Metempsicosi

janis.jpgdi Daniela Matronola

“…take another little piece o’ my heart babe / take’t take’t…”

La mia amica Marisa, nel corso di Letteratura Inglese per l’esame del primo anno, si innamorò del suo professore. E non fu un amore a distanza, cioè una di quelle infatuazioni che generano adorazione silenziosa e abbandoni sognanti, estasi e distrazioni dalla realtà – il suo fu un vero amore, perseguito in modo discreto e tenace finché aveva avuto senso, poi trasformato in un ricordo caro, e lui, il professore, Edoardo, in una guida intellettuale, in un punto di riferimento.
Comunque Marisa aveva una vera passione per Janis Joplin – e anche il suo professore. Perciò questa era una loro patria comune, come la poesia dei romantici inglesi, specie John Keats. Janis Joplin piaceva a Marisa perché era una creatura tenace e fragile, una vera contraddizione vivente. Non era bella, e non faceva nulla per diventarlo. Spesso saliva sul palco ubriaca, e fumava come un uomo. Aveva i capelli sempre arruffati. In genere sporchi. O mèzzi dell’appiccicosa umidità che rende micidiale certe città americane, New York per esempio, d’estate. Ciò che rendeva Janis Joplin invidiabile agli occhi di Marisa era questa sua capacità di diventare un’altra – di trasformarsi. Portava gli occhiali, fatto curioso per un’artista poprock. In genere è piuttosto raro che i rockers li portino (viene in mente Elvis Costello, ma Sting per esempio li porta solo quando fa le prove, poi sul palco canta… alla cieca) a meno che non ne facciano un ulteriore strumento di stile o travestimento collezionandone di vistosi, o strani, o per qualunque verso notevoli.
Marisa s’incantava a sentirla cantare, Janis Joplin, e raramente poteva vederla: ai tempi di questa sua fissa, cominciava appena a infittirsi l’offerta di videoclip, e a un certo punto si poté vederli quasi regolarmente sul canale dedicato, MTV – che Moravia teneva perennemente acceso, la mattina, mentre scriveva.
Marisa una volta aveva discusso a proposito di Janis Joplin con LUI. Col suo professore: con Edoardo.
Edoardo sapeva tutto di lei: della Joplin, appunto. Ma anche di Woody Guthrie, di Bob Dylan, di Joan Baez.
Sapeva tutto della canzone di protesta dei neri e degl’ispanoamericani. Per dire, le aveva parlato a lungo di certi blues, citandone a memoria i versi, e traducendoglieli su due piedi, come faceva quando teneva i suoi programmi alla radio su RaiTre – aveva questo potere magico di raccontare le canzoni come fossero testi poetici, vere storie in versi, e in quel suo modo di interpretarli come poesia vera, come testi di valore letterario, soprattutto come degne espressioni civili, sembrava, Edo, davvero un … aedo (!): un paterno educatore. Insomma lei buttò sul tavolo la propria passione per Janis Joplin, e un po’ provò a servirsi del testo di quella canzone, A Piece Of My Heart, per fargli capire che lui la stava inebriando e spellando al tempo stesso, e Edoardo sullo stesso tavolo, mentre consumavano i loro tè fumanti (per lui: un darjeeling – mentre lei stava gustando un caldissimo earl grey), calò tutte le sue carte, tutto quel che sapeva, cioè più di quello che Janis Joplin, povera creatura, avesse mai saputo di se stessa e della propria musica.
Janis cantava spesso a occhi chiusi e sempre un po’ torcendosi – Marisa la trovava irresistibile quando con voce arrochita s’inarcava sul palco, portata dal rock, quasi ingoiando il microfono, e sembrava proprio viaggiare da qualche parte nella mente, sembrava veleggiare e librarsi, come una sonnambula. In quei picchi massimi di estasi canora, che a Marisa parevano momenti sommi di arte impareggiabile, Janis viveva coi suoi fantasmi, incontrava il suo amore disperato, proibito e impossibile – gridava la sua passione con la voce più sottile che le riuscisse scovare, la più ultrasonica possibile pur di raggiungere il suo amato ovunque fosse: magari proprio nella trance in cui si trovava, spedendogli il proprio trillo dolcissimo da usignolo, il suono più dolce e cristallino che ugola femminile potesse intonare. Chiudeva gli occhi, Janis, per vedersi bella, magari senza occhiali, con una pelle luminosa e non grigia come l’alcool e il fumo gliel’avevano ridotta, e con una fulva capigliatura fluente, morbida, e non quel castano spento, anonimo, arruffato dall’umidità, ingrassato dalla sporcizia e dalle caligini di varia origine cui era esposta, per esempio negli ambienti fumosi di certi locali dove andava a esibirsi, per inviare il suo messaggio in bottiglia al suo amore lontano, di certo non mescolato ogni sera al pubblico che andava a sentirla. Nutriva, Janis, un sogno sfiancante: che quei richiami scorticati inviati nell’etere, per qualche miracolo della fisica, transitassero fino a lui; che fosse l’aria a recapitarglieli – vincendo ogni ostacolo, ogni diaframma; che la sua voce, come una preghiera, comunque e ovunque pronunciata, ruzzolasse fino al cuore di lui, e lui fosse da qualche parte, pronto, con le antenne inalberate, a riceverla, a gustarla, e per suo tramite ad amare proprio lei, proprio Janis.
Aveva l’anima nera di una vera blacksinger, Janis, la disperazione autentica di Billie Holiday, la voce rauca del soul. Aveva tutto per essere adorata come una maudite del rock, ma a conti fatti non aveva niente – neppure se stessa. Giù dal palco era una donnina anonima, spenta, occhialuta – e guardandola, salvo gli occhiali, ma, chiome sigaretta e drink inclusi, Marisa certe volte notava, tra sé e Janis, una straordinaria, quasi metempsicotica somiglianza.

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5 Commenti

  1. e come non ricordare l’aggressività, la rabbia, di quegli anni ribelli gridati nel vento, la vita aggrappata agli accordi, strappati alla sua voce roca, indimenticabile.

  2. Questo articolo colma in qualche modo la mia colpevole “dimenticanza” del rock. Quale vagamente snob intellettuale ero a vent’anni, saltai a piè pari il rock per approdare al mondo della classica a ed del jazz, ritenuto, quale musica afroamericana per eccellenza, il nido più autentico del vessati dal mondo.
    Ora apprendo che la fragile Janis, che sapevo morta per droga come la maggior parte delle stelle del rock ( e anche di molto jazz) aveva molto più da dirmi di quel che seppi ascoltare all’epoca.
    Grazie a Daniela e alla sua bella pagina!
    Ti seguo!
    Sus

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sergio garufi
sergio garufihttp://
Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.
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