Glavaise, 100 euro a notte

 

di Isabella Borghese

L’appuntamento con Glavaise era alle 21, 30 al capolinea del 93, al Verano. Glavaise era a Roma da solo un anno. Di lei i sampietrini della Tiburtina e il bar in via De Lollis raccontavano che aveva una sorella in Inghilterra dal 1993. Forse era ancora lì, ma poi chissà, era ancora viva?, Glavaise non la sentiva da tempo. Ricordava solo che era scappata in Inghilterra perché nel suo paese non sapeva se sarebbe morta per una coltellata o un colpo di pistola, e non voleva nemmeno nominarlo il suo paese, non diceva mai a nessuno le sue origini.

Glavaise invece lavorava tutto il giorno alla stazione Termini, tirava avanti tra l’odore della rosticceria, mischiata a quello proveniente dal cinese e al fritto americano. E tra il piscio stantìo di qualche senza fissa dimora e qualche nigeriano con i cd masterizzati o il napoletano col borsone pieno in spalla e tre paia di calzini in mano da vendere a soli cinque euro. E Glavaise invece era occupata nelle mura di un negozio che a ritrovarsi dentro sono tre metri quadri di parrucche sintetiche, lacche, mollette, code che son obbrobri, gel, tinte, ricci da far infoltire i propri capelli. E poi ancora cerchietti tra i più disparati ed extension da dar via come naturali anche se a prezzi competitivi. Glavaise per sopravvivere a Roma ci passava la giornata a servire la clientela lì dentro, dalle 9, 00 alle 21, 00 circa. Ed era tra parrucche e code che io l’avevo conosciuta la prima volta, in quel pomeriggio che Juana doveva acquistare il caschetto color prugna da indossare per l’imprenditore esigente che veniva da Torino solo per farsela per l’intera notte. In quel negozietto alla stazione Termini in poche ore transitavano varietà di volti con ritmi di vita differenti: dalla ragazzetta del liceo che seguiva la moda degli elastici con coda di cavallo al seguito, al trans che sceglieva differenti parrucche a seconda della notte o dello spettacolo, alla Berta che per ogni show drag cambiava mise e acconciatura. E poi c’era anche chi, per semplice vanità o per un errore di un parrucchiere optava per un’extension; una reazione a quella crisi post-taglio e così in quelle mura fissava un appuntamento in casa propria con Glavaise. Io su consiglio di Juana appunto ero tra questi.

Già, Juana mi aveva parlato di Glavaise tra le lacrime nevrotiche di quella notte che i capelli, per piangere, erano un’ottima scusa e avevo chiesto così di rifugiarmi da lei per dormire nel soppalco del suo locale dietro via Nazionale, su quel materasso lercio dove qualcuno durante le serate si toglieva qualche sfizio. Lo stesso materasso che io per quella notte invece sceglievo per coricarmi in compagnia di Juana ma coprendolo con un doppio lenzuolo. E mentre mi lamentavo assumevo toni secchi, pungenti, doveva avere più cura di sé Juana, vivere nella pulizia, non tra le piattole. E lei neanche mi ascoltava, preferiva borbottare e cambiare discorso: «Glavaise quando chiude negozio non batte, Glavaise farsi dare solo 100 euro e stare tutta la notte a casa di qualcuno, a fare treccine, cucire extension. E non fare stronza che piangi per due capelli in meno e corti, domani andiamo da Glavaise, io pure deve comprare altra parucca». Ecco come ero finita da Glavaise, io. Quando rivoli d’isterìa si impossessavano di me per quell’errore di Claude, che a raccontarmi le sue marchette a monte Caprino e la sua cura ormonale si distraeva e mi faceva un taglio maschile che riportava ad Arthur Fonzarelli. Peccato che io avessi specificato un casco d’oro alla Caterina Caselli, presentandomi tra l’altro da lui con foto alla mano, ché io con i capelli e le scarpe son fissata da quando ero piccola.

Quando arrivavo all’appuntamento con Glavaise il display del cellulare segnava le 21, 30 ed ero al Verano, perché lei non sapeva arrivare al mio appartamento; ma Glavaise ritardava, ed era così evidente quel ritardo da farmi dedurre che forse non sarebbe mai giunta. Poi invece si presentava trafelata, stanca, gli occhi lucidi, mi spiegava col fiatone che aveva sbagliato fermata, che era scesa molto prima, mi aveva aspettato a piazza Annibaliano per un po’, così mi raccontava. E poi però prendeva il foglietto dove le avevo lasciato scritto il nome della fermata esatta e allora scopriva d’aver sbagliato, risaliva su un altro 93, direzione Verano appunto e si presentava all’appuntamento con quel ritardo. E di quell’attesa ricordo ancora lo sguardo allibito di una donna che dentro la sua macchina si fermava proprio davanti a me e sbraitava, mentre io tossicchiavo e mi distraevo dalle sue imprecazioni.

Erano le 22, 15 quando io e Glavaise varcavamo la soglia di casa.

Lei entrava senza procedere oltre, «Vieni Glavaise, accomodati, fai come se fosse casa tua. Dietro quel soffietto alla fine del corridoio se ne hai bisogno trovi il bagno, c’è un asciugamano lindo sulla lavatrice. La luce è in alto a sinistra appena entri», le spiegavo. E Glavaise però sceglieva direttamente di fermarsi nella sala e si accomodava sulla sedia blu che avevo preso da dietro la tenda dorata «Sono stanca», proferiva quasi con tono dimesso. Io mi scusavo per il disordine che le avevo fatto trovare e che imperava con somma evidenza.

Per non tardare al nostro appuntamento infatti ero uscita di fretta e sul tavolo del salone al rientro ci attendevano ancora i resti di quella cena fugace, un piatto con il sugo che meritava una scarpetta alla buona, resti e briciole di una rosetta, la bud svuotata e lo stracchino da riporre ancora nel frigo. «Glavaise, che ti serve? Dove ci dobbiamo mettere?», le chiedevo mentre spicciavo il salone. «Va bene qui, va bene. Una forbice, il filo, l’ago». Sgrullavo le briciole dalla tovaglia e poi le raccoglievo per gettarle nella pattumiera, e il pensiero nel mentre andava alla cena di Glavaise. «Glavaise, hai mangiato?», «No, io non cenare. Lavorare, lavorare e basta». «Oh! Glavaise, potevi dirlo! Ti preparo la cena, non puoi lavorare ancora senza aver mangiato». Glavaise mi sorrideva, il primo sorriso da quando la incontravo e mi ringraziava pure e mi diceva che era contenta perché aveva fame, tanta fame. Le preparavo un piatto di pasta al pomodoro, ché non avevo un granché in frigo, e le tagliavo una discreta fetta di torta rustica che avevo infornato il giorno prima, quella con la ricotta e gli spinaci. Glavaise non mangiava la ricotta e lo capivo perché la osservavo mentre intraprendeva una specie di litigio con il cibo e si perdeva a dividere la ricotta dalla verdura. Ma poi ne lasciava solo un pezzo, molto piccolo, e mi accorgevo che alla fine aveva mangiato pure la ricotta, e un pezzo di pane, e beveva acqua. Aveva consumato il pasto con evidente lentezza Glavaise, quando la stanchezza sembra quasi che ti faccia faticare oltre misura, ed era silenziosa anche, ché provavo a parlarle, ma poi, poi c’era lei che rispondeva a mezza bocca, con fare secco e mi facevo l’idea che non le andava di chiacchierare, ché voleva solo cenare lei. Quando concludeva si recava in bagno e tornava con la richiesta che fossi io a darle il permesso di riposarsi dieci minuti sul divano. «Certo Glavaise, sdraiati pure se ne hai bisogno. Vorresti un caffè?». Lei mi guardava con gli occhi lucidi e piccoli, quelli della stanchezza: «Io mai bevuto caffè». A me pareva impossibile che Glavaise da un anno in Italia non conoscesse il caffè, mi sembrava improbabile come credere che vai in Francia e non assaggi le crèpe, o in Spagna le tortillas e i boccadillos… ma Glavaise non lo aveva bevuto davvero e non è un problema di soldi il caffè. Allora le spiegavo che in Italia la maggior parte della popolazione ci fa colazione, che stimola il sistema nervoso centrale, volgarmente si dice che ‘tiene sveglio’, eccita, e qualora se ne abusa causa anche insonnia, nausea… e le chiedevo se voleva assaggiarne, che magari in quel momento fiacco una tazzina poteva esserle d’aiuto. Lei era d’accordo e io mi accingevo curiosa a mettere su la macchinetta da due. Mentre la moka era sul fuoco Glavaise mi raccoglieva i capelli con un mollettone del negozio, tirava fuori la mia extension e cominciava a dividerla in numerose ciocche. Scivolavo in cucina, sistemavo un vassoio con due tazzine di caffè, portavo lo zucchero in salone, e il latte. E Glavaise ora che si riposava sul divano, quei dieci minuti a cui aspirava, sceglieva due cucchiaini di zucchero. L’espressione che mostrava prima, nell’assaggiarlo amaro, non mi faceva credere affatto che lo gradisse in quel modo. Erano le 23, 40 quando Glavaise cominciava a tribolare con l’extension. Non era molto loquace lei, ma mi raccontava che era faticoso vivere a Roma. Dormiva sulla Tiburtina in una stanza con cinque persone, e non sempre conosceva chi dormiva con lei, poi mi spiegava che lavorava in nero e che in nero prendeva quattrocento euro al mese. E allora faceva le treccine, per arrotondare, e anche le extension, quasi tutti i giorni ormai, a chi capitava e specificava, almeno tre volte a settimana. Ché ormai girava la voce del suo secondo mestiere.

E mentre mi raccontava di sé mi accorgevo che ogni tanto la sua schiena si lasciava cadere; lo schienale della sedia su cui lavorava sembrava essere lì per arrestare le sue improvvise cadute all’indietro, e poi poggiava tutto l’occorrente del suo lavoro sul tavolo. Io mi voltavo e la scoprivo esausta con gli occhi strizzati, le mani a stropicciarli, le gambe aperte nella tipica postura poco raffinata ma che reclama stanchezza. Erano le 2, 00 circa e la mia extension non erano che poche ciocche, forse una trentina. Cominciavo ad essere stanca anche io, ma a tenermi sveglia c’era forse l’entusiasmo della nuova capigliatura. «Glavaise, sei stanca, vuoi riposare?». Glavaise mi fissava che sembrava quasi volesse pregarmi cortesemente, «Sì, grazie. Un’ora di sonno, ora metto la sveglia». E così lei si sdraiava sul divano, io la coprivo con una leggera sovraccoperta e per mantenermi sveglia tiravo le tende di velluto color bronzo che dividono la veranda dal salone di famiglia, chiudevo pure la vetrata tra la cucina e la veranda e solo allora mi apprestavo a lavare i piatti e silenziosa il più possibile per non svegliarla. Poi mi specchiavo per capire a che punto fosse il lavoro, e mi sedevo sulla poltroncina che era della nonna a sfogliare un album di vecchie foto, datate per lo più 1946. Cercavo di riconoscere i volti, gli sguardi, le parentele sconosciute, ma reali. Poi buttavo un’occhiata al pendolo del salone, l’oscillazione suonava regolarmente, erano le 2, 00 e a quell’ora neanche metà della mia testa era acconciata. Mi cresceva l’ansia, lentamente, ma chiara, la riconoscevo, era fastidiosa e martellante; mi assaliva un dispiacere fottuto di dover interrompere il sonno di Glavaise per quell’extension, lei che alle 9.00 sarebbe dovuta andare anche a Termini a lavorare, lei che non russava ma aveva un respiro pesante, di quei sonni che ti piangerebbe il cuore a interromperli. E terminate le faccende in cucina l’ansia saliva ancora, e con il risultato di farmi muovere avanti e indietro dal salone, alla veranda e alla cucina sperando solo che si sedasse da sé in qualche modo. E di tanto in tanto cambiavo giro e scivolavo dal salone, al corridoio, alle camere da letto. Optare per la passeggiata casalinga più lunga mi faceva sperare che mi sarebbe stata di aiuto.

Poi come d’improvviso e assordante la sveglia di Glavaise suonava con fare che risultava assai scomodo. E lei rispondeva con un balzo improvviso, da militare da telefilm, e puntuale scappava in bagno e mi chiedeva poi un altro caffè. E sorrideva, «Buono, il caffè, mi piace». E le sorridevo anche io e di lì a poco porgevo due tazzine pronte da tracannare con quei due cucchiaini di zucchero per la tazzina dell’ospite e uno per la mia. Erano le 3, 20 quando Glavaise riprendeva a tribolare con i miei capelli veri e quelli finti da cucire. Erano le 4, 00 quando mi spiegava che era così stravolta perchè era la terza sera di seguito che andava in casa di qualcuno dopo il lavoro quotidiano. Prima le treccine, poi di nuovo le treccine e ora era il turno della mia extension. Io non avevo cuore di farla lavorare ancora, tutta la notte, l’ansia sembrava divorarmi a dismisura e mi sembrava pure che i miei capelli la stessero sfruttando indegnamente. Allora le proponevo di mettersi ancora sotto la sovraccoperta, fino alle 9, 00, ché avremmo potuto continuare la sera dopo, nessun problema, avrei preso i miei risparmi e l’avrei pagata anche di più. Ma lei era irremovibile, «Lavoro, lavoro, sempre lavoro, non problema, davvero. Fortunata, mie amiche lavorano in strada, puttane voi dire, io non voglia di fare puttana». Glavaise si raccontava con poche frasi, e scoprivo così che si riteneva baciata da Dio a lavorare di notte per fare l’extension per 100 euro soltanto, ché mica voleva fare la puttana lei. E io che invece al suono delle sue parole cominciavo a fare del mio problema capelli solo un capriccio idiota.

E m’ero come incastrata in uno stato che sembrava mettermi a disagio, questa era l’impressione: sentirmi a disagio e scomoda con me stessa di fronte a Glavaise.

Mentre lei aveva ripreso possesso della sedia blu, e per restare sveglie, nel migliore dei modi avevamo fatto un gioco. Lei voleva imparare bene l’italiano, io volevo allenare il mio francese, così lo scambio di battute era l’uno nella lingua dell’altra, con lunghi momenti di silenzio per la stanchezza che prendeva piede inevitabilmente.

La mia testa era per lo più sempre rivolta verso il basso, lo richiedeva il da farsi e avevo così memorizzato tutte le nervature bianche del marmo rosso lucidato e contavo le strisce di parquet del salone che avevo sott’occhio anche parte di esse. E quando tiravo su il capo definitivamente verso la specchiera incorniciata d’oro che era di fronte a noi mi accorgevo che s’era fatto giorno. La luce elettrica si perdeva per quella del cielo che irrompeva prepotente, e si avvicinavano le 9, 00, l’ora che Glavaise cominciava il lavoro diurno a Termini. Mia sorella si affacciava in salone mostrando un’espressione sbigottita e stralunata, «Ancora al lavoro Glavaise! Volete almeno il caffè?».

Ci facevamo preparare di nuovo due tazzine. Glavaise era alla terza; il terzo caffè che ingeriva nel giro di nove ore, ma tanto lei sarebbe stata tutto il giorno intero a tribolare. Non aveva sonno da poter consumare.

Io puntavo il display del cellulare di Glavaise e segnava le 9, 20. Glavaise mi chiedeva di fare una telefonata al negozio, avvertiva così che avrebbe tardato, ché le mancavano ancora le ciocche laterali e la frangia.

Erano le 11, 20 quando finiva il lavoro completamente. Aveva bisogno del bagno e dell’ultimo caffè, «Scusa, per piacere, l’ultimo».

Mentre Glavaise era in bagno io mi guardavo allo specchio, mi mettevo di profilo, i capelli mi coprivano la schiena fino ai reni, il fisico reclamava un letto che non potevo permettermi. Sì, certo, era fascinosa la mia extension, Glavaise aveva fatto un ottimo lavoro, davvero. Ma il prezzo della mia vanità non ripagava tutta quella fatica. Allora mi vedevo meno bella e più sciocca. Spegnevo l’interruttore del salone che nella fusione con la luce solare avevo confuso e dimenticato acceso. Chiudevo la sedia che era servita a Glavaise per lavorare e la nascondevo di nuovo dietro la tenda, nel solito posto; poi buttavo da un soppalco un trolley di grandezza media da riempire, ché di lì a un giorno sarei partita per Gran Canaria.

E alla fine c’era Glavaise che tornava dal bagno, che si trascinava nel corridoio, ma con un sorriso che la illuminava. Glavaise non avrebbe rimproverato la mia vanità, no; le si leggeva negli occhi che conosceva il peso della vita e questo aveva fatto di lei solo una persona umile e buona. Sì, Glavaise aveva lo sguardo buono, di quelli che ti ci perdi dentro con l’idea di memorizzarlo come fosse una forografia, ché se ne incontrano pochi.

Quando si avvicinava a me le porgevo una bustina con i suoi 100 euro e qualcosa in più di nascosto, che sarebbero state birre in meno nel mio viaggio spagnolo. «Sei gentile tu, grazie. Buono il caffè». Erano le ultime parole di Glavaise prima che non la rivedessi per lungo tempo.

Glavaise andava via con 100 euro per una notte di treccine, 400 euro per un mese di lavoro e nessun euro per un giorno di riposo.

Oggi Glavaise non lavora più nel negozietto di Termini, me l’ha raccontato poco tempo fa, quando mi spiegava che fa le treccine tutto il giorno, ovunque le capiti, in qualsiasi casa le venga richiesto. Prende sempre 100 euro lei, non ha alzato il prezzo di un centesimo e vive sempre sulla Tiburtina. Non lavora sempre, ci son giorni pieni e altri vuoti, da far la fame e periodi che le treccine vanno e altri no, che le extension hanno molte richieste altre volte meno.

E Glavaise ha di bello che conserva sempre lo stesso sguardo di quella notte e si ricorda di me come ‘quella del caffè’. Una faccenda che mi fa sorridere. E lei con quegli splendidi occhi neri velati di una malinconia che sembra la sua carta d’identità, conserva anche le stesse parole di quando mi diceva, Faticoso vivere a Roma, ma oggi, mi racconta, riesce a mandare qualche soldo in Congo, ai suoi cari, e allora le rimane sempre così poco per vivere.

Glavaise viene dal Congo e le sue origini le sfuggivano di bocca solo perché mi parlava della sua famiglia. E allora non se ne accorgeva neanche di avermi fatto questa confidenza, e con il suo sguardo nostalgico che resta il ritratto più vero di Glavaise da quando la conosco.

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3 Commenti

  1. salgono le storie come colonnine di mercurio, portano a fuoco i personaggi, l’umanità di glavaise, la sua dignità, e lo sguardo finalmente aperto dell’altra su sofferenze e generosità. Due polarità che si riconoscono. Mi fa pensare ad una amicizia di spirito.

  2. è molto bello il tempo imperfetto che sembra dare una continuità all’azione e una consuetudine alla conoscenza. fa davvero esclamare Quanto è lunga la notte.
    :-)
    chi

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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