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El boligrafo boliviano 19

di Silvio Mignano

29 maggio 2008

Oltre la terrazza c’è solo l’Illimani, che ti sembra di poterlo toccare, e invece sotto, invisibile finché non ti avvicini al bordo, c’è lo sprofondo della città, le vie non asfaltate, laccate di polvere, la bottega senza vetrine con davanti i sacchi panciuti di cereali, spessi riccioli bianchi, rigatoni di grana giallastra, la rotonda con al centro un giardinetto di erba secca e le ringhiere arrugginite e sventrate, un tronco senza rami, senza foglie e privo di gemme, nessuna macchina che giri attorno all’aiola, adesso sì, solo un camioncino alla rovescia, sottosopra per noi che lo osserviamo da quassù, con le ruote in alto come le zampette di Gregorio Samsa, il goffo arrancare dell’autista abbarbicato al volante che non si capisce se spinga o trascini.
Di qua un birillo di legno giallo scappa via – o vorrebbe, perché Claudio lo afferra privandolo della libertà centrifuga, ma le dita non trattengono, volutamente lo spingono via, sostituito adesso da due birilli rossi che volteggiano finché il giallo non rientra e prepotente li scaccia.
«Il giallo è dispettoso, si mette sempre in mezzo come vuole lui», osserva con una smorfia il giocoliere con i baffi grigi sotto un naso lungo e arrotondato come quello del padrone della Pimpa, la camicia a righine rosse commentata da un farfallino dello stesso colore.
I bambini ridono, seduti per terra in circolo o in piedi, ottocento scolari in uniforme azzurra, in un cortile di cemento spaccato e sbiadito da un sole impietoso, a quattromila metri, poco più in basso dell’orlo di El Alto, tre lati dello spiazzo racchiusi da ballatoi cadenti su cui si affacciano le aule della scuola República de Italia e sul quarto il regalo immenso, insperato dell’Illimani.
Adesso roteano le torce incendiate, tre, quattro, cinque, sei, Consuelo si abbassa, passa sotto le gambe di Claudio e gliele ruba mentre ancora girano, senza farne cadere nessuna, poi gliele lancia una per una, invitandolo a spegnerle. Il giocoliere con il papillon rosso ubbidisce, ma poi mette le torce spente per terra accanto a quelle ancora accese, e la fiamma si ravviva.
«Nooooo!», gridano i bambini, divertiti e sorpresi che un adulto così abile non riesca a capire una faccenda tanto elementare.
«¡Allí, allí, déjala allí!», gli suggeriscono esasperati, piegati in due dalle risate, dandosi manate sulla fronte, incoraggiati dalla giocoliera in abito verde, calze a righe multicolori, grembiule bianco, cappello rosso, scarpe grosse da pagliaccio.
Non capisce niente, vero, lasciano intendere le sue smorfie, ah, questi uomini, bambine mie, tutti uguali, a qualsiasi latitudine.

Siamo qui da qualche ora, in una scuola grande e desolata, nel quartiere più povero della città. Ho ancora davanti agli occhi i bambini seduti in silenzio nel cortile mentre gli leggo una favola di Franco Enna, una storia di orchi e pastori della Barbagia, una terra così lontana e diversa, montagne aspre al centro di un’isola al centro di un mare, ma qui, al centro di un cortile al centro di un dirupo nel cuore di un’isola di terra senza mare, a questi scolari interessano solo le eterne storie, l’orco che divora la famiglia della bambina, l’eroe che fa giustizia e riceve il meritato guiderdone, e tutti, proprio tutti, vissero felici e contenti.

Il direttore dice che ci sarebbe tanto bisogno di una copertura di zinco per il cortile. Il sole e la pioggia sono troppo violenti per gli allievi. In realtà la lista delle cose che mancano è una litania senza fine.
All’interno i corridoi sono enormi e bui, due ragazzini sfrecciano inseguendo un pezzo di legno che fa da pallone, il loro duplice dribbling è perfetto, ci sfiorano appena prima di sparire dietro un angolo.
Le aule sono cubi ampi e nudi, quasi nessun poster o cartellone alle pareti scrostate, lavagne verdi sui quali i gessetti scivolano lasciando tracce granulose, che si leggono a fatica. Banchi di legno assortiti quasi a caso, ma tutti invariabilmente stretti e scomodi.
Danilo e Franco dirigono un seminario al quale partecipano tutti i maestri della scuola e qualcun altro venuto da altri istituti del quartiere. Nell’aula acanto Iole sta facendo un test con i bambini più piccoli, di cinque o sei anni. Distribuisce dei fogli bianchi e li invita a disegnare una figura umana e il ritratto ideale della loro famiglia. Mi accomodo anch’io a fatica in uno dei minuscoli banchi per partecipare all’esperimento: incurvato sulla sediolina guardo gli scolari che disegnano. Loro, incuriositi, si lasciano appena distrarre da questo strano compagno di classe. Una bambina con un cappello rosa a tesa larga calcato sulla fronte, gli spessi occhiali da miope ingentiliti da un laccetto rosso, si morde il labbro di sotto mentre le dita abbracciano la matita, cercando di farsi strada tra il groviglio di linee.
E penso che in questa scuola la cosa incredibile non è che non si usino i computer, non è che non siano ancora arrivate le fotocopiatrici, non è che le lavagne siano ancora quelle del secolo scorso – altroché i pannelli di plastica bianca con i pennarelli delebili – non è che non ci siano nemmeno le penne e si debba andare avanti con le matite: no, la cosa incredibile è che perfino le matite sono un lusso, e alla fine del test la vera gioia, per questi bambini, è scoprire che possono tenersi quella con cui hanno lavorato, qualcuna nuova, altre ridotte a mozziconi con i segni dei dentini che scolpiscono umide corone sul legno giallo.

La scopa è rimasta in piedi da sola, prima che il giocoliere la inviti a ballare, facendola lievitare tra due bastoncini come una principessa fatta d’aria – l’aria rarefatta delle pendici andine.
È un miracolo, ma oggi ci stiamo abituando ai miracoli, come queste file ordinate di ottocento studenti e scolari che aspettano di ricevere un libro in regalo: bambini piccolissimi, ragazzini, liceali nella divisa verde, un poco seriosa, dei maturandi (una di loro mi ha appena esposto al pubblico ludibrio, invitandomi coram populo a esibirmi in una cueca di Tarija con lei: tra la musica e i battimani della scolaresca ho dapprima cercato di svicolare, poi di offrire una prestazione appena più decente di quella che ci si aspetterebbe da un orso ammaestrato).
Poco fa hanno cantato l’inno di Mameli a memoria, con una pronuncia a dir poco perfetta, ora sono in piedi, emozionati, le mani già tese a seconda dell’età verso le copie tascabili delle favole o dei Paesi tuoi di Pavese, dei racconti di Malaparte o delle poesie di Pascoli, ansiosi di leggere versi e storie che parlano di luoghi che probabilmente non conosceranno mai nella loro vita, se non attraverso questa scrittura.
Stringono al petto le copertine colorate, accarezzano il taglio bianco delle pagine, ridono increduli e si scambiano informazioni, mostrandosi l’un l’altro il libro che gli è toccato in sorte. La disciplina comincia a mostrare le prime felici crepe, qualcuno si insinua nella coda di chi non ha avuto ancora la sua copia. Vorremmo fermarli, fargli capire gentilmente che bisogna prima assicurarsi che tutti ne abbiano almeno una, ma come arginare questa marea che si gonfia e si accalca sempre più asfissiante attorno alle scatole di cartone?
Eccole, all’uscita, due ragazze dell’ultimo anno, che sorridono indecise se nascondere dietro la schiena il doppio bottino o mostrarlo maliziosamente per vantarsi del piccolo insignificante inganno che ha permesso loro di avere ben due preziosi volumetti.
«Forse, se gli italiani ritornano, riesco a completare l’intera serie», dice una delle due alla sua amica, e ammicca verso di noi.
Mi accorgo ancora una volta di essere atterrato in un’altra epoca e che la distanza da casa si misura in decenni più che in chilometri – e non so se ho davvero voglia di tornare indietro.

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2 Commenti

  1. Questo racconto che rispecchia una reltà d’altri tempi, in un luogo d’altri tempi, mi lustra gli occhi di emozione e commozione, di fronte a tutti quei bambini che non chiedono altro che…una matita e un libro.

    l’Illimani è sceso qui, ora…

  2. Un magnifico brano che mi ha commossa. Ho visto nella mia mente glo occhi dei bambini lucidi, quando si legge favole. immagino la scuola nell’alone di abbandono, eppure piccola terra di speranza, anche se il mare è allontanato, piccola terra dove si impara la curiosità, la fiammia di leggere, di giocare con piccoli mezzi.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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