macello).

  7. Articolo di una maestosità cosmogonica e siderale!
    L’etere secondo la tripartizione funzionale di Dumezil è la sede della sovranità magico-sacerdotale.
    La cosa curiosa è che secondo un vocabolario etimologico anche la parola “terra” proviene da ardere, avere sete.
    (da”tersa”vicino a torreo, durst, thirst).
    “Et bois, comme une pure et divine liqueur
    le feu clair qui remplit les espaces limpides”.
    Se poi non disdegni nuotare in un altro elemento inafferrabile ti consiglio la lettura di un mio post, la mia modesta recensione di un bellisssimo libro

    http://www.ilportico.ilcannocchiale.it/post/1639708.html

  8. Un piacere vero a leggere un articolo che trasferisce il lettore nell’Etere, regione celeste. La lettura dei testi fondamentali dell’antichità è di una bellezza chiara. Mi piace pensare all’Etere in termine femminile, ma lo vedevo neutro o ricettacolo dell’anima/animus.
    L’idea del sonno/ sogno ha un valore divinatorio, idea seducente.
    Una bella lettura che inizia la giornata e la rende leggera, agile.

  9. @Prodan, insomma, c’è un catenaccio elastico, però all’esame finale si portano tutti gli Etere N, con N=1,2,3,…. Anche tutti i puntini.
    Grazie a tutti, Furlen in particolare.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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