La scelta 


di Alessandra Galetta
Il 23 maggio, alle otto e un minuto di mattina, un uomo chiuse a chiave una porta fradicia di umidità e si chinò su un water ancora puzzolente di disinfettante.
L’uomo ebbe un paio di conati e poi rimase immobile, a occhi chiusi, emettendo respiri lunghi e regolari, infine tirò lo sciacquone e uscì, schiarendosi la voce e armeggiando con la cerniera dei pantaloni. 
Dopo aver verificato che il locale fosse vuoto, l’uomo sollevò il viso verso l’alto, notò che la  telecamera era in funzione e si domandò se la sua immagine fosse andata in onda o fosse stata archiviata insieme alle centinaia di altre che erano state riprese in quei minuti. Alla fine concluse che se pure uno dei vigilanti l’avesse guardato non avrebbe avuto sospetti: era un impiegato qualunque che aveva appena pisciato e soprattutto era in orario. Il pavimento di plastica  grigia  era lucido d’acqua, ma c’era qualche tratto già asciutto su cui spiccavano impronte di diverse dimensioni.  
Poggiando i piedi su quelle, l’uomo – che si chiamava Tonino Pinna ed era  impiegato alla fabbrica Motori&Co, il luogo  da dove comincia questa storia – si avvicinò al lavandino con l’intenzione di sciacquarsi la bocca, ma la sua mano si fermò poco prima di arrivare al rubinetto: c’era un capello, lungo e nero sulla ceramica giallognola. 
Il capello aveva la forma di un  punto interrogativo.
A pochi centimetri di distanza ne individuò altri due, corti, spessi e di colore più chiaro, che parevano le setole di un il maiale. 
Tutti riescono a rubare qualcosa in questo luogo in putrefazione, persino nell’anticamera di un cesso, tranne io, sussurrò fissandoli come se potessero rivelargli a chi appartenessero e quali azioni avessero compiuto i loro proprietari poco prima.

Poi si ricordò di nuovo della telecamera, si schiarì ancora la voce, e si chiese se fosse stato visibile il movimento delle labbra. 
Cazzate! Imprecò nel pensiero. Questo posto mi stimola sempre più la paranoia e sto prendendo l’abitudine di bisbigliare a me stesso, come i matti. 
Avvicinò il viso allo specchio quadrato, sbeccato negli angoli,  ma quello che vide non gli piacque e si ritrasse di scatto. 
Se almeno non fossi costretto a radermi tutte le mattine! Potrei mimetizzare meglio  questo colorito da limone e tutto quello che c’è sopra! 
Si tolse gli occhiali, di una montatura sottile e metallica, e si avvicinò ancora.
Gli occhi di Tonino Pinna erano verdi,  di un verde intenso piuttosto inusuale, con il contorno che sfumava nel  nocciola. Anche del naso si considerava soddisfatto: non imponente ma nemmeno minimo, con un’incurvatura lieve che gli conferiva personalità, ma da lì in giù iniziava la catastrofe che aveva segnato il suo destino. 
La bocca aveva la forma di un uovo, la grandezza di un uovo di quaglia per la precisione, con labbra carnose e lucide per la sua mania di bagnarle in continuazione con la punta della lingua, ma a rovinare  la sua immagine era soprattutto il mento, curvo come una virgola. 
Durante gli anni del liceo era stato perseguitato con il soprannome di Grande Scucchia e anche il giorno dell’uscita dei risultati degli esami di quinta, quando si erano salutati con grida gioiose, promesse d’incontrarsi ancora, ma ansiosi di lasciarsi alle spalle quella scuola di preti, c’era stato un coro di “Ciao grande Scucchia” anche se il tono era ormai affettuoso più che canzonatorio. 
Grande per la triste allusione alla sua statura che misurava ora che era un uomo adulto centosessantotto centimetri e che con le scarpe col tacco che aveva cominciato a portare a un certo punto della sua vita impiegatizia, svettava a centosettantatre. 
Sollevò le labbra e scoprì i denti. 
Denti dritti, candidi, leggermente aguzzi, su cui non c’erano dubbi: costituivano il suo cavallo di battaglia, ma si possono fare conquiste grazie alla dentatura se uno non ride, anzi non sorride praticamente mai? E come se non bastasse si era trovato una donna che gli faceva crescere il complesso pure per ciò di cui avrebbe dovuto essere fiero.

Accadeva, infatti, che sua moglie  nei momenti intimi si lasciasse andare senza più la vergogna iniziale, purtroppo però nel manifestargli la sua passione gli sussurrava nelle orecchie, procurandogli per giunta un fastidioso solletico, una frase che lo raggelava: il mio squaletto. Il mio squaletto d’oro. 
Allo specchio, dimenticandosi della telecamera, Tonino Pinna sillabò la frase. 
Già se non l’avesse deformata con un diminutivo, la parola squalo, sarebbe stata meno mortificante. Perché quell’allusione a piccolo lo riportava al passato, a quella piccolezza che gli aveva avvelenato l’adolescenza. Sì, tutto era ripetitivo.  Lui stesso lo era. Ripetitivo nel cervello e nelle azioni, non nelle parole però, alle parole si sforzava di stare attento, dentro e fuori, e pretendeva, almeno dalla donna che l’aveva convinto a sposarsi davanti a un altare, la stessa attenzione.
Aveva pensato di spiegarle quanto lo infastidisse. Ci aveva pensato piùvolte durante il tragitto in pullman, era un viaggio prolifico di riflessioni oltre che di angustie, quello, ma a freddo non ce la faceva ad affrontare l’argomento.  Magari è un’abitudine passeggera, si diceva, che prima o poi sostituirà con un’altra, e a caldo, quando cominciavano le procedure che li avrebbero portati all’amore, scappava da quel discorso come si fugge da una malattia contagiosa perché aveva un effetto nefasto sulla libido, e il suo Piero, come gli aveva insegnato a chiamarlo sua madre, non rispondeva più ai comandi. 
Proprio quella notte, dopo due settimane di rifiuti ostinati, Antonella aveva acconsentito con un sospiro, anzi con un prender aria su cui ci sarebbe stato da indagare, ma lui, Tonino Pinna, invece di chiedere: “sei sicura, ne hai voglia, perché se non ne hai voglia non insisto” l’aveva ignorato, aveva esagerato il suo desiderio e aveva proseguito e quando stavano per compiere l’atto finale, lei aveva soffiato fuori quella frase odiosa e Piero e il suo  proprietario si erano afflosciati drammaticamente, senza possibilità di recupero. Dopo un paio di secondi c’era stato il clic dell’interruttore e  Antonella con gli occhi spalancati, un’espressione da pesce di tre giorni, aveva domandato: che succede? 
E lui che finalmente poteva liberarsi di quelle due parole insopportabili, aveva balbettato: scusa, è il caldo e la stanchezza insieme.
Non riusciva più a opporsi perché era immerso nella depressione fino al collo, ecco che gli succedeva. Amava sua moglie, certo non con l’intensità di quando erano fidanzati, ma era un effetto, quello, che capitava a tutte le coppie e dunque nella norma. A questo si aggiungeva che ogni volta che si deprimeva, cominciava a macerarsi sulle donne che non aveva avuto proprio a causa di quella sua faccia e altezza del cazzo.
Aprì il rubinetto e osservò il capello mentre perdeva la sua forma. 
Un punto interrogativo. Non credeva in dio, non aveva fede o fiducia in nulla e nessuno, a  eccezione di una forza misteriosa che si sprigionava dalla natura e dagli oggetti e che, a volte, si manifestava attraverso dei segni per aiutarlo a correggere la rotta. Come adesso. 
Quel segno, concluse con un singhiozzo e un rigurgito amaro, lo invitava a riflettere e a prendere una decisione. 
Andarsene da questo posto, per esempio.
Sbuffò, esasperato. 
Mi devo calmare, si disse, ma mentre cercava di rallentare il respiro, nello specchio gli apparvero le luci al neon, i muri macchiati dall’umidità, le poltrone sbilenche, gli scaffali infestati da zanzare, i computer che ronzavano come elicotteri, gli impiegati che si urtavano uno con l’altro come topi impazziti. E poi ancora: i progetti annullati dal capo o soffiati dal collega che prendeva il suo posto senza guardarlo in faccia, e i sussurri nella stanza delle fotocopie e nei pressi del distributore di caffè. Sussurri malevoli, cinici, irriverenti per l’individuo. 
Al fiele, come il contenuto del suo stomaco.
E scendendo più giù, fino a rintracciare il punto di partenza: la morte del suocero, l’unica persona degna di stima della famiglia Losanga  e il conseguente trasferimento della suocera nella sua casa, un soggiorno che sarebbe stato “breve, brevissimo!” e che durava da quattro mesi ormai.
E il bisbiglio di Antonella sotto le lenzuola: facciamo un figlio Tony! Facciamo un figlio con milleduecento euro al mese? Come lo nutri questo figlio con il latte del seno fino a vent’anni?
E quella strega della suocera  che di notte dimenticava le luci accese quando andava a pisciare? E sempre lei, la suocera, che la domenica mattina s’appostava davanti alla loro stanza da letto e camminava avanti e indietro per settemila volte? Aveva provato a farglielo notare  bonariamente: “ehi, suocera le sentinelle stanno sull’attenti, mica passeggiano”. E per quella frase scherzosa era stato accusato di averla chiamata passeggiatrice ed era una settimana che lo fissava con la fronte aggrottata e gli occhi piccoli da topo, occhi che gli si piantavano nella mente quando si lavava i denti e gli rendevano difficile prendere sonno. 
E il giorno prima, quando si era messo a riordinare i cassetti dell’armadio e aveva ritrovato l’attestazione con cui l’esercito americano rendeva onore a Cesare Losanga per aver salvato tre soldati inglesi. Aveva sospirato, s’era alzato rovesciando la sedia, aveva preso un martello e un chiodo e aveva attaccato sulla parete il ricordo di colui che gli aveva trasmesso la passione per la storia. Era rimasto a contemplarla, commosso. Aveva pensato che era il momento di bersi un tè e un po’ smarrito si era diretto in cucina appena in tempo per catturare questa frase: ogni azione che compie   sfida contro di me. Anche il quadro di Cesarino l’ha attaccato lì apposta, per lanciarmi il messaggio: lui era grande, tu non vali niente. 
Era circondato dal pettegolezzo e dalla maldicenza, dentro e fuori, ovunque si trovasse! 
Certi momenti, se abbassava le palpebre, rallentava il respiro, gli pareva che il brusio di parole malevoli, di frasi inutili concepite solo con lo scopo di ferire l’altro o di ricavarne un beneficio personale s’alzasse in volo come uno sciame compatto e l’avvolgesse e lo comprimesse. E quello sciame non si quietava fino a che del suo corpo non rimaneva nulla.
All’inizio, per liberarsi di questa immaginazione era sufficiente raggiungere un lavandino e sciacquarsi la faccia per essere di nuovo in grado di rientrare in pista, di solito la pista che lo riconduceva alla sua scrivania del quinto piano, la sesta sulla destra. Ultimamente, invece, l’angoscia era divenuta così profonda che sempre piùspesso la nausea era seguita dal vomito. 
Questo accadeva proprio a lui, a Tonino Pinna l’ingegnere, e il suo orgoglio gli impediva di confidarsi con qualcuno, persino con sua moglie.
Ogni problema ha una soluzione. Ogni problema razionale ha una soluzione, si correggeva con un sospiro. E aveva cominciato anche a parlarsi dentro la testa. Un’altra fissazione, e le fissazioni sono pericolose perchÈ  stai fermo sempre sullo stesso punto, ignori il resto e vai fuori dalla realtà. 
Eppure, ne era sicuro, tutto dipendeva da una serie di elementi che si erano combinati sfavorevolmente insieme, bastava eliminarne uno e avrebbe ripreso a vivere senza dolore. Oppure liberarsi di tutti in un colpo solo. 
Andarsene dalla fabbrica, da quella casa, dall’Italia. 
Un cambiamento radicale, altrimenti avrebbe continuato a vomitarla la sua vita infelice, tutte le mattine.
Spinse il bottone del distributore di caffè e, un poco confortato dalla conclusione dei suoi ragionamenti e dal tepore del bicchierino di plastica, con la faccia rivolta al pavimento, si avviò alla sua scrivania.

(Il brano è tratto dal romanzo La scelta, capitolo 1 
)

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3 Commenti

  1. Grazie Maria Luisa,
    per il gusto dato con questa prima pagina.
    Mi sembra un personaggio commovente, il marito.
    Questo pezzo illustra una cosa che accade nelle famiglie: si dicono parole che fanno un male terribile. Sotto velo inoffensivo porta in sé veleno. Il ritratto mi è piaciuta per la precisione e l’originalità.
    L’occhio della camera rappresenta forse l’occhio che non si toglie dalla sua apparenza fisica: il suo complesso.

  2. Véronique, sei una donna preziosa e con una composizione di sensibilità+intelligenza non comuni. Grazie a te.

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Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta Sono dottore di ricerca in Politica Economica (cosiddetto SECS-P02) Dal 1997 svolgo in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità sociale, ambientale e economica e come coordinatrice di progetti culturali. Collaboro con Fondazione Museo dell'Industria e del Lavoro di Brescia e Fondazione Archivio Luigi Micheletti. Sono autrice di paper, articoli e pubblicazioni sui temi della sostenibilità integrata in lingua italiana e inglese.
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