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Guantanamo, ovunque

di Marco Rovelli
Sono partito dalla stazione di Foggia, con lo stesso treno che ha preso Tareq per fuggire dal buco nero che lo ha accolto e inghiottito e rifiutato nel medesimo tempo, tutto nel medesimo gesto.

Tareq si stropiccia gli occhi, qui, in questo vagone. Li sfrega come per risvegliarli da un sonno. Sonno è stato, in questi due mesi, sonno della ragione. Tareq non ci crede, e gli occhi continuano a restare a mezzo. Fermano immagini, come impigliate nel sonno che resta.

Si guarda intorno, prende un giornale. In Marocco aveva cominciato a studiare italiano, in previsione del viaggio. Qualcosa sa leggere. Si ferma sui resoconti dall’Iraq. Un paese lontano, per molte cose. Ma che adesso, dopo questi due mesi, sente più vicino. Sente oscuramente come una comune radice del male. E c’è un nome facilmente disponibile per designare questo male comune, per darne una ragione semplice e chiara: questo nome è Guantanamo. I due mesi appena passati sono stati la sua Guantanamo.

Me lo ridice, nel salotto di casa mia, nella città ligure dove si è diretto, e stabilito. E quando il suo amico Salim racconta che il capo della cooperativa dove lavora non gli ha concesso un giorno di ferie che lui aveva chiesto per nessuna delle due feste musulmane che ci sono in un anno – e io, dice, che sono sempre disponibile a lavorare quando c’è da sostituire qualcuno malato o in ferie – Tareq dice: noi abbiamo un problema con voi.

Voi chi? Chiedo io, che non concepisco un noi, un voi. Mohamed, un amico di Tareq che vive in Italia da molti anni, è fidanzato con una ragazza atea e comunista, e lavora con un’associazione interculturale, mi dà manforte, «Macché noi e voi, dice. Non c’è differenza, ci mischiamo!». E a me che dico di non essere cristiano, che anzi fatico a darmi una qualsiasi forma di appartenenza identitaria, che sono semplicemente un uomo, c’est tout – Tareq ribatte

Non, c’est pas tout!
Siamo due mondi che si scontrano, io e Tareq.
Uno come Tareq, che appartiene a quella minoranza di marocchini che reclamano un’integrale osservanza dei precetti religiosi, non può che uscire rafforzato nelle sue convinzioni di differenza dei cuori da un’esperienza come i due mesi della sua Guantanamo. Guantanamo, allora, definisce la separazione di uno spazio globale, di due campi che non possono che contrapporsi, e tra i quali si può al più arrivare a un compromesso, a una coesistenza che però non tocchi mai la definizione delle identità. E di fronte a queste esperienze sono soprattutto Salim e Rachid, gli altri due amici che stanno nel salotto di casa mia, a essere colpiti. Perché loro, che non hanno queste convinzioni assolute di Tareq, ci guardano perplessi, ma una parola chiara e discriminante – Guantanamo – fa presa, e rende comprensibili tante cose che appartengono a un’esperienza comune.

Nel viaggio verso nord, in treno, Tareq legge e ammutolisce. E gli si fanno chiare davanti immagini, campioni di una realtà che ancora non crede di aver attraversato. E rivede i due mesi appena passati chiusi in quelle immagini. Del resto a Casablanca Tareq faceva il fotografo, ed è abituato ad articolare il mondo in scatti che catturino una verità. Lui, nelle immagini, che lo attraversano adesso, è convinto di leggere una verità profondissima. Vede un vecchio mattatoio, e lo sporco di quell’ambiente, e dei letti fatti di cartone. Vede una baracca di sdraio e di ombrelloni. Vede spiagge come deserti, e un tempo vuoto e improduttivo. Non ci sono le tute arancioni di Guantanamo negli scatti che rivede adesso, ma è davvero come se fossero presenti ugualmente, in spirito.

Tareq mi racconta. Lui è arrivato in regola qui in Italia. Con un contratto da stagionale, esattamente come richiede la legge. Quella legge ipocrita che ha il doppio nome «Bossi Fini». Una legge biforcuta, dove l’ipocrisia sta nel pretendere che gli stranieri possano entrare in Italia solo se hanno già un contratto di lavoro. Cosa assurda, per il banalissimo motivo che nessun datore di lavoro prende a scatola chiusa un lavoratore senza sapere chi è, senza conoscerlo prima. E così questo legittima di fatto l’uso di lavoro clandestino. I flussi annuali d’ingresso di persone che teoricamente dovrebbero essere all’estero riguardano invece persone che già stanno in Italia e che stanno già lavorando in nero, clandestinamente. Quando invece si arriva in Italia, eccezionalmente, con un contratto già in tasca, è possibile che sia una frode. Come appunto nel caso di Tareq, che aveva il suo contratto stagionale. Nove mesi. Lo aveva ottenuto pagando un sacco di soldi, indebitandosi. Aveva dato seimila euro all’intermediario, a Casablanca. Tremila sarebbero andati al datore di lavoro, tremila sarebbero rimasti all’intermediario. Funziona come un’asta, dice. Il padrone fa un certo numero di contratti fittizi, e l’intermediario li vende sulla piazza di Casablanca. Ma qualcosa non ha funzionato, forse l’intermediario non ha versato i tremila euro al padrone, fatto sta che questo non è andato alla prefettura per formalizzare il contratto e far avere il permesso di soggiorno a Tareq così come erano gli accordi. Così Tareq è rimasto col visto che nel frattempo gli è scaduto, e adesso è clandestino.

Tareq non crede ancora ai suoi sensi. «Prima di partire ti dicono che avrai casa e lavoro. Invece sono arrivato e mi hanno messo in una baracca senza letto, senza acqua, senza luce, senza bagno. Prima di partire ti dicono che ci sarà da lavorare tutti i giorni, e si guadagnano settanta, ottanta euro al giorno. Invece arrivi d’inverno, e in Puglia non c’è niente da fare, in due mesi ho lavorato solo mezza giornata, con la paga che è venti euro per una giornata piena. Dalle due e mezzo alle sette di sera a raccogliere carote, l’attività ufficiale del padrone, che in realtà guadagna dal traffico di decine di contratti falsi ogni anno. In due mesi ho guadagnato dieci euro, con un debito di seimila euro da recuperare. Con la casa dove abitavamo che era un inferno totale. Non c’era il letto, e non c’era da mangiare. «Shuma, shuma – ripete- : vergogna. È una vergogna che un imprenditore italiano si comporti così». E quando gli chiedo chi gli aveva dato la casa ha un moto di rabbia, «Non era una casa! Era una baracca che ci aveva dato il padrone, mi ci aveva portato lui. Ci ammazzavano gli animali lì dentro, era un ex mattatoio. E un amico mio che aveva fatto il viaggio con me stava in una rimessa di uno stabilimento balneare, dove d’inverno ripongono le sdraio e gli ombrelloni, e lui dormiva su una sdraio, insieme a un altro, e loro due pagavano 150 euro al mese per stare lì dentro, e le volte che sono andato a trovarlo dovevo stare attento, non dovevo farmi vedere da nessuno, se no il padrone pensava che anch’io dormissi lì e poi faceva pagare di più. Era una Guantanamo!». La Guantanamo di Tareq era a Zapponeta, provincia di Foggia.

L’intermediario, a Casablanca, ha minacciato Tareq. Non devi mai dire i nomi della ditta e del padrone. Se dici i nomi, ti mandiamo nella bara. Tareq però me li vuole dire. Esita un po’, e poi li dice. Il nome del direttore amministrativo e quello direttore tecnico. Li ripete. Anche se li ha già ben stretti in memoria. «Sono loro, dice, che mi hanno dato la visione del mondo occidentale e del popolo italiano. Io non pensavo che era proprio così la realtà: voi parlate di diritti, anche di diritti degli animali: ma la verità è che i diritti esistono solo per voi, non per gli immigrati».

A Casablanca Tareq, che si era diplomato in elettronica, aveva un banchetto per la strada e vendeva scarpe. Poi faceva anche il fotografo per le feste di matrimonio, quelle magnifiche e lunghe feste che durano giorni. Adesso è pentito: «Voglio solo lavorare quel tanto che basta per ripagare il mio debito che ho aperto con amici e conoscenti e poi tornare in Marocco».

Nel salotto di casa mia Salim mi dice di aver fatto lo stesso tragitto di Tareq, anche per lui la porta d’ingresso per l’Italia è stata Zapponeta. Un anno prima, ma le cose erano state le stesse. Un contratto fittizio comprato per rientrare nei flussi degli stagionali. «Ma io c’ero rimasto solo quindici giorni, poi sono venuto subito dai miei amici che erano già qui a Spezia. Avevo lavorato a Zapponeta nei campi di pomodori per una settimana, la paga doveva essere di venti euro al giorno ma non ci avevano dato niente, alla fine. Però il permesso di soggiorno l’avevo preso, e allora avevo deciso di venirmene via». Sono scappato dal manicomio, dice. Adesso lavora in una cooperativa di pulizie che lavora in un supermercato, in quella cooperativa dove non gli hanno mai dato un giorno di ferie per le festività musulmane. Lavora a ore, dalle trentacinque alle quarantacinque, dipende dalle necessità. È in regola, ma gli è scaduto il permesso di soggiorno. Così quando si è trattato di rinnovare il contratto precario, di quattro mesi, lui ha finto di avere ancora un permesso di soggiorno valido e ha firmato il contratto, altrimenti sarebbe rimasto a casa, e difficilmente avrebbero fatto una richiesta di regolarizzazione quelli della cooperativa. Così Salim, anche se «clandestino», lavora in regola e gli versano regolarmente i contributi.

Quella di Rachid, coetaneo di Salim, 25 anni, è un’altra storia, ma anch’essa segnata dallo stato di minorità indotto e agevolato da una legge schiavistica come la biforcuta Bossi Fini. Era venuto di nascosto, pagando 4500 euro per viaggiare nascosto dietro cumuli di casse di merci in un camion. A Casablanca lavorava in un mercato ortofrutticolo, ma i soldi erano pochi. Era l’estate del 2003. Lui e i suoi sette compagni di viaggio uscirono dal camion solo a Barcellona, da dove presero un treno fino a Milano. Di là Rachid arrivò a Spezia, dove c’era suo zio, che gli aveva già procurato un lavoro. Sono già cinque anni che Rachid lavora per un’azienda edile di proprietà di un suo connazionale. Dalle otto di mattina alle sei di sera, cinquanta euro al giorno. In quest’azienda sono in otto, quattro in regola e quattro clandestini. I clandestini come Rachid sono comodissimi: bravi a far tutto, e sfruttabili al massimo. Se ti ammali niente paga, va da sé. Ogni tanto capita che la sua azienda faccia anche lavori pubblici. Il clandestino Rachid, ad esempio, è andato a fare dei lavori in una caserma dei carabinieri. Aveva il tesserino con il nome di uno dei dipendenti in regola.

Conviene un po’ a tutti che Rachid resti in queste condizioni. Agli enti locali che grazie a Rachid riescono ad appaltare i lavori ai costi più bassi così come al suo padrone: il quale, per questo motivo, gli aveva allungato l’orario di lavoro assegnandogli nuovi compiti quando si è accorto che Rachid aveva cominciato a frequentare una scuola serale di italiano per stranieri. «Ma quale scuola!», gli diceva, «Dovete lavorare e basta!». Conviene a tutti che Rachid resti nel suo stato di minorità, clandestino, separato, che non comunichi con gli altri, non si sa mai che possa capire qualcosa di nuovo e di diverso, scuotersi, e reclamare diritti che adesso non ha.

Tareq, Salim e Rachid abitano insieme adesso. Ma Tareq, che è fresco della sua Guantanamo, è quello più scosso, che più degli altri recalcitra alla sottomissione. «A veder queste cose vergognose – dice – cose che non ci aspettavamo, noi che abbiamo studiato, che credevamo alle cose belle, ci ammaliamo fisicamente, psicologicamente. Aspettavamo di migliorare la vita, non di trovare queste condizioni. Il problema è che ci sono quelli che hanno fatto un po’ di soldi in Italia, loro tornano, hanno la macchina, i vestiti, là si sta bene, dicono – e allora tutti vogliono imitarli, è questo il problema. Anch’io l’ho voluto fare, ed eccomi qua, con i debiti, e la voglia di tornare».

(pubblicato su l’Unità, 19/5/2008)

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21 Commenti

  1. Marco, tutta la mia solidarietà a chi è sfruttato da imprenditori di merda come quelli, e sarebbe anche ora che qualcuno li pigliasse per la collottola e li sbattesse dentro. Punto.

    Ciò non toglie che non credo nemmeno a una virgola quando Tareq racconta che le sue aspettative sono state deluse: prima di arrivare guardano tutti la tv, si informano e sanno benissimo a cosa vanno incontro (i nord africani). Prova poi tu, a entrare in Marocco senza visto o con un’identità falsa e poi riparliamo di una Guantanamo all’ennesima.

    Blackjack

  2. “Prova tu a entrare in Marocco senza visto o con un’identità falsa”- straluno. Ma che ragionamento è? Non ha alcun senso, io posso entrare in Marocco regolarmente, perché mai dovrei farlo in cotanto modo? In un mondo asimmetrico, logiche simmetriche sono di quanto più falsante vi sia.
    Quanto alla televisione – tu avevi mai sentito parlare di un traffico di permessi come questo alla tv che i maghrebini guardano? Dimmi. Tareq sta sulla piazza e – grazie alla politica sull’immigrazione che produce clandestinità – è caduto in mano a trafficanti che l’hanno giocato – maghrebini e italiani, come vedi. Alla televisione non ne aveva mai sentito parlare di queste cose, esattamente come te. Si è fidato, affidato. E Tareq io l’ho incontrato due giorni dopo che è arrivato da Zapponeta.

  3. Marco, puoi girarmi la frittata come vuoi e Tareq può raccontare ciò che vuole: padrone lui di raccontare la sua verità, padrone io di non credergli. Che il caporalato nella gestione del lavoro per gli immigrati esista, è un fatto noto e stranoto e, da persona intelligente qual è Tareq, non può venirmi a raccontare che ‘non sospettava nulla’ quando, per arrivare in Italia, gli chiedono 6.000 Euro (se non ricordo male). Perché li paga quando un normale visto ne costa molti di meno? Perché vuole violare una normativa, che conosce bene, e entrare comunque. Sapeva benissimo che sarebbe arrivato da clandestino e, specialmente le persone informate come lui, sanno benissimo a cosa vanno incontro: conoscono le leggi, i tempi di fermo nei CPT e tutto o quasi tutto ciò che ruota intorno.
    La favoletta che la realtà è quella dipinta dal ‘fortunato’ che torna con la macchina nuova in Marocco e fa lo sborone, raccontando che qui stanno tutti bene, è una favoletta: ci crede chi vuole.

    Il problema, casomai, è fare in modo che la Polizia italiana o chi deve, metta le mani sugli stronzi che gestiscono le attività di caporalato e lavoro nero e li sbatta in galera, invece di chiudere tutti e due gli occhi oppure rifilargli la solita multa.
    Il problema è sbattere in galera chi ricostruisce, sfruttando la situazione, forme moderne di schiavismo.

    In un mondo asimmetrico non arrivi alla simmetria semplicemente spostando i problemi; in questo modo l’unico risultato raggiungibile è un aumento delle asimmetrie e dei livelli di conflitto.

    Blackjack.

  4. Scusa Blackjack, ma tu non hai mai parlato con queste persone, e soprattutto non conosci i meccanismi, lo vedo da quel che dici: parli solo per ideologia, e per pre-giudizio (lo facciamo tutti, ogni tanto, niente di male – basta riconoscerlo).
    Nei paesi dì emigrazione i visti non si ottengono così come li possiamo ottenere noi per andare là in vacanza. Anzi, per averli devi pagare, perché sono pochi e centellinati e li ottieni attraverso colloquio con appuntamenti di mesi e anche anni, e spesso ci vuole la bustarella. Allora ti affidi a un intermediario, che ti dà un visto vacanze, per esempio, ma facendotelo pagare migliaia di euro (6mila euro per esempio è la cifra media in Senegal, 10mila in Egitto). In questo caso in vendita era il contratto di lavoro, dunque il permesso di soggiorno che ne consegue: è semplice il ragionamento, Contratto=Permesso. Dunque Tareq si aspettava il permesso, oltre che il contratto. Ma – come dovresti sapere – il contratto di lavoro richiede una registrazione da parte del datore di lavoro per avere successivamente il permesso. E questo non l’ha fatto. In certi casi la cosa va a buon fine: ma, come ogni cosa che vive nell’illegalità, resta un’incognita. E a Tareq è capitato di trovare uno che non ha rispettato i patti, per quanto illegali – e non si può rivalere in nessun modo, come capita normalmente, ad esempio, a tutti quei clandestini che lavorano in edilizia o in agricoltura e non vengono pagati.

  5. Marco, i meccanismi che racconti li conosco più che bene, la mia era “una forzatura” e la descrizione che tu fai, del meccanismo, è perfetta. Ciò non toglie che non credo,o sforzandomi posso credergli solo in parte, a Tareq quando gioca il ruolo del puro di spirito al 100% e si meraviglia che l’abbiano fregato. Gli concedo solo una strada, magari supportato da qualche organizzazione locale: una bella denuncia al figlio di puttana (italiano) che si è prestato a questo gioco.

    La denuncia lo esporrebbe, quasi sicuramente, a un decreto di espulsione, ma se non si riesce a rompere il cerchio che tu racconti e ad alzare il rischio per quei bastardi che alimentano questo mercato, la situazione è destinata a incancrenirsi e a non cambiare.

    L’ennesima asimmetria.

    Blackjack.

  6. Grazie Marco, anche solo sapere che esisti mi fa resistere in un paese che sopporto sempre meno. La tua umanità ti fa splendente come oro. Mi appunto al petto la tua amicizia, come una medaglia che non merito.

  7. Per rompere il cerchio, blackjack, è necessario anzitutto spezzare le coordinate del diritto che ne costituisce il centro. Se il problema è l’illegalità, non si può fare appello a quella legge che produce illegalità, come la Bossi Fini. Giunge un momento in cui se si vuole legalità, è la legge stessa che deve essere abbattuta – per quanto paradossale questo sia. Non serve a nulla chiedersi cosa Tareq sapesse o immaginasse davvero, il punto è sapere che cosa gli è successo e perchè. Accetta la verità, Tareq è partito. La verità è che Tareq è stato trattato come un animale. La verità è anche, poi, che se non si vogliono clandestini non si può neppure favorire la creazione di spazi di clandestinità. Puntare il dito su imprenditori e padroni non è sufficiente, significa trarsi fuori dal cerchio e lasciarlo intatto, assolversi. Il padrone fa ciò che l’illegalità della legge gli consente di fare. Tareq è partito, il padrone l’ha sfruttato. Il problema sta a monte, sta nel diritto. L’etica, poi, condannerà il padrone – il diritto, purtroppo, non ancora.

  8. @Marlowe; evidentemente partiamo da punti di vista diversi. Provo a metterli in fila:
    1) l’Africa, continente disgraziato eppure bellissimo e che conosco ‘discretamente’, dovrebbe essere, a fronte di tutte le risorse naturali e non che possiede, in grado di mantenere, non solo i pochi che ci vivono, ma quasi tutta la popolazione mondiale
    2) mi sono rotto le tasche di sentirmi addossare, semplicemente perché sono occidentale (e più fortunato), i problemi di tutto il mondo: non è sempre così
    3) i Tareq, che conoscono benissimo la nostra legislazione, sul nostro buonismo ci viaggiano e ci marciano; in condizione di inferiorità, per il momento, ma lo fanno e quindi non mi venga a giocare il ruolo del puro di spirito, che a questo mondo, di puri di spirito, sono decenni che non ne incontro nemmeno uno e vorrei proprio vedere il nostro Tareq in condizioni rovesciate come agirebbe
    4) il cerchio lo spezzi applicando le normative che esistono e DA SEMPRE il lavoro nero in Italia e non solo, è un reato
    5) stiamo sempre a farci quintalate di seghe mentali e a cercare la ‘regola perfetta’, che non esiste e non esisterà mai
    6) sì, è vero: il problema sta a monte, ma il diritto che vediamo è diverso e quello che vedo io è il diritto dei Tareq di riuscire ad avere una vita normale a casa loro e questo è l’unico punto che può risolvere questa ‘guerra silenziosa’ (che di quello si tratta anche se nessuno vuole mai usare per pudore questa parola) che è l’emigrazione forzata.

    @Jam, senza l’oro non comperi nemmeno il letame e, con il letame che produci autonomamente non fai crescere nemmeno una margheritina perché, se non fermenta e non si trasforma, nemmeno sul letame crescono i fiori.

    Blackjack.

  9. @Marlowe, rileggo la tua frase di chiusura “Puntare il dito su imprenditori e padroni non è sufficiente, significa trarsi fuori dal cerchio e lasciarlo intatto, assolversi. Il padrone fa ciò che l’illegalità della legge gli consente di fare. Tareq è partito, il padrone l’ha sfruttato.” e mi pare di un’ipocrisia allucinante.
    In pratica stai dicendo che non è possibile, anche a fronte di normative esistenti, punire chi sfrutta e schiavizza le persone; come se il ‘padrone’ fosse un’entità astratta che non esiste. Francamente non capisco come sia possibile, a fronte di un documento che garantisce un ingresso a fronte di un contratto e presentato all’Ambasciata come documento ufficiale, non riuscire a controllare che il contratto sia registrato a fronte dell’ingresso e che le condizioni contrattuali siano rispettate.

    Se invece di stare a farci queste ricche pippe legalistiche alla ricerca della verità perduta, si facessero i controlli che devono essere fatti per legge, gli sfruttatori ci penserebbero un po’ di più; ovvio che, fino a quando il rischio che corrono sfruttando le persone è inesistente, molti si sentono autorizzati a correrlo.

    Tra l’altro la ‘cosa’ ridicola del racconto di Marco (che ha tutta la mia solidarietà per le battaglie che porta avanti!) è che lo sfruttatore è una Cooperativa. Ridiamo insieme in compagnia subito o fra un attimo?

    Blackjack.

  10. @blackjack
    Non trovo nei tuoi punti un solo discorso che affronti il cuore della questione. Il lavoro nero è un reato, certo. Non perseguito. Chiediti perché. Dici, “Francamente non capisco come sia possibile che..”. Ecco, ti suggerirei di cercare di comprendere questa mancata comprensione. Quanto tutta questa illegalità sia assolutamente funzionale al sistema nel suo complesso. Quanto il diritto sia finzionale, in fine. Quanto quel che sta avvenendo con la nuova legge sia, né più né meno, la formalizzazione dello stato di servitù dei migranti.

    @ Gianni
    Troppo buono, Gianni, quello che ciascuno di noi fa lo fa in base al caso, alla fine. Al caso che ti ha disposto al mondo in un certo modo, magari, ma sempre al caso. E poi (anche per rassicurare Jam) ho le mie buone dosi di letame…

  11. Caro Blackjack, probabilmente non mi sono spiegato.
    Ciò che intendevo è, molto semplicemente, che in questa clandestinità del diritto Tareq e il padrone sono sullo stesso piano, ciascuno dei due si dirige liberamente al proprio interesse, e questa libertà non ha alcun valore per la legge di per se. Almeno, non prima che la legge assuma su di se questa libertà. Nessuno punta sul buonismo, qui, nè sulla purezza di spirito di Tareq. Non è un problema che ci interessa se l’imprenditore sia uno stronzo e Tareq un ingenuo o un santo. Sei tu, invece, che isoli dal problema (che è un problema politico e legislativo) le figure di Tareq e del padrone e ti chiedi se siano buone o cattive.
    Il secondo punto è che il diritto non sempre dice la verità di se stesso. Il lavoro nero è illegale e perseguibile, ma se esso continua a prosperare nell’illegalità questo non è semplicemente un problema di cattiva amministrazione. E’ una lacuna del diritto stesso, che si pone per essere violato. La Bossi Fini ne è un esempio lampante, è essa stessa a produrre clandestinità, non il clandestino. Dietro a questa legge sta un preciso modo di intendere l’immigrazione e di gestirla. E’ legge, sì, e tuttavia ci mette essa stessa nella condizione di infrangerla: evidentemente (anche) perchè lo sfruttamento del lavoro nero fa comodo a tutti, e perchè il clandestino non ha un diritto che ne tuteli le esigenze. Insomma, la legge non consta solo della sua formulazione, ma anche del contesto che la genera. Essa dice molto di più del suo semplice essere legge.

  12. Marco, c’è un solo passaggio che può risolvere questa situazione: fare in modo che cresca il livello di benessere nei Paesi dai quali questa gente arriva. Il resto è un pannicello caldo. Mi spiace tagliare con l’accetta un tema apparentemente così complesso, ma la complessità è sempre meno complessa di ciò che appare.
    Tutte le altre iniziative sono e rimarranno, comprese quelle che riporto io, dei pannicelli caldi sulla fronte di un morto: morto è e morto rimane.

    Che questa illegalità sia funzionale al sistema, scusami, ma non mi convince: un sistema non sicuro e illegale è un vantaggio per pochi e un problema per tanti e i tanti, prima o poi, si stancano. E’ il motivo della batosta elettorale della sinistra italiana che ancora non ha capito e continua ad arrotarsi, anche in buona fede, attorno a slogan vecchi e consunti.

    Il diritto poi, per dirla tutta, è SEMPRE finzionale: non è altro che una convenzione necessaria per stabilire livelli di convivenza accettabili e non è mai uguale per tutti. Da sempre cambia in funzione delle esigenze di chi ha voce in capitolo per farsi sentire; dovrei scandalizzarmi perché non tutela i Tareq? Scusami, ma ho seppellito questi tempi da anni e (faccio un’affermazione ‘fascista’), se devo scegliere fra tutelare la mia famiglia e i Tareq, scelgo la mia famiglia.
    Forse, in un futuro lontano, sarà possibile tutelare tutti; ora, semplicemente, non esistono i presupposti.

    Blackjack.

  13. Sei accecato dall’ideologia. Tagli con l’accetta questioni complesse, sì, e il tuo discorso è fitto di contraddizioni e aporie. Che non ho più la forza e la voglia di sciogliere, però. La cosa che mi sconvolge in ogni caso è che tu vai fiero di questa semplificazione che produce menzogna – ed è questo un esimio segno di questi tempi di fascismo viscerale. Perchè pensare la complessità è complicato, e si preferisce tagliare con l’accetta. Hélas.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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