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Dentro Babele

di Paolo Sperandio

[ Relativity, 1953, Maurits Cornelis Escher (1898 – 1972) ]

Affermano gli empi che il nonsenso è normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza) è quasi una miracolosa eccezione.

J. L. Borges
[24 agosto 1899 – 14 giugno 1986]
La biblioteca di Babele [1941]

    Fu stranamente afoso l’autunno del 1941 a Buenos Aires. Notizie di una guerra mondiale ma lontana animavano le nostre serate ai caffè: non c’è argentino tanto argentino da trascurare ciò che accade in Europa. Col pretesto di un’assonanza di nomi o di una foto, ci esaltavamo al conflitto come fosse una sfida tra gauchos.
    Io in verità partecipavo soprattutto per incontrare Adelaida, assidua alle dispute sui comunicati militari e sulle novità letterarie. Dato che ho poca inclinazione per gli eserciti, il più delle volte mi limitavo ad ascoltare la sua voce calda, un po’ roca di sigarette senza filtro, osservando come le labbra le danzavano mollemente nel parlare.
    Di più intervenivo quando si discuteva di questo o quell’autore. Terminata l’infatuazione per Lynch, le nostre lettere propendevano momentaneamente (almeno così speravo) all’ambientazione urbana di Edoardo Mallea, Enrique Larreta e Leopoldo Marechal. Adelaida condivideva con me l’antipatia per il romanzo sociale, prediligendo certi territori dell’inconscio sopra cui agivano i talenti meno conformisti. Di mondi laterali, di universi in ombra ragionavamo fino a tardi tra camerieri esausti che certamente ci maledicevano, ignari delle smisurate ipotesi dischiuse dietro angoli bui, o nelle profondità degli occhi verdi di Adelaida.
    In quel verde mi perdevo come nel colore del sogno. L’ultimo tram mi avvicinava ancora di più ad Adelaida, perché lo prendevamo soli soli: mi sembrava di entrare insieme a lei dentro il lato oscuro delle cose. Avrei voluto proporle di non venirne fuori mai più, certo com’ero che il capolinea di quella ferraglia doveva essere un posto dove esistevamo noi solo. Lei però scendeva prima di me, mi stringeva la mano e andava via senza che io comprendessi come aveva fatto ad accorgersi che eravamo già in Avenida Lugones.
    Andò così anche l’ultima sera. Avevamo parlato per tutto il tempo dell’ultimo libro di Borges (“Il giardino dei sentieri che si biforcano”, Buenos Aires 1941 – n.d.a.) e delle rivelazioni che offriva. La conformazione circolare e labirintica dell’universo, che tante volte ci aveva infervorato discutendo dell’opinabilità del reale, vi era asserita in poche pagine indicate come “Biblioteca di Babele”. Rammento ancora il vigore con cui Adelaida aveva redarguito gli scettici.
    Oggi che percorro senza riposo i cunicoli esagonali della Biblioteca, il ricordo di quel diverbio mi conforta nelle mie scelte di allora, e mi rende più dolorosa e presente la mancanza di Adelaida.
    Dall’oceano dové arrivare in quell’attimo la cenere dei bombardamenti, a ottenebrare i tanti esegeti in servizio. Fu l’orrore della miseria e della morte a indurre del brano una lettura simbolica: “racconto fantastico” lo definirono. Io soltanto ne rivendicavo il realismo. Adelaida prese le mie parti, anche se oggi sospetto che volesse attrarre così l’attenzione del giovane critico Vaquero, dalle dita ipnoticamente affusolate. Che l’universo consista in una serie concatenata di gallerie con scaffali; che in essa dimorino tutti i possibili libri formati dalla combinazione dei venticinque segni ortografici; che la Biblioteca sfugga alla normale concezione del tempo: Adelaida difese queste verità con ardore, di fronte all’incredulità dei presenti e alla mia commozione.
    Vaquero fu molto pacato, evitò di ingiuriarci e prese a obiettare con calma, rigirando quelle mani volubili. I suoi argomenti riguardavano l’inutilità: poiché nella Biblioteca sarebbero annoverate tutte le possibili combinazioni di lettere, la maggior parte di esse non avrà senso, diceva. Vi sarà il libro, infatti, composto solo dalla lettera m ripetuta centinaia di volte, o quello formato solo da consonanti palatali, o ancora quello fatto di un unico interminabile fonema che nessuno riuscirà mai a pronunciare. Esclusi i libri idonei alla cognizione (un frammento, nella vastità dell’insieme), a cosa serviranno tutti gli altri? Quelli privi di alcun significato, o quelli che travisano un’opera famosa, o che da un’opera differiscono soltanto per una virgola o un sinonimo…
    Assurdità!, pensai e continuo a pensare. Vaquero e i suoi accoliti pretendevano di intendere il trascendente con l’umano, di chiarire segreti indecifrabili. Riflettei che il flagello dei mortai ne avrebbe opportunamente umiliato le ragioni, se mai si fosse esteso al Sud America, oltre che devastato i corpi. Ma al momento il corpo di Vaquero restò intatto, e la furia con cui Adelaida prese ad attaccarlo somigliava a una schermaglia amorosa. Allora non me ne preoccupai, e riferii alla nostra tenerezza lo slancio con cui lei lo aggredì.
    “Naturalmente tu credi solamente a ciò che vedi” lo accusò, “diffido dei tipi come te”. Io che avevo fantasticato in gioventù esistenze galattiche dal respiro di zolfo e dalla pelle liquida, avrei voluto inginocchiarmi a venerare ogni sua sillaba. Ondeggiava le spalle parlando, lanciava occhiate analoghe ai lampi di quella guerra che ignoro se sia finita e se abbia lasciato superstiti.     Enunciava un assioma tutto nostro, Adelaida, e cioè che non l’uomo è la misura di tutto.
    Vaquero acconsentiva, non immaginavo perché, a mantenere alla discussione un tono astratto, non chiese mai “Insomma, dove li vedete questi vostri volumi e corridoi?”. Sorrideva nel confutare Adelaida, trascinava le dita da un posacenere all’altro. Lei supponeva insolite chiavi di lettura per i testi della Biblioteca, e illimitate. Perché una, affermava, potrebbe stare nel rapporto fra le virgole e i punti; un’altra fare riferimento ai soli righi che iniziano con la lettera p; un’altra ancora, non meno plausibile, dedursi dalla trasposizione musicale attuata sovrapponendo un pentagramma a ogni cinquina di righi di ciascuna pagina (va ricordato, con Borges, che ogni pagina contiene 40 righi, un multiplo esatto di cinque). Ma i detrattori insistevano. Devo ammettere che Vaquero risultò il più elegante nello sminuire il resoconto di Borges ad artificio letterario. Altri ci insultarono evocando pallottole e forni, e reclamandone il crepitio ai danni delle nostre bubbole. Un anziano avvocato giunse a definirci “sabotatori della geometria sociale”, né riuscii a dargli torto. Vaquero invece, nel congedarsi, non mancò di baciare la mano di Adelaida, e di stringere cavallerescamente la mia. Mi ferì il poco tempo che le sue labbra indugiarono sulla pelle di lei, ma di più mi ferì l’osservazione di Adelaida: “Di tutti, è quello dalla prospettiva più alta…”.
    Non mi ci soffermai. Ero troppo immerso nel connubio che mi legava a Adelaida, in quella notte di scelte. “Quanto a lei – mi aveva apostrofato Vaquero – non mi meraviglierei che se ne partisse da solo a esplorare le sue gallerie”. Su un solo punto sbagliava: che intendevo portare Adelaida con me. Il rigore architettonico di Borges imponeva decisioni finali: se la Biblioteca era il mondo, bisognava che io e Adelaida la percorressimo insieme, fino all’origine della nostra unione. “Non è di Adelaida – pensavo – un’esistenza di notiziari e pratiche d’ufficio”. E nel chiudere la radio e la porta di casa quella sera, constatavo che già la mia vita era cambiata. Il meccanismo della Biblioteca era già in me (in noi, speravo), sopito fino allora in qualche agglomerato di cellule.
    Per questo, ritornando con il solito tram, presi a confidarle i miei progetti. “Siamo i personaggi di un libro, Adelaida. Non scendiamo alla solita fermata – le dissi – questo tram ci porterà più lontano…”. “Ma sì – replicò – meglio tagliare i ponti con certa gente che non vede al di là dei suoi passi. Ci sono circoli più stimolanti dintorno, e anche mate più caldo”. Conoscevo la sua avversione per il mate immancabilmente tiepido che servivano al nostro caffè, ma pensai che parlasse per metafora. “Andiamo insieme mano nella mano” perciò aggiunsi. Ma non doveva avermi bene inteso, perché ribatté fuori luogo “Ha belle mani, d’accordo, ma non è detto che abbia ragione per forza…”.
    Si riferiva a Vaquero con un’enfasi eccessiva rispetto al passo che stavamo per fare, ma forse voleva compiacermi, e rinsaldare i nostri propositi. “Ritroveremo anche lui” sostenni, rivolto alla perfezione che è propria della Biblioteca. Perfezione come totalità: non esiste concetto o farragine o astrazione che la Biblioteca non ospiti, unitamente a ogni possibile variante e ai rispettivi contrari. Non esiste complesso di periodi, di iati, di dissonanze o stridori verbali che non riposi su un qualche scaffale in qualche poco illuminato corridoio esagonale. Ne deducevo che avremmo trovato presto o tardi anche il libro incentrato su Vaquero, per motivarne i rancori. “Ritroveremo anche lui” dissi a Adelaida che guardava fuori con dolce noncuranza. Fui grato alla Biblioteca che la sua perfezione implichi unicità: mai in alcun modo potrebbe contenere due volumi uguali, sicché per leggere ci saremmo messi vicini, stretti stretti.
    Pensai che un bacio, il nostro primo, doveva suggellare l’accordo. Presi piano con la mia la mano bianca di Adelaida, mi avvicinai alla sua bocca e la sentii esclamare “Oh, siamo già in Avenida Lugones. Ti saluto, a domani”. E stringendomela in fretta corse via.
    Così da decenni vago da solo per questi anfratti grigiastri. Il bizzarro comportamento di Adelaida fissò la mia decisione. “Me ne andrò lo stesso”: quest’idea mi rimbombava dentro col fragore di un bazooka (subivo la suggestione dei ripetuti bollettini). Darmi alla Biblioteca fu il conforto all’incomprensione di Adelaida.   Soltanto lì potrò ritrovarla, mi dicevo, solo nella dimensione illimitata del possibile. Quando avrà compreso finalmente quanto è angusta questa vita, e quanto è fatuo Vaquero, non potrà non raggiungermi. Allora io sarò lì ad accoglierla, a mostrarle le mie scoperte, le leggerò il libro dove è scritto che lei non poteva mancare di venire.
    Mi consolava che il viaggio non sarebbe stato infinito. La Biblioteca è provvista di confini. Tutte le possibili combinazioni di un numero dato di simboli entro un numero dato di pagine assommano a un totale finito. Non stetti a immaginare questa cifra (risultante, ripeto, da ciascun rapporto tra loro dei 25 simboli in uno spazio di 410 pagine, quante ciascun volume ne contiene) ma, rincuorato di potere forse un giorno tornare, partii.
    Da allora girovago frugando ripiani e scansie, in cerca di qualcosa che ancora ignoro cos’è. La mia speranza di incontrare un giorno Adelaida si è andata spegnendo, nell’accertare quanto sono lontani i nostri mondi. Anni di cammino e di pericoli (la Biblioteca non è priva di insidie) hanno fiaccato la mia risolutezza: anni di letture al chiarore oscillante di un lumino, di assalti a scaffali riposti, di dure ascese ai piani superiori… La mia testa deve essere bianca, i miei occhi riarsi, ma non ci sono specchi a duplicare gli inganni del tempo.
    Ora so che Borges aveva ragione, ma non so più perché mi trovo qui. Il ricordo di certe frasi di Vaquero, di un suo compiacimento in quella sera fatale, suggerisce che presagiva ciò che si andava compiendo. La degnazione con cui mi strinse la mano, come a un rivale sconfitto, affermando “Non mi meraviglierei che se ne partisse…”: completava il suo piano, invogliandomi a levarmi di torno. Mi toccherà leggere prima o poi la mia storia come quella di un innamorato schernito…
    Ho appreso dalle pagine l’inconsistenza di esistere, dai versi la forza costrittiva delle frasi. Mi è parso alcune volte che poesie tanto pure non potessero che ispirarsi a Adelaida. Così mi sembrava che fosse ancora vicina.
    Però forse la guerra ha raggiunto Buenos Aires e lei. Ho un modo di appurarlo.    Esiste un libro, uno solo, che può spiegare cosa davvero è successo, qual è il destino di Adelaida e quale il mio, e se potremo un qualche giorno riunirci: è il libro scritto da me, il racconto che ho composto senza saperlo per completezza della Biblioteca e del racconto.
    Da tempo non ricerco nient’altro. Conoscenze, misteri (quello dell’A-bao-A-Qu, per esempio, entità che un trattatello di zoologia fantastica asserisce viva solo mentre qualcuno sale le scale), tutto ho sacrificato al ritrovamento casuale di un nome sopra una copertina.     Vagabondando da un cunicolo all’altro ho incontrato altri ricercatori, folli che rimandavano il mio sguardo. Inutilmente chiedevo se avevano incontrato mai nel cammino una signora dai profondi occhi verdi e dalla voce roca, il loro biascichio non si fermava.
    Oggi che ancora mi trascino come un rettile ferito, sento parlare talvolta di suicidi, di bibliotecari caduti in un’impossibile fuga (l’universo non ammette altri spazi), o di sette che incendiano volumi. La Biblioteca ha fragilità e efferatezze. Io stesso ho assistito all’accoppiamento tra due libri, praticato da una banda di intersettori di fogli. Ma non ricordo quali libri erano.
    Adelaida, Vaquero, le nostre discussioni, la guerra… Non ricordo nemmeno se davvero esiste da qualche parte Buenos Aires coi suoi circoli e le sue donne, o se non stanno soltanto in qualche mia lettura. Comprendo invece i tanti esploratori che si sono lasciati morire per spezzare un tracciato che è destinato alla replica, o a replicare una replica.
    La cecità mi ha fatto andare avanti. Il vuoto forse, che altri chiama l’amore. Mi ha spinto lungo una strada che non doveva aver meta. Invece una meta c’era, c’è: l’ho con me, qui tra le mani, il mio libro…
    Lo tocco, lo sfioro incerto della sua consistenza, del peso… Carezzo la piegatura, il taglio grossolano, respiro l’odore di carta, mi tremano le dita. Quasi ho paura di ciò che vi sta scritto. Ora con cautela lo apro, lo sfoglio, ho le mani sudate, stringo quel che mi resta degli occhi, infine leggo: “Fu stranamente afoso l’autunno del 1941…

 

[ immagine da www.mcescher.com/]

 

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6 Commenti

  1. Sono felicissimo che la Resistenza continui, e che Paolo Sperandio, con la staffetta Orsola, continuino a combattere valorosamente.
    Perché – mi hanno informato – il nemico è riuscito ad attuare il suo piano. Realizzando al meglio i sogni più reazionari che da decenni coltivano gli esponenti dell’Antiumanità:

    *
    Letizia Alvarez de Toledo ha osservato che la vasta Biblioteca è inutile; a rigore, basterebbe un solo volume, di formato comune stampato in corpo nove o in corpo dieci, e composto d’un numero infinito di fogli infinitamente sottili. (Cavalieri, al principio del secolo xvii, affermò che ogni corpo solido è la sovrapposizione d’un numero infinite di piani.)
    Il maneggio di questo serico vademecum non sarebbe comodo: ogni foglio apparente si sdoppierebbe in altri simili; l’inconcepibile foglio centrale non avrebbe rovescio.

    [La biblioteca di Babele]

    *
    risolvendo, oltre tutto, certi problemi di maneggiabilità.
    Si tratterebbe – ma gli esperti ne potranno dare notizia più precisa – di una tavoletta formato A4, con superficie nemmeno di cristalli liquidi, ma di qualcosa di ben più efficiente, e, inserita nel suo magro spessore, una memoria, la cui valutazione più pessimista la dice capace di sopportare un’intera Biblioteca Nazionale.

    Ahimè

  2. Grazie il testo ha il coloro antico dell’oro. Ritrova il miraggio che fa di tutto lettore di Borges il viaggiatore mistico dei libri.

    Bellissimo.

  3. caro Paolo, è un racconto bellissimo, che si legge d’un fiato e intimamente borgesiano, grazie a te e a Orsola. La meravigliosa storia dell’A Bao A Qu,
    (Para contemplar el paisaje más maravilloso del mundo, hay que llegar al último piso de la Torre de Victoria, en Chitor. Hay ahí una terraza circular que permite dominar todo el horizonte. Una escalera de caracol lleva a la terraza, pero sólo se atreven a subir los no creyentes de la fábula, que dice así:
    En la escalera de la Torre de la Victoria, habita desde el principio del tiempo el A Bao A Qu, sensible a los valores de las almas humanas….
    ) si trova in rete ad esempio qui.

  4. Un bel racconto, come dice Sparz, si legge d’un fiato. Caro Paolo complimenti e speriamo di leggerti presto di nuovo.

  5. Sul Manuale di zoologia fantastica si legge di un tempo in cui “il mondo degli specchi e il mondo degli uomini non erano, come adesso, incomunicanti”, e di cui (aggiungo) forse conserviamo un’inconscia memoria. L’edizione Einaudi (1982, trad. di Franco Lucentini), peraltro, stravolge l’arruolamento che Borges suole praticare del lettore (“ordinaria e fortuita è la circostanza che tu sia il lettore di questi esercizi, e che io ne sia l’estensore”): applicando astrusamente tale enunciato, l’editore omette il nome di Margarita Guerrero, che è uno dei possibili lettori ma è parimenti la coautrice del libro. A tutti grazie dell’attenzione, ad Orsola della consueta amabilità e del lavoro prezioso, a Sparzani del link di accesso ad alcuni testi originali.

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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