Autoritratto con sisma

di Gianluca Gigliozzi

Lunedì 6 aprile ore 7:04

– Pronto, Gianluca? – Oh Luigi, che sorpresa! Come mai a quest’ora chiami? – Ma non sei a L’Aquila? – No, veramente sono al nord, per una supplenza. Te l’avrei detto, è che non ho avuto il t… ma perché, che è successo? – C’è stato il terremoto a l’Aquila. È crollata mezza città. Cerca di contattare i tuoi…

È una bella fortuna che i miei rispondano subito al cellulare. Di lì a poco sarà impossibile ricontattarli, le linee saranno sovraccariche. Mia madre fa fatica a parlare, le trema la voce. Mi passa mio fratello, che li ha raggiunti nel frattempo (abita in un paese che è stato solo sfiorato dal sisma della notte). Mi dice che stanno bene, la casa ha retto benissimo alla scossa potente delle 3:32; neanche una crepa all’intonaco; neanche i mobili sono caduti (solo cristalli in frantumi e libri proiettati fuori dalle mensole). è riuscito, non sa nemmeno lui come, a ritrovare nonna tra la folla atterrita che si è riversata fuori; pare che, in un primo momento, l’abbia messa in salvo la badante, mentre due studenti universitari l’hanno presa e portata in strada (mia nonna abitava proprio in via XX settembre, che a quell’ora ancora non so che risulterà una delle più danneggiate). I miei nel caos notturno si son messi a cercare mia zia, al cui appartamento sono crollate le murature. I parenti se la sono cavata, alcuni hanno però la casa lesionata. Accendo la televisione ed ecco subito le immagini delle macerie. Forse non ci voglio credere che quella è la città in cui sono nato e cresciuto. Mi vesto e scappo a scuola. I colleghi sanno già tutto. Mi prendo la mattina per telefonare ai pochi amici che sono rimasti a vivere a L’Aquila, ma riesco a contattare solo quelli che abitano in alcuni paesi nei dintorni, a Roma o all’estero; mi dicono che hanno avuto quasi tutti le case danneggiate, chi più chi meno, ma per fortuna genitori e parenti pare siano sani e salvi. Una delle persone che riesco a rintracciare m’informa che la mia madrina di battesimo è morta per il crollo del soffitto della cucina della sua bella casa in centro. Continuo a chiamare ma le linee restano sovraccariche: secondo la voce automatica i numeri da me digitati non esistono nemmeno; questa pretesa non-esistenza di numeri che so per certo esistenti mi fa raggelare. Provo a telefonare anche a persone che non risento da anni, ma niente da fare. Mi tengo lontano dalla televisione e insisto con le chiamate. Qualcuno dalla città riesce a contattarmi o mi manda un sms per rassicurarmi. Di molti non saprò nulla per ore, di alcuni non saprò nulla per giorni. Alla fine mi decido e riaccendo la televisione. In genere la guardo pochissimo, solo un po’ il telegiornale. Ma lunedì 6 aprile divento un telespettatore accanito; mi faccio almeno quindici ore davanti allo schermo. La mattina la passo letteralmente tremando davanti alle immagini di una città che dicono mia, ma che in realtà stento a riconoscere; alterno brevi scoppi violenti di un pianto non liberatorio a una frastornata incredulità.

Di solito dentro lo schermo la sciagura si delinea sempre come la sciagura degli altri. Si può essere compassionevoli e partecipi quanto si vuole davanti alle sciagure altrui, ma si resta sempre ancorati ad un altro livello di realtà, intangibili. In questo caso la sciagura mi tocca in prima persona. È la mia città che è colpita (e ancora non ho idea, quel mattino, delle proporzioni che assumerà il disastro); sono i miei concittadini a essere seppelliti dalle macerie, sfigurati dai crolli o rimasti senza nulla o quasi. La sciagura è stavolta la sciagura della città in cui sono nato e cresciuto, e che ho sempre amato per la sua struttura tortuosa e stratificata, e per il suo essere città di montagna. Ma in quelle ore di lunedì 6 aprile io ne vedo le rovine e le macerie da spettatore, e a tratti non la riconosco nemmeno come la mia città: la città delle mie lunghe passeggiate, dei dislivelli e dell’eterogeneità spaziale che mi hanno segnato e formato nel profondo. Molti dei servizi si concentrano sul quartiere dove si è sbriciolata la Casa dello Studente, e io quel quartiere sventrato lo percepisco come il più irriconoscibile tra tutti quelli che mi vengono offerti da inquadrature febbrili; se non fosse per la voce del cronista che collega il nome “L’Aquila” a quel determinato spazio inquadrato dalla galoppante telecamera di turno, io non sarei certo di poter identificare i luoghi visualizzati. Questo disorientamento mi sconvolge, ma al tempo stesso scatta nella mia mente una concatenazione reattiva di pensieri poco organizzati, che forse è tipica dello spettatore televisivo di sciagure, e che ha una funzione di autodifesa dall’orrore intravisto, di auto-rassicurazione, come se mi dicessi: “Forse non è così grave come sembra… magari la stanno facendo più tragica di quel che è davvero. Forse è solo la zona della Casa dello Studente a essere colpita…”; in realtà quello che presento qui tra virgolette è già un distillato fin troppo coerente di quello che ho pensato come telespettatore di una sciagura che stavolta per me non restava confinata oltre uno schermo.

Passano le ore e sempre di più dalle immagini si capisce che la devastazione ha assunto una dimensione inaspettata. Cresce il numero dei morti e dei dispersi. Dietro i cronisti si intravedono chiese e monumenti che conosco bene, sfondati, disseminati di squarci; cupole e absidi trafitti, campanili vacillanti; illustri pietre centenarie strappate da una magnifica forma e restituite all’informe da cui furono prelevate secoli fa per essere lavorate da artigiani sapientissimi. Passo le ore più angosciose davanti alle immagini della mia città che riconosco solo a momenti, e sto sempre peggio nel ruolo di spettatore a cui sono costretto. Vorrei partire subito, ma le autorità e i cronisti ribadiscono che la città è inaccessibile; perfino i viadotti della Roma-L’Aquila si dice siano a rischio e, come tali, sottoposti ad accertamenti tecnici. Dalla città è facile uscire, ma impossibile entrare se non per gli automezzi del soccorso. Le immagini continuano a scorrere. Altri morti, altri estratti vivi, gruppetti che vagano tra le rovine. Facce cupe di cronisti che nominano solenni cifre che cambiano a seconda dei TG, dei servizi, dei quartieri. E, ovviamente, le scosse che continuano. Le chiamano di assestamento, ma di fatto molte di queste scosse, spesso intense, finiscono di dissestare il già crepato e piagato.

Mi fa un effetto straniante sentire i nomi dei paesini intorno alla città, anch’essi colpiti dal sisma, alcuni addirittura rasi al suolo: nomi che non mi sarei mai sognato di sentire pronunciare in un telegiornale nazionale, e che a volte i giornalisti storpiano in modo comico, non conoscendo la posizione giusta dell’accento. Così come mi fa uno stranissimo effetto intercettare la cadenza cantilenante e famigliare nelle risposte degli intervistati. Io sto sempre peggio, perché sento di essere del tutto fuori luogo là dove sono, e l’unico in cui desidero stare ora è quello in cui sono nato e cresciuto e da cui ho sempre desiderato fuggire: perché L’Aquila, come tutte le città di provincia, è pur sempre una città da cui si sogna di fuggire: una città in cui è difficile combinare qualcosa. In declino economico da anni, là si respira, almeno per chi ci è nato, un senso di inerzia strisciante e diffusa, che contrasta con le sue potenzialità turistiche e con la sua vocazione universitaria (e la dinamica vita universitaria indubbiamente ha valorizzato questa città fino a ieri: in effetti gli studenti ci si trovavano bene, in genere, perché offriva molto a livello di locali come di eventi). Quella mattina del 6 però non avrei voluto trovarmi in nessuna parte al mondo se non in quella città, di cui non sono mai stato particolarmente orgoglioso come nei momenti in cui la vedo cadere a pezzi nelle immagini più crudeli che mi sia mai toccato vedere. Avrei voluto essere già là e invece ero a centinaia di chilometri di distanza, bloccato: costretto a vivere a distanza perfino un evento che mi riguardava e mi riguarda da così vicino.

I giorni seguenti…

Il mattino dopo l’alba parto per Roma, deciso a raggiungere la città con un amico o in qualunque altro modo, non riuscendo più a resistere nella veste di telespettatore. Nel frattempo vengo a sapere che l’A24 è stata riaperta al traffico nella direzione verso L’Aquila. Nel viaggio in treno vengo raggiunto dalle foto dei giornali dei vicini passeggeri: ripiegati sempre in modo da far affiorare cumuli di rovine, resti di vita non più vivente, le vergogne dell’Ospedale sfasciato e della Questura accartocciata… Una telefonata a una vecchia amica che mi parla di alcuni morti di mia conoscenza. Più tardi scrivo un sms a un amico che vive all’estero riguardo la nostra città che non sarà mai più la stessa. A Roma aspetto quasi tre ore il pullman per L’Aquila; l’autostazione della Tiburtina brulica come al solito di viaggiatori, ma basta guardarsi in giro con un po’ d’attenzione per rendersi conto che sulle panchine vicine allo stallo n.1 transitano o siedono donne e uomini con gli occhi sbarrati, appena sfuggiti dalla scena del disastro. Finalmente si parte; siamo meno di una decina. Parlo un po’ con un signore che lavora in Andalusia e che alla notizia del sisma ha preso il primo aereo per Fiumicino; alla sua casa in città si sono sfondati i tramezzi e le tamponature; la moglie e le figlie stanno bene, al sicuro in una delle molte tendopoli, mentre, a causa dei crolli, sono morti diversi suoi parenti in non so più quale paese dei dintorni. Intanto un amico che vive a Roma mi chiama al cellulare e mi dice di contattare i miei perché c’è stata un’altra scossa potente che si è percepita perfino nella capitale. Impossibile però telefonare, le linee sono sempre intasate, almeno per chi chiama da fuori; solo gli sms funzionano. Dopo un po’ mi chiama mio padre che mi chiede a che ora è previsto l’arrivo del pullman.

Arrivo finalmente a casa; sono più tranquillo, quasi contento. Ironizzo un po’ su come i miei si organizzano al momento di fuggire fuori in giardino, tenendo presente che con noi c’è anche la nonna novantatreenne scampata non si sa come (è autosufficiente e lucidissima, ma ha i piedi doloranti e cammina con difficoltà): ha il terrore impresso negli occhi, per quanto abbia vissuto l’esperienza della guerra e abbia visto dunque sciagure anche peggiori di questa. Il gas non c’è, si può cucinare solo col forno. Mangiamo carne e patate arrosto, e intanto chiacchieriamo e sbirciamo le immagine mute del piccolo televisore, immagini della città umiliata, sequenze allucinate di squarci e salvataggi. Io sto molto meglio, solo in leggera ansia per come reagirò alla prima scossa che sicuramente arriverà entro qualche ora. Bevo vino rosso e scherzo come al solito. La prima scossa che avverto è di piccola entità; percepisco più che altro un boato e un leggero tremore della struttura. La scossa mi mette di ottimo umore: finalmente non mi sento più fuori luogo, finalmente non più confinato a una insostenibile distanza in un luogo estraneo come quello in cui vivo da qualche mese; finalmente a casa, vicino ai miei e vicino alla mia amata e odiata città, città dell’immobilismo dolente ed esaltato già a partire dal motto inscritto nello stemma (immota manet): città immobile che si è messa in moto in un senso che non avremmo mai voluto conoscere, in un senso letterale e tragico, visto che, come affermeranno i geologi qualche giorno dopo, pare si sia spostata di ben quindici centimetri. Finalmente sono al posto giusto, e a ricordarmelo viene una scossa più energica; la scossa in sé non mi spaventa più di tanto, se non fosse per mia nonna che inizia ad urlare, ciabattando verso l’uscita. Dormiamo al primo piano, su materassi messi giù sul pavimento; dormiamo (si fa per dire) vestiti, pronti a scappare in giardino non appena la casa inizierà ad ondeggiare dopo il boato di esordio. Perché, a quanto, pare, le case ben fatte ondeggiano quando la terra trema…

Il giorno dopo, con mio padre, cerco di raggiungere in auto via XX settembre, ma la zona è presidiata: impossibile accedervi. Del centro riesco a scorgere solo la salita di via Roma da viale Duca degli Abruzzi. Via Roma è una via stretta, lunga e antica; vedendola m’impressiono per la prima volta in un modo che non è mediato da immagini televisive o fotografiche: e in quel momento capisco che i giornalisti (del cui lessico di solito diffido) che hanno parlato di bombardamento, stavolta si sono espressi nella maniera più esatta: la via è ridotta a una grottesca serie di dune irregolari di materiale frantumato; il manto stradale sembra sprofondato, si scorgono crateri ricolmi di tonnellate di pietre e rottami. Scendiamo per un vecchio quartiere posto lungo un crinale ripido, su una strada che parte dal viale Duca degli Abruzzi e giunge nella parte bassa della città, verso il Tribunale con le vetrate scoppiate; gli edifici di questo quartiere mostrano delle ferite strazianti, ferite da cui sorgono cucine intatte, camere da letto penzolanti, librerie sospese.

Le descrizioni di queste rovine le conservo bene in mente, soprattutto perché sono tra le poche immagini vive che ho avuto occasione di poter vedere con i miei occhi. Il giorno successivo il centro storico è stato chiuso del tutto; l’accesso possibile, limitato e regolamentato, solo a chi, scortato dai vigili del fuoco, vuol tentare di recuperare i propri vestiti o denari dagli appartamenti lesionati o pericolanti. Per noi che non abitiamo in centro questo ha voluto dire impossibilità di circolare liberamente, a meno che non volessimo rischiare di essere confusi con gli sciacalli. Sapere che il centro storico era barricato e piantonato mi ha gettato di nuovo nello sconforto. Sono tornato ben volentieri nella mia città semicollassata, ma a ben vedere si è trattato di un ritorno parziale. Non ho potuto avvicinarmi come avrei voluto. Ancora una volta solo le immagini televisive e le foto dei quotidiani potevano farmi vedere qualcosa del luogo a cui sono legato da sempre. Ancora una volta distanza dall’evento. Distanza nonostante la presenza. Solo le scosse che hanno continuato per tutto il tempo, neutralizzavano in parte quella distanza; quindi paradossalmente io dovrei essere grato a quello sciame logorante… Le scosse, le sirene delle autoambulanze e dei pompieri, e il frastuono discontinuo degli elicotteri: la verità del sonoro/tattile….

Questa distanza ha messo allo scoperto un’altra distanza, della cui esistenza dovrei in verità ringraziare qualche entità superiore, se avessi la forza o l’ingenuità di credervi. Ho continuato, per sei giorni, a mangiare e dormire, e perfino a leggere, in una casa perfettamente integra, mentre molti aquilani, dalle case pur intatte si sono tenuti comunque alla larga; e che dire invece della differenza rispetto a tutti quelli che invece hanno perso tutto quello che avevano! Allo stesso modo, conoscevo alcuni dei morti, ma si tratta di persone che non frequentavo da tempo, e la cui perdita quindi mi ha rattristato ma non addolorato nel profondo; invece molti dei sopravvissuti, e non solo loro, hanno ritrovato i loro cari uccisi dai crolli, e in alcuni casi sono stati costretti a riconoscerne i cadaveri. Non riesco ad immaginare niente di peggio. Io ringrazio un qualcosa di indefinito (ti viene da ringraziare in certi momenti, anche se non sai perché, né cosa…), che per i miei e che per molti di quelli che conosco le cose non siano giunte fino a quel punto, ma la distanza che mi separa dai più sfortunati mi fa male, e mi fa desiderare, vigliaccamente, di tornarmene là dove mi trovo a vivere da qualche mese.

Ho visitato la tendopoli a Collemaggio con un amico; gli sfollati erano quasi tutti a riposare dentro le tende blu, per cui in giro ce n’era pochi, circostanza questa che rendeva lo scenario ancor più desolante. Se non altro, però, ero sollevato per la basilica, famosa per la Porta Santa (perfettamente integra) e le spoglie di Celestino: dall’esterno non mi è parsa semidistrutta come continuavano a ripetere i cronisti, anche se si dice che sia seriamente compromessa nel transetto e nell’abside: cosa che, ovviamente non sono riuscito a riscontrare direttamente. Prima di andar via, ho sentito una chitarra suonare e delle voci di un coro provenire dall’interno di una tenda militare. Dietro lo schermo di plastica trasparente di una grande tenda bianca ho visto sedute a un tavolo diverse persone che chiacchieravano tranquillamente, come se si fosse trattato del tendone di una sonnolenta sagra di fine estate. Tornando verso casa, siamo passati in auto per via Strinella, lungo la quale i palazzi sembravano aver retto bene. Ma il vuoto di quella via sempre trafficatissima mi è parso quasi insostenibile.

Il centro della città si trova più in basso rispetto a casa mia e a una distanza tale per cui è visibile quasi interamente dalla finestra della mia camera al secondo piano. Mi sono affacciato a quella finestra per diverse ore in quei giorni. Non si nota la minima traccia di sconquasso da quel punto di osservazione. Come se le cose laggiù fossero rimaste le stesse di sempre. Sarà per la luce strana di quei giorni di tempo mutevole, ma quel che ho visto da lì è qualcosa come un’immagine senza profondità: placida e sbiadita. Al ronzare intermittente degli elicotteri spettava riportarmi alla realtà inesorabile di quel che è stato.

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19 Commenti

  1. vorrei aggiungere l’escerto di una lunga poesia sul terremoto che Ornella Calvarese dell’Università dell’Aquila mi ha mandato il 23 Aprile. Con infinito ritardo, ecco qui.

    Ma voglio,
    cosa volere,
    in questo greve silenzio di città abbandonata
    dal cicaleccio vacuo
    della nostra vita di ieri,
    cosa chiederti
    vecchia città
    che di ben altro tempo
    vivevi.

    Cosa volere ancora
    se non il perdono
    per il nostro chiedere sempre
    troppo, alle cose e al tempo.

    E siamo qui,
    macerie di macerie,
    già remoti e alieni
    alle nostre vite di ieri,
    forse non così irrinunciabili,
    chissà,
    forse neppure veramente nostre.
    Lo spirito è stanco
    di pensare al domani,
    solo il gesto di ora ci motiva,
    solo l’istante del dopo istante ci consola,
    e soffriamo,
    delle chiese cadute e dei libri sepolti,
    delle creature volate via in pochi istanti,
    dei quadri, delle statuette divine,
    delle suppellettili delle nostre giocose vite di prima.

    Ma cosa essere infine,
    se non del mondo tutto
    trasmigratori senza bagagli,
    se non abitanti di altri luoghi
    che sono lo stesso luogo di sempre,
    se non effimeri inquilini
    di ogni dove?
    [Ornella Calvarese, Terremoto, Aprile 2009]

  2. Credo che ormai si sappia come triste sia purtroppo questo terremoto su di una città antica con già i suoi problemi di futuro… come tanti altri cen
    tri storici oggi in Italia. Credo proprio che non debba costituire tentazione ad abbandonare questa città e questo territorio… Spero anzi con forza che l’Aquila venga ricostruita come era e in condizioni adeguate hai suoi problemi di sismicità, con tutti i criteri idonei senza la superficilità delle manfrine politiche tipiche del protagonismo elettorale, di odiens e popo
    larismi vari…
    Mi auguro che questa volta ci ci si comporti con serietà rispetto agli abruzzesi che hanno ricevuto devastazione, danni e lutti, nella speranza di una civile concretezza e certezza del futuro. Che sia l’occasione per uscire dalla crisi legata ad un centro di limitata economia e instaurare una speranza di futuro vero. Vanno bene le poesie e anche i racconti… ma crediamo che di più possano la volontà attiva della popolazione e mai rassegnata di vedersi rispettati dal governo e dalle promesse.
    Un grande augurio e la mia solidarietà con tutto il cuore.

  3. Scusatemi, ma nel pezzo che ho letto con interesse non ho ritrovato – nè poteva esserci – quel che di ancestrale e animalesco e ignoto ha preso vita dentro di noi, sorprendentemente, quella notte. Superando ogni stratificazione razionale e colta, riportandoci a tu per tu con paure originarie e troppo grandi per la nostra fragilità. Rendendoci a un’esistenza imprevedibile e furente, marchiandoci di sguardi travolti e nuove irregolari pulsazioni e di strampalate reattività a tutto ciò che vibra o, nel suono, rimanda a un frantumarsi. Noi che avevamo sottovalutato, sminuito, denegato, che non avevamo mutato le nostre abitudini forse perchè sarebbe già stata, quella, una sconfitta. Noi che abbiamo coltivato il fatalismo, o, in mancanza, la fede, noi, temo, ci percepiremo ormai comunità solo in nome della ferita.

    • Noi che avevamo sottovalutato, sminuito, denegato, che non avevamo mutato le nostre abitudini forse perchè sarebbe già stata, quella, una sconfitta.

      anna sempre.
      chi

      p.s. ci ho pensato a lungo prima di citare un escerto del commento di anna tellini. io mi accorgo che in mezzo al conteggio dei corpi le parole non hanno posto alcuno. è giusto.
      io lo so bene che gioire per le parole è poca cosa, e di nessuna utilità, per la ricostruzione. ma penso pure che certe parole salvino chi è rimasto. e allora che queste parole siano cassa di risananza ed eco e chiosa e monito e condanna e alla fine salvazione.

  4. Gentili signori, andate a dare una piccola occhiata ai commenti ultimi su Anthitesi. Sarebbe bene che anche i cari letterati di nazione indiana o non indiana si occupassero di dire qualche cosa sulla ricostruzione di Aquila esprimendo qualche bella opinione ” in ” un tantino più “in” visto che almeno per ora c’è tanto bisogno…

  5. Bhè adesso dell’imbecille ci sarebbe da darlo ad altri ma se state zitti o paura che lo prendiamo tutti isieme a chi del trauma ha purtroppo vissuto e vive e potrà ritrovarselo sulla groppa anche in futuro…
    Avete sentito che il sindaco di Aquila ha chiesto a Fuskas M. di portare un pò di nuvole in città? Certamente se fossero nuvole vere sarebbe anche bello e rischeremmo volentieri l’acquazzone !

  6. E’ la condizione dell’uomo, quella della periferia, anche quando ci sforziamo di raggiungere il centro delle cose.

    Un saluto,

  7. Abito a pochi chilometri dall’Abruzzo, ci ho lasciato molti ricordi, una vertebra cadendo da cavallo- Rosciolo, frazione di Magliano dei Marsi-, il senso del lavoro disciplinato della marsica (trasacco), le lunghe passeggiate senza la fretta del tempo (villavallelonga).
    Sabato notte dopo alcuni anni ho sognato il terremoto, prima la casa in Calabria poi quella da cui scrivo si sbriciolavano in un senso di precarietà che governava ogni mio pensiero e ogni mio gesto onirico. Ad un certo punto ho anche vissuto la morte: invece di aspettare la fine della scossa mi sono precipitato per le scale, che, senza pazienza, mi hanno prontamente inghiottito.
    Pochi, veloci istanti per dirmi: “Sono morto, non mi sveglierò più”.
    La domenica mattina mi sveglio presto, mia moglie e mio figlio se ne stanno tranquilli al piano di sopra, accendo il computer e noiosamente cerco meraviglie su google.
    Trovo il tuo articolo su nazione indiana, leggo qua e là, si sveglia la donna che amo, racconto qualcosa, lei parla, io leggo, poi ricomincio. Il silenzio, che sempre accompagna letture come la tua, è titubante. “Quale casa crollava?”. “Tutte e due”. In Calabria, la nostra, al piano di sopra, ripiegata su un fianco, quella di mamma, al piano di sotto, era intatta; anche qui spaventato mi sono precipitato per le scale, poi mentre tutto tremava mi sono detto “le scale no!” quelle cedono per prima, ma neanche il tempo di pensarlo che ero già risucchiato dalla polvere. Ho avuto il tempo di pensare “questa volta non mi sveglio” “Che modo banale di morire”.
    Ho fatto in tempo a leggere solo l’inizio dell’articolo, penso che, come sempre, chi si cerca si trova: il sogno, l’articolo, ed adesso che sono passati 3 giorni questo mio scritto frammentario.
    Allegria di naufraghi sapere l’euforia di chi, pur di lasciare il travagliato esilio, gioisce del non dover ritornare tra le onde dell’esilio, che fanno meno paura di quelle che lo costringe a dormire vestito.
    Il vino rosso, sfrontato compagno.
    Il giorno con la sua consuetudine pretende attenzione. Mio figlio si sveglia, ed io corro da lui che si nasconde tra le lenzuola. “papà vieni qui”.
    Ci regaliamo il rituale, la conferma, il patto che noi siamo.
    “arrivoooooo, arrrivooooo”. E lui che ride nascosto sotto il cuscino mentre faccio finta di cercarlo. “dove sei? Mannaggia non c’è più, è andato via”. Poche frasi, pochi secondi finché come il coniglio del prestigiatore vien fuori e la catarsi convince tutti. Me che non ho cercato inutilmente e lui che sa di sentirsi importante.
    La mattina vado a Carsoli, non ci sono mai stato, il mio lavoro spesso mi costringe a lavorare anche di domenica, ci fermiamo a mangiare in una locanda, e mentre riprendo la macchina per ritornare a casa mia moglie mi chiede di andare verso l’Aquila. Io vorrei andare a Tempera da Assunta a vedere se c’è ancora il ristorante. Assunta è l’impero delle donne. Pensate alle vostre case, lì è solo alla rovescia. Gli uomini preparano la tavola, sparecchiano, portano le porzioni. Gli uomini non sono i camerieri, siamo noi e guai se una donna prova a riprendersi il ruolo. Assunta urla, sbraita, difende la tentazione della profanazione.
    Arrivo all’Aquila. La città è ferma. Ci sono solo militari ovunque. Di rado gente che cammina con un pass al collo; non sono giornalisti, saranno persone a cui è consentito superare lo sbarramento. Gente che di là dal confine, fatto da camionette e uomini in divisa, ha lasciato una casa e la propria vita. E di tanto intanto va a farli visita. Come a un vecchio compagno.
    Come a un vecchio ricordo, come a un sogno che ormai è svanito. Come al mio sogno che, per fortuna, mi ha lasciato ancora in vita.

    G.A.

  8. :((((( Posso solo abbracciare e scusarmi del fatto che non ricordavo che il carissimo Gigliozzi fosse dell’Aquila, superfluo poi dire l’effetto che fa questo suo diario.

    Per la documentazione sul terremoto ecco anche questo film di un giornalista mio gentile amico http://58richter.finotti.info/ e questo resoconto di uno dei ragazzi napoletani che sono andati a portare un po’ d’aiuto in quegli stessi giorni http://palasciania.splinder.com/post/20304263

  9. Caro Gianluca, mi scuserò di persona con te…
    Sono comunque contento di leggerti, e che tu abbia trovato senso e forza di scrivere un pezzo come questo: in mezzo a tanta cattiva letteratura fatta dai giornalisti nostrani. E anche perché prima di denunciare quello che già si annuncia, ogni volta che in Italia la natura distrugge, aprendo fecondi squarci di speculazione e arricchimento di pochi, è bene descrivere quello che è semplicemente successo. L’inospitalità crudele del mondo, nonostante gli sforzi di millenaria civiltà per renderlo innocuo e sicuro.

  10. Un racconto bellissimo.
    Scrivere per raccogliere i frammenti del paese,
    una scrittura da cui la fessura lascia aperta
    il cielo invisibile, l’intimità di una vita sotto piena luce, sventrata.
    E forse questo che mi fa commozione, l’intimità della casa, della vita segreta di una famiglia svelato come caos, anche la disperazione muta. degli anziani. Qualche volto rimane nella memoria.

  11. L’amico Gianluca ha illustrato da par suo quello che i media hanno riportato con la solita propensione a riempire di falsità retoriche e di superficiali pletoricismi pubblicistici. Ma è ora di dire con forza: benedetto sia il terremoto! L’Aquila e l’Abruzzo erano già da tempo in uno stato di profondo degrado culturale, cui solo in casi eclatanti come lo scandalo sanitopoli si è parlato a livello nazionale e diffuso. Penso che di “scosse” più o meno telluriche la nostra disgraziata regione avrebbe bisogno almeno una volta all’anno. E invece, purtroppo, tutto orbita intorno all’IMMOTA MANET. Città tetra L’Aquila, stanca, ostile a ogni cambiamento, a ogni confronto. Popolo forte ma insensibile a ogni innovazione, a ogni mutamento, a ogni autocoscienza critica. Le vere macerie sono queste, anche se si vedono meno. Persone di cultura come Gianluca, che naturalmente non può tacerlo, sono state costrette a migrare. A fuggire lontano. Chi scrive vive a Teramo, ma la situazione è più o meno la stessa. Si pensa all’indotto, all’apertura di nuove attività commerciali, di nuove associazioni culturali (leggi sportivo-dilettantesche e/o ludico-ricreative) e a come queste possano tutte assieme fare “turismo” e sviluppo economico, ma cosa si è costruito realmente? Poco o nulla, a parte qualche spazio vuoto o qualche svincolo o qualche palazzina. La realtà è che in Abruzzo non c’è da ricostruire proprio nulla, se ricostruire significa ritornare a come si stava prima, ma c’è da far rinascere ogni cosa, e farla rinascere sulla base di quelle realtà culturali e artistiche – per lo più dimenticate perché inutili nell’immediato a “fare cassa” – che sono la parte vera e sana della nostra storia. In momenti di tracollo finanziario globale sono proprio eventi naturali come questo sisma a dare il senso della totale inutilità della stragrande maggioranza delle azioni umane. Ma è anche una straordinaria opportunità che ci viene data per ridare un senso e una dignità a quelle cose e a quelle realtà che da tempo non ne hanno più. Per precisa responsabilità nostra.

  12. Segnalo Lorenzo Cairoli sui preparativi del G8 a L’Aquila e la segregazione delle tendopoli:

    Sto collaborando con una troupe di ‘Presadiretta’ che in queste settimane è stata spesso in Abruzzo. I loro racconti di tendopoli militarizzate, di abruzzesi esasperati da un regime di coprifuoco ottuso e delirante, mi hanno sconvolto ma confermavano le molte testimonianze che avevo raccolte in rete. Poi stamattina Flavio mi segnala questa lettera. Che va oltre e che racconta la promiscuità e la sofferenza degli aquilani in tutto il suo inferno.

    http://cairoli.simplicissimus.it/2009/05/arbeitslager-abruzzo.html

  13. Caro Gianluca solo oggi due giugno ho letto il tuo pezzo. Sai, ero un po’ agitato perchè avevo il mio piccolo ruolo nel racconto (scherzo!). Sapevo che avresti colto nel segno! Non è un complimento, ma solo un grazie per essere riuscito a descrivere e rendere quindi vivi parte dei sentimenti di chi quella citta’ la vive e l’ha vissuta.
    Ho letto con piacere anche il commento della cara professoressa Anna Tellini, che saluto affettuosamente insieme a tutti gli aquilani
    Luigi Martegiani

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domenico pinto
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Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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