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La lingua batte dove il dente duole


di Andrea Bajani

Sarà per deformazione professionale, o forse soltanto per via di una casuale fortuna dentaria, ma insomma di fronte all’espressione “la lingua batte dove il dente duole” non ho mai pensato a bocca e gengive. Piuttosto, in maniera più o meno istintiva, mi ha sempre fatto venire in mente la letteratura (e dunque la lingua) e la sua vocazione a raccontare il dolore dell’uomo. La lingua batte dove il dente duole, per me ha sempre significato quell’inesausta ricerca di dare una forma linguistica a una lotta, a una contraddizione. Significa che la letteratura va a cercare, si immerge, là dove un’epoca soffre, dove l’uomo si dibatte tra la ricerca istintiva della felicità e la miseria del tempo in cui vive, che è un tempo particolare, specifico, con contraddizioni e conflitti suoi propri. La lingua batte là dove l’uomo soffre, dove è malato. Perché dietro la malattia c’è un corpo che patisce, che dentro combatte per debellare il suo male. Quando il dente duole lo si sente pulsare, segno di un lavoro che si agita dietro, in mezzo alla carne. Così quando duole ogni zona infiammata, quando arriva la febbre.
Da bambino non avevo particolari fastidi ai denti, ma ciò nonostante mi ammalavo lo stesso. Ogni volta che succedeva mi colpiva la spiegazione che mi veniva data a proposito delle malattie, e soprattutto a proposito della febbre: era la conseguenza e la manifestazione di una battaglia che infuriava nel corpo. Più era accesa quella lotta intracorporea, più la febbre saliva, la faccia sudava e i brividi mi inchiodavano al letto. Così, afflitto nel buio della stanza, pensavo a questo incrociarsi di spade che si agitava sottopelle, da qualche parte dentro di me. Nel silenzio cercavo di sentire l’affilarsi dei ferri sui ferri, le urla di chi partiva all’assalto, e quelle di chi, colpito, si accasciava per terra. Non so come mai ma quelle battaglie le pensavo sempre come battaglie di antichi romani, gli avambracci infilati dentro gli scudi, gli spadoni sollevabili soltanto da uomini muscolosi e i pugnali che spuntavano fuori quando la spada cadeva. La battaglia che avveniva dentro di me, quella lotta che portava la febbre, la immaginavo così. Però non tutte le malattie erano uguali, e quindi non erano uguali tutte le febbri. Il dolore al dente è diverso dal dolore alla pancia, anche se entrambi possono portare la febbre. Mi dicevano che per ogni malattia infuria una lotta diversa, che dunque ogni dolore sembra uguale a quell’altro ma in realtà è un dolore che deriva da un diverso incrociarsi di spade.
Ecco, quando sento dire “la lingua batte dove il dente duole” penso esattamente a questa ricerca, della letteratura, di andare là dove infuria il dolore di un’epoca, di andare a capire quali spade si stanno incrociando. Penso a quest’inesausto battere della lingua, che è al tempo stesso una discesa sotto la pelle del tempo, e però anche un battere del tempo alla ricerca di quel ritmo, quella cadenza, quel suono, con cui ogni epoca fa mostra di sé, si affaccia alla storia. Ogni volta che si manifesta la febbre, la febbre sembra sempre la stessa ma non è così. Allo stesso modo io credo che ogni epoca abbia un suo proprio dolore, che nasce da un conflitto tutto differente dal conflitto delle epoche che l’hanno preceduto e da quelle che la seguiranno. Nei Quaderni dal carcere Gramsci scrive che “un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista ‘personalità’, è un ‘momento’ dello svolgimento, per il fatto che una certa attività fondamentale della vita vi predomina sulle altre, rappresenta una ‘punta’ storica: ma ciò presuppone una gerarchia, un contrasto, una lotta”. Ecco, è quella la lotta che fa il dolore di un’epoca, in cui ci si addanna sugli scudi e le spade, al ritmo dei fendenti menati. La letteratura va a toccare quel ventre molle che fa soffrire uomini e donne in un momento specifico della storia. Credo ci sia una disgregazione tutta particolare, nell’epoca in cui viviamo, uno sfaldarsi del tessuto sociale, un creparsi delle superfici che prima tenevano insieme cose e persone. È una disgregazione che lascia soli gli uomini in una maniera diversa: più sfiancata, più arresa e più rassegnata che mai. C’è un modo di essere soli inedito, perché è una solitudine che non cerca più un balsamo nei legami con le persone ma con gli oggetti che le circondano. È una solitudine del tutto funzionale a una società che vuole solitudini arrese, persone sfiancate. Ecco, è quello, mi sembra, il dente che duole in quest’epoca, ed è lì che la lingua prova a infilarsi. È quello il dolore che tenta di sillabare, a cui cerca instancabilmente di dare una forma. Ma quella forma non può che essere una visione, del dolore, una sua percezione alterata. Quando il dente duole la lingua lo tocca, e poi ne riporta indietro un’immagine abnorme. Il dolore al dente fa immaginare a chi lo patisce una bocca esplosa, fa pensare a un dente mostruoso. Così per ogni altro dolore del corpo, che infiamma, che porta la febbre, che fa sentire uno sferragliare di spade, una battaglia, una lotta. È lì che la lingua tocca, per paura di trovarlo ancora e, forse irrazionalmente, per il bisogno di sapere che c’è.

Questo pezzo fa parte dello stesso numero dello “Specchio” di cui abbiamo già pubblicato l’introduzione di Andrea Cortellessa e insieme a tutti gli altri interventi si trova anche qui

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11 Commenti

  1. Per restare fedele alla metafora ortodontica, il saggio si è sviluppato attorno al binomio letteratura-dolore. Ma non era meglio, dopo gli amarcord, affrancarsersene e passare a quello letteratura-condizione umana (storicamente data, s’intende)? E nella “condition humaine” c’è dolore, sì, ma anche sogni, gioie, illusioni, piaceri, magari dolorosi, sì, come insegna il Divin Marchese. Ma forse lo spazio di un saggio (benché un po’ ridondante) era insufficiente, ci sarebbe voluto quello di un trattato.

  2. PS. (e pardon): Magari la parte seconda potrebbe essere: “La lingua batte dove il piacere esplode”. E allora vai con le “Lolite”.

  3. A proposito di scudi, spade, epoche, popoli.
    Questo è il dolore di Alce Nero, sciamano della tribù dei Sioux Oglala.
    Dopo il massacro di Wounded Knee.
    “Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, ancora vedo le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone a zig-zag, chiaramente come li vidi coi miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, lassù, sulla neve insanguinata, e rimase sepolto sotto la tormenta. Lassù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno… il cerchio della nazione è rotto e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro, e l’albero sacro è morto.”
    E’ in calce al testo più commovente e addolorato che abbia mai letto: Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, di dee Brown.

  4. O.T. (ma è che sono Indiani)

    Sono pienamente d’accordo con plessus che il libro di Dee Brown sia uno dei libri che provocano più commozione: una ripresa in diretta della sconfitta e della fine di un popolo.
    Ma ci sono altri motivi per cui Alce Nero si mostra così addolorato.
    Alce Nero era cugino di Cavallo Pazzo, l’ultimo grande condottiero dei Sioux, uno sciamano che combatteva. Contro la tradizione.

    Il fatto importante, descritto minuziosamente nella sua biografia,
    fu che Alce Nero, quando si isolò, come tutti i giovani, in montagna, per avere la sua “visione” personale – che in quelle condizioni di privazioni e sofferenze non tardavano ad arrivare – ebbe due visioni.
    E mai visioni furono così spettacolari e così “numinose”.
    Una prima, che sembrava indicare un futuro di pienezza e di forza per quel popolo. E una seconda, più tecnica, che sembrava invece indicare tattiche di guerra contro bianchi. Comparendo, in quest’ultima, un soldato che viene colpito mentre sta, col suo cavallo, dentro l’acqua.

    Ma il giovane Alce Nero, sconvolto da quell’esperienza, ebbe paura, e non riferì i sogni, come avrebbe dovuto fare, agli anziani.
    I suggerimenti, eventuali, della visione non pervennero a Cavallo Pazzo, e questo non pensò – ma è solo una mia congettura – di colpire l’esercito americano avvelenando le acque a loro necessarie.

    Casualmente questo tema delle acque avvelate compare anche nel film “Balla coi lupi”. Assieme al tema del “guado”, che C.G.Jung considera uno degli archetipi che governano la paura, il timore, la debolezza.

  5. Soldato blu, sì, la mia memoria fallace richiama vagamente una raffigurazione indiana della prima visione, positiva, con lo sciamano Oglala al centro del mondo, sul suo baio, a fianco dell’albero sacro. Ma la seconda non la ricordo. D’altra parte lessi Alce Nero parla un quarto di secolo fa, credo…
    Troppo rare le rappresentazioni letterarie del dolore patito dalla nazione dei nativi americani. Ogni volta che è cambiata la Storia, alle spalle ci sono eccidi di popolazioni. Mai raccontati a sufficienza.

  6. La storia la fanno i vincitori, e questa sorta di adagio conferma la sua drammatica verità quando i vincitori non solo tacciono o falsificano la storia di vinti, ma ne distruggono anche la memoria e il sapere. Conosco poco la storia delle etnie indiane dell’America del Nord, ma passando a quella del Sud, e in particolare all’area Maya, voglio solo menzionare l’opera di un francescano, dunque uno “spirituale”, Diego de Landa, che, mandato a convertire quelle popolazioni, ne mandò al rogo tutti i documenti scritti. E non disdegnò di mandare al rogo anche degli indigeni, che tanto non erano cristiani. (Poi si pentì, e scrisse “Relazione delle cose dello Yucatan”, ma ormai era troppo tardi).
    Passando dal dolore della storia a quello della letteratura (per non continuare OT), mi pare che gli scrittori oggi siano più impegnati a contemplare e scrivere il dolore del proprio ombelico che interessarsi al dolore altrui.
    Forse per ignoranza o perché i miei neuroni sono pigri, ma se dovessi su due piedi dire di uno scrittore che ha scritto del dolore secolare di intere popolazioni, dovrei andare fino in Uruguay e scomodare la tremenda e stupenda “Memoria del fuoco” di Galeano.

  7. La storia la fanno i vincitori, e questa sorta di adagio conferma la sua drammatica verità quando i vincitori non solo tacciono o falsificano la storia dei vinti, ma ne distruggono anche la memoria e il sapere. Conosco poco la storia delle etnie indiane dell’America del Nord, ma passando a quella del Sud, e in particolare all’area Maya, voglio solo menzionare l’opera di un francescano, dunque uno “spirituale”, Diego de Landa, che, inviato a convertire quelle popolazioni, ne mandò al rogo tutti i documenti scritti. E non disdegnò di mandare al rogo anche degli indigeni, che tanto non erano cristiani. (Poi si pentì, e scrisse “Relazione delle cose dello Yucatan”, ma ormai era troppo tardi).
    Passando dal dolore della storia a quello della letteratura (per non continuare OT), mi pare che gli scrittori oggi siano più impegnati a contemplare e scrivere il dolore del proprio ombelico che interessarsi al dolore altrui.
    Forse per ignoranza o perché i miei neuroni sono pigri, ma se dovessi su due piedi dire di uno scrittore che ha scritto del dolore secolare di intere popolazioni, dovrei andare fino in Uruguay e scomodare la tremenda e stupenda “Memoria del fuoco” di Galeano.

  8. Sono veramente pochi gli scrittori scavatori dell’inconscio che dall’humus del proprio dolore riescono a produrre terriccio universale ove ogni lettore può identificare la piantina delle proprie sofferenze.
    Ancora più difficile la missione della letteratura di scassinare “la solitudine che non cerca più un balsamo nei legami con le persone ma con gli oggetti che le circondano”, la solitudine “funzionale a una società che vuole solitudini arrese, persone sfiancate”, come vede giustamente Bajani.
    Se la gente intendesse, grazie ai libri, che A) la Storia passa attraverso il Dolore e che la propria melanconia, il proprio sottile mal di vivere sono ben poca cosa in confronto, e che B) la sfrontatezza di certa menefreghista gioia di vivere è solo un preservativo che può bucarsi da un momento all’altro, avremmo una società migliore.

  9. La fine della Storia. Forse. Almeno per il momento. Qui. Da noi. Viviamo in città plurireligiose, pluri…, pluripluri… e bla bla bla. Slegate dal loro stesso passato. Una condizione senza precedenti umani.

  10. C’entra molto poco e forse poco interessa, ma anch’io sono sempre stato affezionato a questo detto cosi’ bello della nostra lingua. Per me la lingua batte dove il dente duole perche’ e’ il dente che la chiama, e’ un fatto inevitabile, altrimenti batterebbe altrove. Dunque non e’ la lingua che sceglie, ma il dente. Questo vuol dire che i fatti aspettano solo di essere raccontati. Su questa falsariga, qualche mese fa, ho iniziato a sperimentare la lettura delle notizie dei quotidiani in chiave letteraria. E’ un esercizio per me interessante di cui, chi vuole, puo’ vedere i risultati su un blog che si chiama http://doveildenteduole.blogspot.com/
    Il tema, molto bello, di questo post e’ tutt’altro, ma la coincidenza, per me che sono un lettore affezionato di NI, era troppo golosa per non approfittarne.
    L

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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