Piccolo post (anche) retorico scritto da cuore di mamma

di Helena Janeczek

Leggo che il bambino- anzi: il bimbo- di tre anni colpito venerdì sera da un proiettile durante una festa di una scuola a Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, è stato operato al ospedale Bambin Gesù di Roma e ora sarebbe stabile ma grave. O grave ma stabile. Prognosi strettamente riservata, in ogni caso.
Ieri l’avevano trasportato con un volo dell’aeronautica militare perché, pur tenuto in coma farmacologico, era peggiorato. “E’ sopraggiunta un’ischemia cerebrale – ha detto il primario del reparto di rianimazione degli Ospedali riuniti, Giuseppe Doldo – che ha provocato un aggravamento della condizione del bambino, che a questo punto rischia la vita”.
Così “Repubblica” di ieri.
Insomma questo bambino- Antonino- era lì insieme agli altri bambini dell’asilo a fare il saggio o la recita di fine anno, lì sul lungomare davanti alla chiesa del paese, quando è arrivato su uno scooter nero un uomo che ha mirato a un altro uomo prendendolo alla gamba e invece colpendo in faccia il bambino. Alla gola. Alla lingua. Con la pallottola che si è fermata alla nuca.
L’uomo obiettivo dell’agguato dalla stampa viene definito “pregiudicato”: il che non rende bene l’idea. E’ stato assolto in appello da un’accusa di omicidio, condannato per tentato omicidio e altrettanto “per eccesso colposo di legittima difesa” – il risultato della quale era comunque un morto ucciso.
Secondo gli inquirenti, c’erano centinaia di persone in piazza, ma nessuno parla. Neanche una telefonata anonima, niente di niente. La madre ha lanciato un appello accorato, il parroco si è rivolto a tutte le madri di Melito tuonando contro l’omertà. “Non fate l’omertà”, ha detto.
“Omertà” è una di quelle parole dal significato apparentemente chiaro. Come, mettiamo, “voodoo”.
Ah beh’, pensiamo, sappiamo come funziona laggiù: c’è l’omertà. Così come i Yoruba o i neri di New Orleans hanno il voodoo.
A volte certe parole sono come etichette di marca che ci fanno desistere dal voler guardare cosa c’è dietro, cosa c’è dentro.
Che cos’è questa cosa che fa sì che un centinaio di genitori, nonni, zii in una piazza che ascoltano le canzoncine o le poesiole recitate dai loro figli, nipoti, nipotini quando vedono un bambino crollare per terra in un lago di sangue, stanno tutti zitti? Paura? Sottomissione? L’istinto d’autoconservazione di chi l’ha scampata e quindi pensa solo di portare a casa i propri figli fisicamente illesi e ripararli dal trauma, farli dimenticare quello che hanno visto, cercare di convincerli che quella cosa che è successa, NON PUO’ SUCCEDERE, non può succedere a loro. Ci stanno papà e mamma che garantiscono. I genitori, nella loro angoscia, si convincono delle frottole d’onnipotenza che raccontano ai propri figli.
Non so esattamente cosa sia l’omertà, ma so che è qualcosa che si innesca quando sai che quella cosa invece PUO’ SUCCEDERE, può succedere sempre, a chiunque, anche a te e a tuo figlio. E che non puoi farci niente: solo tentare di farti piccolo, irrilevante, non farti notare. L’omertà somiglia molto o forse è identica all’atteggiamento della maggioranza delle persone che vivono sotto un regime. Zitti e sempre in difesa. Come i russi sotto Stalin. Come i tedeschi sotto Hitler. Con un patto di sottomissione che tratta il potere quasi fosse una forza della natura.
Non è una cosa arcaica, da terroni, non è qualcosa che accade solo “laggiù”. Sembra ancestrale, tribale, ma in realtà distrugge ogni vincolo. Il fatto che il potere porti il nome di “clan” o di “famiglia” e sia fondato realmente su legami di sangue, specie in Calabria, trae in inganno su come agisce. E temo che distrugga i più superficiali vincoli di solidarietà ben oltre un paese in provincia di Reggio Calabria.
Quel che mi ha stupito è che la notizia di un bimbo di tre anni quasi ucciso al posto di un killer non sembra aver provocato il solito dramma e melodramma nazionale. Ne avrà colpa il fatto che Antonino non sia morto, certo. E se la cosa fosse accaduta non in Calabria, ma in Piemonte? Se per caso i pistoleros fossero stati non ndranghetisti autoctoni, ma rumeni, magrebini, albanesi, slavi?
Questa è una mossa retorica, d’accordo. Ma vorrebbe servire per formulare un’ipotesi che credo sia meno scontata della semplice affermazione che abbiamo due pesi e due misure e che il nostro problema di sicurezza è razzisticamente improntato sugli stranieri. Vorrebbe servire a dimostrare che quando una cosa ci fa paura veramente, quando pensiamo che sia una condizione da cui non esistono difese e difensori,- una condizione e non un singolo caso aberrante – allora non strilliamo, non reclamiamo sicurezza, non additiamo i colpevoli. Ma stiamo zitti. Anche se ammazzano il compagno di classe, l’amico del cuore, il cuginetto.
E allora anche i giornali, le tivvù, i Michele Cucuzza abbassano la voce. Perché chi vive in posti analoghi non ha piacere di farsi sventolare sotto il naso la propria condizione. E perché chi ci vive lontano, pensa che tanto quelle cose succedono laggiù, dove stanno i calabresi che hanno la mafia e l’omertà. Gente che appartiene a un’altra cultura. Come i Yoruba o i neri di New Orleans.
Risultato: la vera aberrazione non sta in quel che è successo, ma che in un giorno in cui per tutti i bambini d’Italia finivano le scuole, in cui chissà quanti facevano le feste, le recite, i saggi, le pizzate, non si sia sentito scattare un lampo nella mente collettiva che dicesse POTEVA ESSERE IL MIO.
Il piccolo Antonino non potrà mai significare nemmeno un decimo di quel che ha significato il piccolo Alfredino. Non ha neppure un nome- questo nome- al di fuori dei giornali calabresi. Se sopravvive, se scampa il rischio di pesanti lesioni cerebrali e quel che ne consegue: chi se ne frega

Print Friendly, PDF & Email

20 Commenti

  1. poi c’è certa gente che pensa che l’omertà sia come le lentiggini che esce col solo. e a melito c’è tanto sole. ma se è così se le lesioni rimarranno confinate in un piccolo cranio di bambino senza spaccare e lacerare la citta di melito, che non è porto salvo nonostente il nome maledetto nome, allora io penso che l’omertà non esce solo con la luce del sole. ma pure con la luce elettrica e non c’è speranza alcuna perché ogni anfratto è illuminato, tranne, come dice janeczek i cuori delle mamme.
    mamma mia. mater dulcissima. lacrimosa.

  2. helena, lei può scrivere anche la cosa più retorica del mondo, ma detto da lei, le assicuro, non ne conserva traccia.
    con ammirazione

  3. Helena,il tuo articolo è equilibrato. Io ti rispondo da qui, dalla provincia di R. C., da una terra che non muore soltanto per colpa dello stato, ma soprattutto per colpa di alcuni suoi “figli”. Qui l’erba cresce fresca e profumata ma, nel breve attimo di un sospiro, la puoi cogliere insanguinata e maledire chi ha osato compiere un crimine che fa male a tutti, che distoglie l’attenzione generale da radici più profonde e per buona parte sane. Antonino, un nome anonimo,come tu stessa dici, un corpicino,due occhi una voce, una piccola recita di fine anno scolastico. Le madri, le madri,cara Helena, e una moltitudine di persone che tacciono. Brutta cosa l’omertà da sud a nord, brutta cosa la paura che non si sblocca neanche difronte all’accorato appello di un’altra madre che continuerà a chiedersi “perchè” mentre spera che il suo bambino possa farcela. Brutta cosa il silenzio di chi potrebbe e non dice. Brutta cosa se dice perchè sa che sarà il prossimo. E anche il nome conta, certo che conta,un nome altisonante avrebbe avuto più richiami, più fiaccole in processione. E le forze dell’ordine fanno tutto ciò che possono, come possono. Rimane il dolore,a cui non ci si abitua,mai, rimane questa terra, per altri versi, generosa e ospitale,rimane un silenzio di paura difficile da decifrare.Un bimbo innocente da salvare.

    jolanda

  4. commovente e convincente insieme, grazie Helena, la questione della condizione, sì, è quella fondamentale.

  5. Non è così. Non c’è nessuna “terra generosa e ospitale” contrapposta alla barbarie di pochi. Non ci sono forze dell’ordine che “fanno tutto ciò che possono” contro “alcuni figli” (della terra) degeneri. L’erba non cresce “fresca e profumata” ma intrisa del sangue che prima o poi (tangibilmente o in metafora) ne gronderà. La barbarie è sociale, nessuno può chiamarsene fuori. La prevalenza del privato sul pubblico è digerita e invocata quasi unanimemente, perché meravigliarsi di ciò che ne consegue, cioè la deresponsabilizzazione civile, l’omertà? “Primum vivere” nei rapporti umani, in quelli economici, nelle gerarchie del successo: perché non anche di fronte alla violenza delle cosche? “Qui lo Stato non c’è, ci ha abbandonato” cantilenano a memoria i teleintervistati, ma di che Stato parlano? chi lo ha disegnato? chi lo ha scelto come è? da quale “esterno” si aspettano (ci aspettiamo) salvezza, se all’interno se ne perpetuano i meccanismi? A Pagani i balordi che hanno ucciso giorni fa un carabiniere sono stati fatti arrestare dalla stessa camorra: non manca chi se ne è compiaciuto, perché “almeno così si fa giustizia”. Non è nemmeno più sostituzione (dell’autorità criminale a quella istituzionale), ma osmosi, integrazione: stare con l’una paradossalmente non esclude rimanere con l’altra. Poi si fa una fiaccolata, si applaude a un funerale (come per le morti sul lavoro) e ci si sgrava così la coscienza, individuale e collettiva. E tutto può ricominciare secondo un copione perverso, uno “spartito della follia perfettamente orchestrato” (Thomas Bernhard)… Qualcuno pensa di non esserne parte?

  6. caro niki lismo, a me sembra che a molti italiani piaccia pensare che qui siamo tutti ‘ndranghetisti, tutti conniventi, vi conviene, da un certo punto di vista. in questo modo ci si scarica da un peso, ci si dice “ma si tanto lì sono tutti uguali”. ebbene no. non è così. non siamo tutti uguali.
    la difficoltà di vivere in una realtà in cui l’aria è pesante, in cui ogni giorno nel nostro piccolo si combatte e si “urla” il proprio dissenso, voi non la conoscete e vi nascondete dietro un dito. é vero, in molti hanno ancora un modo di agire “mafioso”, ma ciò non significa che tutti siano così. e smettetela per favore di dire queste cose, non solo fate un torto a noi, ma anche alla vostra intelligenza.

  7. @niki lismo. Probabilmente qualcuno (una moltitudine) si illude di non esserne parte e così sopravvive.

    @ mac, non penso che quello fosse il succo del commento di niki lismo e nemmeno del post di Helena – da sempre il modo più svelto di pulirsi la coscienza è identificare un capro espiatorio, possibilmente “distante” (il sud, il clandestino, lo straniero), a cui accollare la responsabilità della violenza. Anche se le persone non sono tutte uguali, come dici tu. Il fatto è che quando la violenza è indistinta, ci riguarda tutti (e la violenza ci riguarda tutti non solo nelle tesi antropologiche, ma nell’evidenza della realtà), la paura fa prima a trasformarsi in silenzio, smarrimento, voglia di dimenticare. In questi casi dire la verità, ai figli, a noi stessi, diventa quasi più tremendo che vedere un bimbo di tre anni in agonia. Casi come quello del piccolo Antonino non possono essere relegati solo nell’idea delinquenziale di un terribile meridione. Ci ricordano che non siamo immuni da niente, che siamo parte di questi eventi anche se viviamo, che so, in Piemonte o in Toscana. Ma è questo che fa male ricordare.
    Il pezzo di Helena ha la bellezza triste della verità.

    (quello che dice Helena sul confessare ai più piccoli che non siamo gli eroi che credono è verissimo – basta pensare alla fatica che si fa a spiegare ad un bambino che amiamo un evento “brutto”. Ma noi dobbiamo trovare questo coraggio, anche se apparentemente è diretto proprio contro noi stessi).

  8. omertà è sapere che se fornisci la tua testimonianza contro qualcuno, nessuno, Stato compreso, ti proteggerà dalla sua vendetta o da quella dei suoi sodali e/o parenti.
    omertà è sapere che il coraggio di denunciare non serve a nulla, è sapere che tutto continuerà come prima, ma tu sarai morto.

  9. quindi omertà è normale paura umana, incentivata dall’incuria dello Stato, cioè anche di tutti noi che viviamo altrove e facciamo presto a condannare perché non rischiamo nulla.
    un atto di coraggio, cioè propriamente contrario alla propria auto-conservazione lo si compie solo per due motivi: il primo è biologico e riguarda l’incolumità di un congiunto.
    il secondo è civile e riguarda la propria dignità di cittadino.
    ma occorre crederci.
    e se non ci si crede più?

  10. aggiungo di condividere in pieno che “abbiamo due pesi e due misure e che il nostro problema di sicurezza è razzisticamente improntato sugli stranieri”.
    mafia, ndragheta, camorra non si sono mai percepite come problemi di sicurezza dei cittadini, ma come criminalità organizzata, che è considerata cosa diversa, cioè che se non ti impicci e se paghi non ti succede niente…

  11. […] non si sia sentito scattare un lampo nella mente collettiva che dicesse POTEVA ESSERE IL MIO.
    Mente collettiva immaginaria, immagino. Vedo solo un’opinione pubblica delle nebbie che probabilmente ha pensato MENO MALE CHE NON E’ SUCCESSO AL MIO.
    Il capo della polizia qualche giorno fa ha dichiarato, a proposito dello stato della giustizia in Italia, che siamo arrivati all’indulto quotidiano.
    Indulgenza da parte della legge nei confronti dei criminali, ed omertà come forma di indulgenza nei confronti di se stessi. Si accondiscende al proprio bisogno di sopravvivere imitando lo stato dalle carceri piene e dalla giustizia dei cavilli procedurali.
    Ci penserà qualche cosca rivale a far arrestare il killer.

    Tash, se non si crede più, davvero, a niente, tale vuoto costituisce il terzo motivo che porta all’estremo atto di coraggio: l’autoeliminazione.

  12. Leggo l’articolo e mi dico che non posso scrivere, solo pensare al bambino e alla mamma. Penso al volto che hanno i bambini di tre anni, al futuro che non essiste, per ogni bambino ferito o morto, è il nostro mondo che muore.

    Tash hai ragione per la sicurezza, ma l’omerta NO!
    Parlare è la sola manera di affrontare il problema, perché la paura nutrisce la paura.

  13. Lo so che detto così è una cosa fin troppo generica, ma penso che giudicare senza cercare di capire il più possibile con ogni strumento, incluso quello dell’empatia, serve a poco tranne che a considerarsi dalla parte dei buoni e giusti ed è molto meglio farne a meno.
    Nel caso non fosse chiaro abbastanza, credo che se si prendessero gli abitanti di Brembate (o di Zug, o di Anderlecht) e si trapiantassero per un tempo sufficiente (cinquant’anni? anche menio?) a Palmi (o a Ponticelli, o a Podogorica) comincerebbero a comportarsi allo stesso modo.
    Poi, rispetto a quel che dicono Tash e Plessus, ho qualche minima riserva: come la sensazione di trovarmi di fronte a visioni fin troppo univoche nel loro pessimismo. Dove quel che non mi convince appieno e l’univocità, non il pessimismo.
    Credo invece di capire e condividere la richiesta di “chiamarsi dentro” e non fuori – pur avendone in molti tutti i diritti- di niky lismo. Mi pare abbastanza significativo che mac l’abbia preso per uno che sentenzi da Brembate, mentre mi pare piuttosto evidente che stia più verosimilmente dalle parti di Ponticelli. Ma è ovvio che il luogo comune virulento “voi laggiù tutti mafiosi collusi” generi questi automatismi. Solo che per fare i conti con la propria realtà dominante, partire in difesa contro l’aggressore esterno aiuta poco.
    Vabbé: forse ho fatto una certa confusione. In ogni caso: grazie a tutti!

  14. La prima volta che sono stata a Reggio Calabria, a Gallico per la precisione, l’amica che mi ospitava percorrendo la strada di sera in macchina mi faceva osservare che le finestre delle case. Dietro le tapparelle di legno occhi scuri sorvegliavano la strada. ” Si assicurano che sia tutto tranquillo” mi diceva Carmen ” e se succede qualcosa fanno finta di niente, spengono solo la luce”. Io non capivo. Dopo qualche anno sono tornata in Calabria. Non in vacanza però, ma ero lì per lavorare come animatrice in un bellissimo villaggio ad Isola Capo Rizzuto. Il villaggio era gestito dalla ‘ndrangheta. Alcuni proprietari mi hanno raccontato storie terribili, c’era chi solo per aver fatto appello alla Legge è stato ripetutamente minacciato di morte. Una signora era stata picchiata a sangue per aver osato sgridare il figlio di un boss. Ma tra i “padroni” non c’erano solo calabresi, qualcuno parlava anche ciociaro…E alcuni dei bambini di cui mi occupavo mattina e pomeriggio litigavano tra loro per questioni “familiari” che vedevano protagonisti i “grandi”. Ma cosa c’entrano i bambini mi chiedo? Come Dostoevskij nei Fratelli Karamazov domando: perché devono soffrire i bambini? Che razza d’ingiustizia è questa? Non c’è sofferenza maggiore di quella che si può scorgere negli occhi innocenti di un bimbo, e chi osa arrecare dolore ad un piccolo innocente meriterebbe pene terribili. I bambini sono tutti uguali, così come la loro sofferenza. Sia che siano finiti in un pozzo, come Alfredino a cui si riferiva Helena, sia che, come Antonio, siano stati raggiunti dai colpi dei grandi che fanno guerra tra loro. E noi grandi tutti dovremmo sentirci responsabili di questa sofferenza oltremodo ingiusta. Complimenti ad Helena pezzo bellissimo.

  15. non sono pessimista, semplicemente cerco di non considerare l’omertà una cosa miseriosa ed esotica paragonabile al vudù, perché mi pare un modo di vedere un po’ sciocco, ecco.

    (io se mi trovassi in un luogo della calabria/sicilia/campania/puglia/ecc., dominato dalle cosche, ad essere testimone di un delitto (sia esso di creatura di mamma o meno), ci penserei due volte prima di andare a denunciare l’assassino, perché ne andrebbe della mia vita e io non sono disposto, per nessun motivo, a rischiare alcunché di prezioso per questo Paese, al cui destino mi considero ormai del tutto estraneo, dove è da quando sono nato che vengono uccisi innocenti da assassini che restano impuniti, spesso coperti dallo stesso Stato: non accetterei che le contraddizioni e il lerciume del tutto venisse a trafilarsi, più dell’inevitabile dovuto, attraverso il mio destino personale: la mia idea di giustizia viene calpestata tutti i giorni proprio da quello Stato e da quei benpensanti che invocano più galera per i colpevoli: in nome di cosa dovrei rischiare la mia vita? credo che l’omertà di cui parlate non sia poi così diversa da questo sentimento).

  16. Tash dipende della situazione, se hai una famiglia è vero, tu penseresti due volte prima di denunciare. Ma se non hai famiglia, se ne frega della vita, e allora parlare è un atto di civismo, di rivolta, di rispetto in favore delle vittime.
    Se uno parla, gli altri parleranno.
    La paura è alimenatta delle storie orribile di assassino.
    Sono assassini senza scrupulo che fanno vivere la populazione nel terrore, in effetto si puo parlare di insicurezza permanente.
    Assassini che pensano al denaro , al potere, al manera di sfruttare la terra e della far morire.

  17. Premetto che l’argomento è delicatissimo ed è facile scivolare in chine pericolose, ma sicuramente Helena sei riuscita nel tuo intento evitando ogni retorico sentimentalismo da quattro soldi.
    Certo la storia può essere emblematica della situazione italiana, dove ogni notizia è manovrata da mani abili che ce la cucinano a modo loro.
    E’ un mondo ancestrale in cui ognuno dice per fortuna oggi non è toccato a me, eppure bisognerebbe gridarlo al mondo intero quello che è successo e dovrebbe stare sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo insieme alle notizie sulla spazzatura di Napoli.
    Brava Helena.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Di quale “cancel culture” si parla in Italia?

di Bruno Montesano e Jacopo Pallagrosi
Negli Stati Uniti, a un anno da Capitol Hill, si continua a parlare di guerra civile. Questa è la dimensione materiale della cosiddetta...

L’orso di Calarsi

di Claudio Conti
«Da una parte l’Impero ottomano, dall’altra la Valacchia. In mezzo il Danubio, nero e immenso». Lara è sul fianco e ruota la testa all’indietro, verso Adrian. Rimane così per un po’, con la reminiscenza del suo profilo a sfumare sul cuscino.

Amicizia, ricerca, trauma: leggere Elena Ferrante nel contesto globale

L'opera dell'autrice che ha messo al centro l'amicizia femminile è stata anche veicolo di amicizia tra le studiose. Tiziana de Rogatis, Stiliana Milkova e Kathrin Wehling-Giorgi, le curatrici del volume speciale Elena Ferrante in A Global Context ...

Dentro o fuori

di Daniele Muriano
Un uomo faticava a sollevarsi dal letto. Un amico gli suggerì di dimenticarsi la stanza, la finestra, anche il letto – tutti gli oggetti che si trovavano lì intorno.

Un selvaggio che sa diventare uomo

di Domenico Talia Mico, Leo e Dominic Arcàdi, la storia di tre uomini. Tre vite difficili. Una vicenda che intreccia...

Soglie/ Le gemelle della Valle dei Molini

di Antonella Bragagna La più felice di tutte le vite è una solitudine affollata (Voltaire) Isabella Salerno è una mia vicina di...
helena janeczek
helena janeczek
Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: