Cuba, l’isola che c’è

di Giampaolo Graziano

Prima la liberalizzazione della vendita di lettori dvd, personal computer e forni a microonde, poi l’accesso ai telefoni cellulari, finora riservati a funzionari e dipendenti di società con capitali esteri: costano nove mesi di un salario cubano, ma chi traffica con i turisti o riceve le rimesse dei familiari emigrati a Miami, finisce che può anche permetterselo. Domani potrebbe essere la volta dei viaggi all’estero e di una piccola rivoluzione nell’organizzazione agricola. Forse. Perché quando si parla di trasformazioni sociali ed economiche, nell’isola di Cuba, un discreto condizionale è d’obbligo, soprattutto a prevenire le incomprensioni occidentali.

Sono atterrato all’Avana in una notte limpida del gennaio scorso, quando di riforme si parlava con l’interesse che si riserva all’ultimo incontro del Campeonato de Pelota, il torneo nazionale di baseball: un argomento appassionante proprio perché squisitamente superfluo. L’errore sta tutto qui, nella riduzione della questione cubana (e di quella tibetana, cinese, venezuelana…) alle parole chiave della società euroamericana: libertà, democrazia, consumo, individuo. L’incomprensione occidentale per questo socialismo in salsa caraibica trabocca interamente nel primo sguardo spaesato all’antica capitale coloniale, L’Avana vieja, brulicante di vita e passioni nella penombra della notte tropicale. Per essere una metropoli insonne di circa 3 milioni di abitanti, al viaggiatore occidentale L’Avana apparirà inspiegabilmente buia. Colpa della nebbia atlantica o squisita sensibilità crepuscolare? Niente di tutto ciò: è soltanto l’effetto della crisi energetica che, dall’inizio degli anni ’90, costringe a ridurre all’osso l’illuminazione pubblica. Di questo si preoccupa il cittadino cubano, con apprensione molto maggiore di quanta ne riservi al tema delle “liberalizzazioni”: quando migliorerà la situazione energetica? e quando s’allargheranno le maglie dell’embargo statunitense? Cuándo?

Frutto dell’atteggiamento pragmatico che s’esercita nelle ristrettezze, le riforme del neopresidente Raul Castro, succeduto in piena continuità al líder maximo Fidel, suo fratello, non derivano da un diverso punto di vista sul problema delle libertà personali, ma sono il risultato del migliore approvvigionamento del paese: un (temporaneo?) incremento delle disponibilità di energia che, secondo alcuni osservatori, sarebbe l’indizio più eloquente del progressivo sgretolamento della struttura dell’embargo.

In ogni caso, Cuba continua a lottare con la carenza di combustibile e risorse energetiche sin dal 1991, anno in cui la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha abbattuto del 90% il volume di scambi con l’estero. Da allora il sistema nazionale dei trasporti è entrato in una lunga crisi, che il popolo cubano affronta con un misto di rassegnazione e spirito d’iniziativa: sulle strade, compresa l’Autopista Nacional, che collega la capitale a Camagüey, sono ricomparsi i carri trainati da muli, mentre le auto d’epoca ­- le Mercury, le Buick, le Cadillac importate sull’isola prima della rivoluzione del ’59 e golosamente fotografate dai reporter di tutto il mondo – sono state dichiarate da Castro patrimonio nazionale e circolano ancora nelle vie dell’Avana, magari taroccate con i robusti motori Lada di produzione russa.

Grazie alla necessità di tenere in vita il più a lungo possibile queste vecchie signore, i cubani sono diventati i migliori meccanici del pianeta, e non è raro vederli trascorrere i pomeriggi festivi con la testa nel cofano, in cerca di quel dannato rumore metallico. Ma soprattutto, il Governo cubano ha trasformato l’antiquato parco auto dell’isola in un sistema di trasporto pubblico informale e tuttavia adatto allo scopo: «la botella, l’autostop di Stato – dice Esteban Morales, dirigente del Dipartimento dell’Economia – è un modello di solidarietà socialista e una risposta all’assedio economico che Cuba subisce da più di quarant’anni». Tutti i crocevia delle principali arterie di comunicazione dell’isola, specie quelli che si trovano alle porte delle maggiori città, sono presidiati da decine di persone in attesa del passaggio giusto, del mezzo che procede nella propria direzione: alcuni sventolano qualche peso cubano per indicare che sono disposti a condividere le spese della benzina, altri si affidano soltanto al buon cuore dei conducenti. Qualora non bastasse, ci pensano gli Amarillos a fermare i “veicoli di Stato” (l’80% del totale, contrassegnati dalle targhe blu) e a stiparli di autostoppisti, fino a esaurimento dei posti. Li riconosci perché sono vestiti di giallo, distribuiscono foglietti numerati agli astanti, ogni tanto alzano il palmo per fermare un autocarro o un camion militare: gli Amarillos, che prendono il nome dalla divisa giallo-ocra, sono funzionari addetti a regolare la richiesta di un passaggio, seguendo alcune regole basilari: una donna, ad esempio, ha sempre la precedenza, se accompagna un bambino ancor di più. Qualche volta la botella è necessaria anche ai lavoratori, categoria alla quale si riservano i maggiori riguardi: se è possibile, bisogna farli arrivare in orario.

Percorrendo l’Autopista in direzione Santa Clara, il cuore geografico e morale della Cuba rivoluzionaria, gli operai che aspettano di essere caricati vanno tutti alla stessa destinazione: al Cayo Santa Maria, un isolotto della costa atlantica situato proprio di fronte a Caibarien, un tempo porto di prim’ordine, poi soppiantato da L’Avana, Cienfuegos, Santiago. «Il problema è che le acque sono troppe basse per l’approdo delle navi da carico», spiega Xavier, marinaio di lungo corso, che ora si dedica alle immersioni con i turisti lungo la barriera corallina. Da quando l’abbiamo caricato, sulla strada che da Santa Clara conduce verso il mare, non ha smesso di raccontare: «prima il carico dello zucchero avveniva al largo, con le chiatte da trasporto. Ora è più rapido e meno costoso farlo direttamente nei porti dove si può attraccare. E poi, dopo che hanno costruito quella strada, l’acqua è veramente troppo bassa!».

La strada di cui parla Xavier, che abbisogna di continua manutenzione ed è sostenuta ogni giorno da decine di carpentieri, è una lingua d’asfalto sul mare lunga 48 km: chilometri di solitudine percorsi su ponti e scogliere, tra mangrovie e fenicotteri in volo. L’opera -monumentale – è uno dei più arditi risultati delle nuove direttrici governative in materia di economia e sviluppo, che indicano il turismo come “nuova priorità nazionale”: consente infatti di raggiungere i paradisi tropicali delle isole senza prendere alcun aereo, portando agevolmente migliaia di villeggianti negli all inclusive dell’arcipelago.

Nel 2007, dopo la conclusione di questa e altre infrastrutture analoghe, il Ministero del Turismo ha puntato ad una crescita del settore dell’8,1%, registrando l’ingresso di 2,4 milioni di turisti, in buona parte finiti nei resort di Cayo Coco, Varadero, Cayo Santa Maria. Lì spendono in peso convertible, la moneta che il Governo conia appositamente per gli stranieri, stabilendo una provocatoria equivalenza con la valuta statunitense: un peso uguale un dollaro. La moneta che i cubani hanno in tasca vale 24 volte di meno e questo doppio corso costituisce uno dei maggiori problemi del paese: «ce ne libereremo presto», promettono al Ministero dell’Economia, ma intanto il peso dei turisti sorregge robustamente lo sviluppo del paese, che ha operato una vigorosa riconversione produttiva dopo gli anni terribili del Periodo Especial, succeduto all’interruzione degli scambi con le nazioni del blocco socialista. Tra il ’90 e il ’95 sbarcare il lunario a Cuba è stato davvero un’impresa, con la carne di gallina e persino i platani (le banane da friggere in olio di semi) che raggiungevano prezzi vertiginosi al mercato nero.

Nonostante questo – dicono oggi i cubani più fiduciosi nel modello castrista – non una scuola è stata chiusa, non un ospedale. Anzi, il prestigio del welfare cubano cresce nel continente latinoamericano e oltre, tanto da inaugurare i primi esperimenti del cosiddetto “turismo della salute”. Allo scopo sono stati già firmati accordi con Colombia, Cile, Messico e Germania, mentre ci sono trattative aperte con le compagnie di assicurazione sanitaria del Canada. «Aumentano le persone che, da questi paesi, vengono a Cuba per fare terapie o subire un intervento – spiega Yulieta – poi restano qui per riposarsi e trascorrere la convalescenza in un villaggio vacanze».

Yulieta ci lavora, in un villaggio. Alle cucine, due settimane al mese: 23 anni, studentessa creola, abita a Remedios, una cittadina sulla costa davanti ai cayos, con un bambino e nessun marito. La scuola alberghiera, quella che frequenta da quasi due anni per imparare la professione, le piace abbastanza: «il ritmo è di quattro settimane in aula e quattro di lavoro nei resort o negli alberghi, ma si guadagna anche qualcosa. Mi piace, imparo le lingue, conosco persone che vengono da tutto il mondo».

E cosa le sembra del mondo che ha sentito raccontare, quello che non fa i conti con la tarjeta, la tessera alimentare; quello che non subisce quotidiane interruzioni dell’energia elettrica? Yulieta non ne sembra sedotta. Abbiamo dormito presso di lei due giorni, i suoi genitori hanno una casa particular, una delle soluzioni del socialismo di transizione che permette l’iniziativa privata in alcuni settori: la loro è una sorta di pensione casalinga autorizzata dallo Stato, cui pagano circa 280 pesos convertibili di tasse al mese. Sono tanti, ma ce la fanno: «sono quelli che ci vogliono per le scuole, per i servizi, per la sanità», taglia corto Yulieta. Suo figlio Ozmel ha avuto la meningite da piccolissimo, «una forma lieve – dice – ma ho potuto tenerlo due mesi in ospedale, con tutte le cure, senza sborsare un soldo».

Il padre di suo figlio è fuggito a Miami molti anni fa, con l’ultima grande migrazione, quella dei balseros che vide oltre 30.000 cubani tentare il mare verso la Florida, spinti dagli effetti terribili della crisi del ’94. Ogni tanto lo sente, lui domanda del bambino che sta prevalentemente con i nonni; qualche volta le ha anche chiesto di raggiungerla: «ma per affrontare il viaggio e il passaggio clandestino attraverso il Messico – obietta Yulieta – ti chiedono 10.000 dollari per un adulto e 2.000 per un bambino. Qui sto bene, ho potuto lasciare la scuola e il lavoro per crescere mio figlio nei primi anni, sapendo che dopo avrei trovato di nuovo il mio posto nella società. A Miami, che ne so? E poi… se li avessi dodicimila dollari, potrei fare la bella vita nel mio paese. Mica c’è bisogno di andare altrove!».

Questo reportage, scritto nel febbraio scorso, è stato pubblicato con alcune modifiche su “la Voce delle Voci” (anno XXV, n. 5) di maggio.

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12 Commenti

  1. scorrendo le tante pagine mi imbatto in questo blog, libertario, penso è già qualcosa … l’isola che c’è è incoraggiante come immagine che si propone di regalarti un sogno, ed allora vai avanti, avanti … ma non incontri mai Cienfuegos dal cuore strappato per essersi ribellato allo stemimio : “que ase,Fidel, porque estan matando los companeros” ? Il suo cuore sta appeso lassù,ora e sempre, come recita la frase di Fidel … recita su un proscenio dove migliaia e migliaia di companeros furono eliminati da te Fidel assieme al tuo Chè … fedele esecutore del male a fin di bene ! ed allora avverto un fremito, il sogno svanisce :
    è l’isola che non c’è ! è l’isola che pian piano si prepara ad entrare nel mercato, è l’isola che fa del mercimonio delle sue figlie la risorsa per comperare un compiuter, un carburatore, è l’isola che continua a far del male a fin di bene …

  2. “neopresidente Raul Castro, succeduto in piena continuità al líder maximo Fidel”. Per la serie l’ellissi sia con te.

  3. @ O ellittico The O.C.!

    E dunque? Che conclusioni trai da lassù, dalla tua Greyskull neocatecumenale? ;-)

  4. Ecco qualche buon motivo per leggere questo reportage fatto in-fuori casa:
    Per la ventata d’aria fresca contro la vulgata turistica e le fonti ufficiali. Perché è né pro né contro. Per lo sforzo di comprensione e di sospensione del giudizio rispetto a una realtà complessa e sfaccettata.
    Giuro che mai prima il pensiero fece sul serio, ma ora la voglia di vedere coi propri occhi ha intenzioni più salde.

    Paolo

  5. @Paolo
    io, che non conosco Cuba, ho invitato un amico, sposato con una cubana che vive ora in Italia, e che conosce l’isola da un decennio, avendoci abitato per lunghi periodi, a leggere l’articolo.
    Il suo giudizio è magnificamente sintetizzato dalle tue parole, avendo lui riconosciuto pienamente l’obiettività dell’articolo.

  6. Carissimo Pinto,

    quali conclusioni? Stanno tutte nell’incipit del pezzo: “Prima la liberalizzazione della vendita di lettori dvd, personal computer e forni a microonde, poi l’accesso ai telefoni cellulari, finora riservati a funzionari e dipendenti di società con capitali esteri…”. Dopo il mercato aspettiamo la democrazia.

  7. grazie per le letture, grazie soprattutto per le critiche

    @ The O.C.: mi sembra che la questione “democrazia a cuba” faccia parte dell’arsenale più arrugginito del pregiudizio culturale, se non altro perché si mettono a paragone storie, situazioni, sistemi e problematiche in buona parte non commensurabili. Sui limiti di questo discorso vedi Luciano Canfora (che non è certo socialisteggiante), “La democrazia. Storia di un’ideologia” (Laterza).

    Per me il senso (e il nonsenso) dell’eccentricità cubana nel mondo contemporaneo sta nell’aspirazione ingenua – e nell’involontaria ironia – del murale rappresentato nella foto: quanto è distante dalla terra la “morale della rivoluzione”, e chi potrà mai incarnarla…

  8. Caro giampo, finalmente sono riuscito a leggere il tuo “sentito” e “onesto” reportage. Mi servirà molto, come guida, visto che a dicembre, come tu sai, ripeterò il tuo stesso viaggio con la persona più importante della mia vita. Che dire, abbiamo discusso spesso di Cuba e del “mondo cubano” e siamo d’accordo su tutto. Non possiamo che ringraziarti per questo scritto, che stabilisce alcune verità spesso oscurate da un’infomazione superficiale e prezzolata.

  9. Caro Giampo,
    finalmente rileggo il tuo scritto, e a mia volta ti scrivo.
    Mi tornano alla mente le emozioni e il turbamento che precedevano la mia partenza per Cuba: speravo di riuscire ad afferrare la complessità di quei luoghi, superando le rappresentazioni superficiali che spesso circolano dalle nostre parti…
    Beh, credo di esserci riuscita.
    Grazie per avermi catapultata di nuovo su quell’isola, tra la sua gente e le sue “armoniose contraddizioni”.

  10. Mi piace leggere un reportage, guardare un luogo con gli occhi di chi generosamente mi presta la sua luce. Penso sia un tipo di scrittura che, se riuscito, è molto gratificante per il lettore, anche se potrebbe lasciare il desiderio di voler colmare il vuoto determinato dal non essere stati nel luogo narrato, viceversa il conforto proprio per non aver vissuto in quel tempo in quello spazio…
    Leggendo “L’isola che c’è” mi sento non solo gratificata lettrice, ma anche incoraggiata a intraprendere il viaggio, con la persona per me più impotante, verso questa terra, che già dai racconti di Ilaria, tempo fa, mi aveva catturato. Soprattutto, nel testo di Giampaolo sento di notare una cosa: la vita di chi vive a Cuba può, per chi si accontenta, trascorrere senza paura. Io, in questa Italia al centro della retorica Europa, mi accontento lo stesso, ma vivo in una continua paura…
    Grazie, Giampo.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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