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La rivoluzione non è una festa letteraria

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di Chiara Valerio

La perdita dell’abitudine a ritrovarsi e confrontarsi in piazza, al bar,
dal parrucchiere
è uno dei molti motivi che rendono la nostra democrazia
un guscio vuoto.

La rivoluzione non è una festa letteraria e questa non è una recensione. Le piazze del sapere di Antonella Agnoli (Laterza 2009) è un libro che una parte di me vorrebbe mettere all’Indice se ancora esistesse, o comunque vorrebbe bruciare. Perché una parte di me, che vive nell’immaginario bellepoque dell’intellettuale settario di sinistra, appena conformista, utopista, elitista, e tanti altri –ista che nemmeno voglio elencare, oltre che snob e la-miseria-del mondo-mi straccia-il-cuore quindi me ne sto fuori a bere finché non piove, suppone, anzi sa, che Le piazze del sapere possono mutarsi in roghi del sapere e soprattutto sono posti dove facilmente, per parafrasare Saramago, il rametto d’ulivo di Pasqua (leggere tutti) diventa la prima frasca per la pira del supplizio (leggere cosa?). Quando ho letto Le piazze del sapere ho sentito molto odore di bruciato.

Già perché mentre il mio problema (nel caso io avessi mai guardato il mondo) è sempre stato cosa leggono le persone, il problema (risolto) della Agnoli è invece come far arrivar loro i libri in mano. Come avvicinare le persone alle biblioteche pubbliche, come farle rimanere, come eliminare le difettività nel gesti di un individuo che non ha mai allungato le mani su un libro. E incredibilmente, Agnoli non vuole cambiare le persone, non ci pensa nemmeno, non vuole parlare di generali astratti in un salotto con i divani a righe e braccioli, vuole (e lo ha fatto) cambiare i luoghi affinché risultino accoglienti. Agnoli che il mondo lo guarda e lo studia da più di trenta anni, attraverso lo specchio convesso del lavoro in biblioteca, non ha paura di usare statistiche e di procedere per approssimazioni successive. Di aggiustare il tiro, di costruire scaffali di romanzi rosa e di lasciare i libri per bambini nelle ceste sul pavimento. Antonella Agnoli è una empirista, una umanista e tanti altri -ista che non voglio nemmeno elencare ma che fanno di lei una maledetta, pericolosissima, rivoluzionaria. Rivoluzionaria pure perché contraddicendo Mao Tze Tung, la rivoluzione di Agnoli è proprio un disegno o un ricamo. È provare a sedurre i passanti, siano professori, casalinghe, bambini o pensionati, siano di destra o di sinistra, e trasformarli in lettori, aggregarli in forma di insieme. Potete capire che per me che vivo ancora come un adolescente nel mito di Ulisse, imbattersi in Circe che trasforma i libri in mezzane, e che potrebbe trasformarci me, è un incubo. L’impoverimento della lingua usata anche dai giovani inseriti nel sistema scolastico è tale che la comprensione dei testi è difficile per molti di loro, il che significa essere persone che non possono leggere un libro o un giornale, e soprattutto, cittadini a rischio nei loro diritti elementari perché in difficoltà a capire una bolletta della luce o un estratto conto. La drammaticità del problema nasce dal fatto che Nella società dell’informazione l’alfabetizzazione è una necessità fondamentale in quanto funzionale ai fin del consumo dell’informazione stessa, e dunque dell’intero volano economico sul quale si regge l’Occidente contemporaneo. Pensare che le biblioteche pubbliche possano servire, anche e in un paese come il nostro soprattutto, alle persone per leggere le bollette del gas o dell’acqua. O per interpretare le offerte delle televisioni via cavo mi fa venire la pelle d’oca. Siamo forse un paese di analfabeti? Le biblioteche devono qualificarsi come luoghi dove si fanno esperienze comuni: questa deve essere la dimensione nuova delle loro azioni sul territorio. Perché?

Perché finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di scrivere, partendo dai libri, che prima di fare cultura, bisogna fare alfabetizzazione. Ho scritto alfabetizzare. La biblioteca per tutti di Antonella Agnoli, come La fisica per tutti di Lev Landau. Siamo forse un paese di analfabeti (di ritorno?).

Ma come è possibile che una casa editrice solida, accademicamente di riferimento come Laterza (e il motto dell’accademia è Fa che nulla cambi), abbia deciso di pubblicare un libro sovversivo, irriverente, che schiaffeggia tutta la sinistra italiana (dovunque si nasconda) e parli con consapevole e arguta veemenza, di classi sociali, di scuola pubblica, analizzi e progetti una urbanistica culturale e dica che se le biblioteche devono somigliare a centri commerciali purché la gente ci vada, allora che si faccia, che si pensi, che si cambi. Ciascuno di noi viene addestrato fin dalla più tenera età a valutare con esattezza la situazione sociale in cui si trova: anche chi non è mai entrato in biblioteca, sulla base della sua esperienza in altri ambienti pubblici, capirà ugualmente il messaggio implicito nell’arredamento dei locali. Occorre pochissimo tempo a un potenziale lettore per capire, grazie a una quantità di indizi, quale sarà il suo posto all’interno dell’istituzione e valutare se rischia di rendersi ridicolo o di perdere la faccia. Il nostro compito, all’ingresso, è convincerlo che la biblioteca è anche per lui. Io parlo di sinistra italiana perché la cultura è un sistema che è stato gestito dal dopoguerra a oggi (con le eccezioni ministeriali della democrazia cristiana) dai partiti di sinistra. Perché la cultura è sempre stato un punto di forza dei loro programmi elettorali. Io che sono nata nel millenovecentosettantotto (da genitori comunisti e in una casa piena di libri, anche nel vano ferro da stiro) posso solo dire che da quando sono entrata all’università mi è sempre sembrato che le cattedre fossero utilizzate dalla sinistra come l’impiego alle poste dalla destra. Collocamento puro. Per questo mi accanisco, per questo una parte di me è innamorata di questo libro e un’altra vorrebbe che non esistesse, che non mi sbattesse in faccia la mia idea (anacronistica) di cultura, che non mi dicesse che io posso dire che la bellezza, e i bei libri salvano il mondo perché io so che i libri esistono e so che esistono le biblioteche pubbliche, che mi facesse sentire una privilegiata che ha scelto sì di leggere, ma leggere apparteneva comunque allo skyline culturale che ha sempre avuto di fronte. Ed è per questo che in barba a tutti i collocamenti accademici, alle pagine culturali dei quotidiani appannaggio di una certa sinistra, reazionaria e non sempre meritocratica, Le piazze del sapere mi pare veramente, finalmente, definitivamente un libro di sinistra, di quella sinistra che ben lungi dallo starsene seduta in qualche luogo ben ventilato si preoccupa di far studiare tutti.

Perché dire alle persone i libri che devono leggere è ideologia, lasciare che leggano e basta è democrazia. E quindi possibilità di evoluzione ancora prima che di rivoluzione.

Io non so cosa voti Antonella Agnoli e non mi interessa, perché ho letto che cosa ha fatto. E anche se io non farei che immaginarmi felice a fumare discettando di Huysmans, Satyajit Ray, le sfumature degli aggettivi, Blob, e a pensare che un mondo nuovo è possibile ma che lo facciano altri, e a convincermi che prima o poi tutti leggeranno tutto perché i libri sono la salvezza del mondo, devo ringraziare con sdegno Antonella Agnoli per avermi sbattuto in faccia le mie pochezze, la mia natura meticcia e apostata. Il pubblico fischiava, applaudiva, partecipava: solo a fine Ottocento la strategia di imporre una contemplazione totalmente passiva si impose, segmentando i pubblici e trasformando un divertimento comune a tutte le classi sociali in una pratica culturale delle sole persone colte. Nel novecento, Shakespeare fu “trasformato da un autore per l’intero pubblico in uno per una audience specifica. La metamorfosi fu da cultura popolare a cultura educata, da intrattenimento a erudizione, dalla proprietà dell’uomo della strada al possesso di circoli elitari.

Si può diventare eretici solo se si è padroni dell’ortodossia (Carla Ida Salviati, Poesie e antologia contemporanee per la scuola media). Non che mi piaccia essere un eretico, avrei preferito essere donna di una sinistra colta e intellettuale, di una sinistra da biblioteche di marocchino e blasoni che comportano terre e residenze di campagna; che generano semplicità, eccentricità, agio; e una tale sicurezza del proprio stato che ci si può circondare il piatto di orologi di Waterbury e dare con le mani ossi sanguinolenti al cane (V. Woolf, Sono una Snob?).

Ma mio nonno faceva il muratore.

DE HE BUCHMESSE

A. Agnoli, Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà, Laterza (2009), € 18,00.

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64 Commenti

  1. non mi ero accorta di questo: “mi è sempre sembrato che le cattedre fossero utilizzate dalla sinistra come l’impiego alle poste dalla destra”

    scusa l’OT, Valerio, ma puoi provarlo, oltre che averne l’impressione?
    Non c’è polemica, è che a me sembra che l’università sia anche in questo lo specchio del paese.

  2. lo avevo letto, ma questo SEMBRATO, scusami, retoricamente diventa molto più pesante di quanto non sia in realtà, è un SEMBRATO che ci dice, a noi lettori, “dico SEMBRATO, perché non ho i dati, ma però…”
    Sei una scrittrice e lo sai, per questo te lo chiedo, perché se hai ragione vale la pena di parlarne, e se non hai ragione è un messaggio subliminale.
    Cmq, a meno che tu non sia interessata a continuare, chiudo, perché come ho detto era un OT.

  3. Che esista anche un clientelismo di “Sinistra”, non credo che sia una novità.
    Prendiamo un esempio a caso. Come fece, in epoca non sospetta, il cineasta underground Alberto Grifi ad avere una casa del comune a Piazza Margana, alle pendici del Campidoglio?
    E continuo.
    Quando si getta un seme in un terreno arido, questo seme non attecchirà.
    Viceversa, se il terreno è fertile, produrrà frutti in abbondanza.
    Il terreno fertile è la mentalità che c’è in Italia, la patria di tutte le cosche mafiose.
    C’è da fare una profonda rivoluzione culturale.
    E dispero francamente che questa, oggidì, sia possibile.
    I soggetti ci sono ma sono ridotti al rango di minoranze.
    Anche a Sinistra c’è il culto del facile successo e del furbetto.
    E che una qualche divinità ci illumini e ci salvi!

  4. Perché dire alle persone i libri che devono leggere è ideologia, lasciare che leggano e basta è democrazia. E quindi possibilità di evoluzione ancora prima che di rivoluzione.

    Mi pare tanto semplice e limpido e condivisibile quanto realmente sovversivo.
    Passa una linea di confine, mi pare, tra concepire il libro come mezzo oppure come fine.
    Se il libro è un mezzo, allora ciascuno potrà usarlo per i fini suoi, dei quali si potrà discettare, sui quali si potrà obiettare e financo ripudiare, ma solo a posteriori. Mi pare insomma un esercizio di libertà e l’assunzione di un rischio.
    Se il libro è un fine, allora dobbiamo decidere se si tratta di fini condivisi o invece stabiliti a priori, e allora da chi.

    Pro-muovere, e-volvere per permettere a chi lo voglia di muoversi tra le ingabbiature delle posizioni di partenza. Accumulare denaro per acquisire i simboli, e i modi, di una posizione differente, leggere, studiare. Forse, mostrare i libri nei modi e nei luoghi nei quali brillano i simboli del successo e del riscatto ha pure il significato di indicare una strada alternativa e possibile, con l’evidenza del fatto e dello spazio, a chi non l’ha presa in considerazione perché non lo sapeva, perché la temeva o con tutti i pregiudizi dell’a priori pensava non gli toccasse.

    Semplicemente perché – con espressione che qui oggi rubo e faccio mia – leggere NON apparteneva allo skyline culturale che ha sempre avuto di fronte.

    Ora vado in biblioteca e leggere Le piazze del sapere.

  5. diciamo: è tempo, tutti, di mettere in gioco se stessi nello sfacelo circostante, anche i recensori di libri, quando recensiscono, è questo, tra l’altro, il bello del pezzo di chiara

  6. @falcone (sempre che tu ti riferisca al mio comm.)

    la mia non era una difesa della “sinistra”, era una difesa della precisione, che è forse l’unico pallino che mi è rimasto.

  7. pezzo bello e importante, su un tema che non possiamo più evitare di affrontare… è tutto un sistema, di cui la biblioteca e la scuola fanno parte, che va rimesso in discussione… Bisogna riportare la gente nelle biblioteche e nelle scuole, ma anche portare i libri per strada, facendoli scendere dai loro scaffali… tutto questo mi ricorda un po’ quanto scriveva Franco Basaglia sui manicomi… e un po’ mi ricorda anche il protagonista di “Una solitudine troppo rumorosa” di Hrabal, che rubava i libri per salvarli dal macero…

  8. Bellissima riflessione. C’è un solo punto che non mi torna. Sì, nell’Inghilterra di Elisabetta I Shakespeare era un autore popolare e il teatro era un genere popolare, nel senso di “fruito dal popolo”. Ma questa è l’eccezione che conferma la regola. La cultura è sempre stata appannaggio di pochi fortunati: coloro, tra filosofi, scrittori e poeti, che potevano permettersi il lusso del pensiero perché liberi dal lavoro e dall’ansia della sopravvivenza; oppure coloro, tra pittori, scultori e musicisti, che potevano permettersi di guadagnare dal proprio talento grazie a mecenati che amavano circondarsi di bellezza. Sono loro che animano il nostro immaginario, loro gli autori dei classici a cui si abbevera la cultura occidentale, loro che studiamo a scuola. Grazie, questo sì, alle lotte ancora attualissime per l’istruzione pubblica e laica portate avanti dalla sinistra.
    In realtà è stato proprio il Novecento – complice l’esuberanza borghese dell’Ottocento (lo dice bene Jurgen Habermas in quel libro fenomenale che è “Storia e critica dell’opinione pubblica) – a sdoganare la cultura trasformando anch’essa in industria e aprendola al mercato. E’ così che nell’Occidente capitalista i libri sono diventati più letti: perché venduti, non impilati negli scaffali delle biblioteche dei nobili, stile casa Leopardi, o dei ricchi borghesi. E’ così, che ci piaccia o no, che musei, cinema e mostre sono diventati a portata di (quasi) tutti.
    Non entro nel merito dell’altra questione cruciale: quali libri, quali mostre, quale cinema. La questione della qualità dei “prodotti” che alimentano il mercato della cultura e dell’arte. Sottolineo soltanto che la nascita di un mercato ha scoperchiato il vaso di Pandora, portando scompiglio anche nella sinistra. Perché ciò che una volta rendeva inaccessibile la cultura era il censo, la disponibilità. Oggi è soprattutto altro: la non “attrattività” (perdonatemi il termine tecnico economico) della cultura per vasti segmenti del Paese. Gli analfabeti di ritorno, appunto. Non per mancanza di possibilità ma per quella che io chiamo ironicamente “scala di valori”: chi ha un certo budget a disposizione preferisce rinunciare ai libri piuttosto che all’abbonamento alla pay-tv, all’enciclopedia piuttosto che all’auto di grido. Parlo per visto, non per sentito dire.
    Ben venga, allora, la proposta di Agnoli. Ben vengano tutte le soluzioni concrete utili a restituire l’indispensabilità della lettura e della scrittura. Ma senza elogi del tempo che fu. Perché era più buio dell’attuale quanto a possibilità di accesso alla cultura. Penso soltanto alle donne, e mi vengono i brividi.

  9. “Perché dire alle persone i libri che devono leggere è ideologia, lasciare che leggano e basta è democrazia. E quindi possibilità di evoluzione ancora prima che di rivoluzione.”
    Giusto. Ma le persone potranno mai “leggere e basta”?
    Ancora: i giovani non hanno bisogno d’essere indirizzati, liberamente consigliati, diciamo così, nell’attesa che si formino un senso critico loro proprio? Io non posseggo la soluzione, pongo il problema: se un liceale legge Moccia bisognerà avvicinarlo, che so, al GIOVANE HOLDEN piuttosto che a SULLA STRADA, oppure bisognerà che ci arrivi (o non arrivi) da sé? E ancora: non viviamo – obiettivamente – in una democrazia fortemente ideologica?
    Infine, riguardo alla contrapposizione rivoluzione/evoluzione: la mia idea è che ogni libro d’un certo valore operi una rivoluzione, ma non necessariamente un’evoluzione (dando a questo termine una coloritura positiva). I DEMONI, oppure DELITTO E CASTIGO, non ci fanno evolvere (se non, forse, in direzione del male), ma senz’altro ci rivoluzionano. MACBETH ci fa scoprire il potenziale Macbeth che è in ciascuno di noi, ma siamo sicuri che ciò rappresenti eticamente un bene?

  10. @ diego
    puoi fare tuoi tutti gli escerti che ti pare. :-)

    @ manuela
    grazie per il commento puntuale. voglio specificare che le citazioni che ho scelto sono chiaramente parziali e quindi il discorso che Agnoli fa sui fruitori di cultura è assai più complesso e argomentato. per il resto, io pure credo che la cultura sia purtroppo un problema di budget, come dici, come hai visto, come io pure ho visto, perchè comprare un libro se si può avere tutto il cinema del mondo a casa. è una scelta tra due prodotti che possono essere visti come prodotti di intrattenimento. detto questo, cerchiamo di rendere i libri più sexy (come suggeriva tra l’altro la Leonora Stern di Antonia S. Byatt).

    @ enrico
    beh tra evoluzione ed educazione didascalica c’è una differenza credo. io credo che il punto fondamentale del testo di Agnoli sia trovare il modo e le strutture di dare una scelta. qualsiasi essa sia. e credo pure che questa sia democrazia.

  11. Concordo con manuela sul tema dell’elitarismo della lettura.
    Poi. Si dice che le biblioteche per attirare potrbbero anche diventare centri commerciali … E nessuno dei commentatori fiata… Io quantomeno sobbalzo e temo!
    Voglio dalla lettura concentrazione, silenzio, pugni sulle tempie e comodo incantamento nelle parole e nel mondo del testo… E poche distrazioni …

    Tuttavia … Se questo lo creiamo anche in un centrocommerciale, ma chissà come, va bene!

  12. Chiaretta,
    ma che bel pezzo! Brava! Mi hai fatto venir voglia di uscire e cercare subitissimo il libro. E, in alternativa, di entrare in una biblioteca. Brava, brava, brava!

  13. Sì, Chiara, immaginavo che il discorso di Agnoli fosse più ampio. Soltanto, mi premeva sottolineare che forse mai come oggi abbiamo possibilità di scegliere: è nella fase iniziale delle opzioni che bisogna intervenire. Come dici, tu, questa è democrazia.

  14. vero Manuela… ma volevo specificarlo perchè per un lettore attento come te ce ne sono dieci che fraintendono. Perdona dunque la pedanteria. Adesso il quesito che mi preme (dopo aver visto pure il tuo bel blog di quello che è arrivato e non ci piace) è seonco te ce la facciamo a dare a questa sinistra una lista di opzioni?
    grazie per l’attenzione
    chi

  15. Ma io ho un suggerimento pronto da tempo per questa sinistra: l’esempio. Finché non ricominceranno (e non ricominceremo, noi di sinistra) a darlo – nella scuola, nelle università, persino nei premi letterari, in tutti i luoghi dove si fa cultura – non avranno scampo. Finché non ripartiranno dai fatti – lottare davvero per la scuola laica e pubblica, smetterla di difendere con le unghie e con i denti i posti conquistati nell’accademia, spazzare via tutti gli amministratori locali corrotti – non ci saranno opzioni.
    Bisogna creare alternative coinvolgendo tutti in generale e i giovani in particolare intorno a valori “alternativi”. Ecco, questi valori sono franati con i troppi capi chinati davanti al potere, in nome del potere. Con la debolezza delle soluzioni proposte a ogni livello, dall’istruzione all’economia, dalla sanità all’informazione. Eppure per ogni Tg1 che dobbiamo sorbirci c’è un Report a far balenare una speranza. L’esempio: alla sinistra, e a noi, serve questo.

  16. ciao a tutti,

    non credo che questo post parli esattamente di libri e di letteratura, se ho capito bene: credo infatti che se al posto dei libri, in questo posto caldo e accogliente – del tutto postmoderno, dove, come insegnano i manuali di marketing e sociologia della comunicazione, tutto è progettato, dove l’utente è previsto ed ammesso ad agire nello spazio allestito, dove l’utente stesso è il soggetto irretito dalle strategie comunicative dello spazio scenico, in fondo qualcosa di molto simile ai centri commerciali – ci mettessimo film, oppure videogiochi, oppure musica, la cosa non cambierebbe poi molto.

    quello che qui si auspica, è che si riesca a creare dei posti in cui l’esperienza dello spazio esperito è così profonda, talmente emotiva, da innescare una serie di comportamenti sociali che porteranno poi quello spazio a diventare la scena su cui si avvereranno e si moltiplicheranno le relazioni sociali, le forme della condivisione, le modulazioni infinite della reciprocità e del rispetto tra pari.

    il problema, secondo me, è che non basta inventare un luogo, sia pure una biblioteca, in cui le strategie spaziali e sociali tendono a catturare gli utenti, ma c’è bisogno anche che le persone decidano di entrarci, e di rimanere.

    non è affatto scontato che uno spazio ben allestito garantisca la presenza delle persone al suo interno. è il posto in sè che prima di essere confezionato, diciamo così, deve tornare al centro dei discorsi sociali, delle relazioni sociali, dei valori e degli ideali che una società si pone. potremmo costruire le scuole più belle oggi, le università più funzionali, le biblioteche in cui le cose funzionino a meraviglia, ma le cose non cambierebbero poi molto, poichè la loro rappresentazione sociale che circola nei discorsi pubblici e privati li prevede come posti tetri, noiosi, opzionali, privi di qualsiasi fascino.

    se bisogna alfabetizzare, bisogna alfabetizzare ad “essere” e a “fare” comunità. credo che uno degli esempi migliori oggi siano i blog collettivi come nazione indiana, o simili. c’è questa proposizione del sapere, questa diramazione del sapere, questo accogliere e rilanciare il sapere, che è difficile trovare in altri luoghi – e per questo mi accorgo che qui siamo in uno spazio “più reale del reale”, spazio che ha le stesse ambizioni delle biblioteche di cui parla chiara, perchè qui, più di ogni altra cosa, stiamo facendo comunità, una comunità aperta e diversissima al suo interno, che è esattamente il modo di agire della sinistra storica italiana, modo di agire che la sinistra coltivava soprattutto al suo inzio, e per buona parte del novecento.

    a presto

    giuseppe

  17. “il problema, secondo me, è che non basta inventare un luogo, sia pure una biblioteca, in cui le strategie spaziali e sociali tendono a catturare gli utenti, ma c’è bisogno anche che le persone decidano di entrarci, e di rimanere”.

    vero giuseppe. ma da qualche parte bisogna pur cominciare.
    per esempio dai luoghi. la cosa veramente dirompente, ripeto, di questo libro, è che non è teroria, quello che agnoli racconta, spiega, descrive è già stato fatto. questa donna lo ha già fatto. e funziona! bisogna solo continuare. che dici?

    chi

  18. chiara, dovunque ci sia da spingere più in là lo stato stagnante delle cose, io ci sono. solo che oltre ad incontrare nei luoghi logiche e strategie per soddisfare un consumatore solitario e appartato, mi piacerebbe incontrare altri luoghi costruiti e ideati con una logica diametralmente opposta, dove noi consumatori ritorniamo ad essere portatori sani di idee da scambiare e condividere.

    (facevo prima l’esempio dei blog collettivi, ma posso riportati tanti altri casi, tipo le aule universitarie gestite dagli studenti, dove è possibile fare politica ad un livello locale ed orizzontale, senza neanche il bisogno di essere gestite da un responsabile, perchè bastavano le lunghissime assemblee per decidere).

    (a proposito di libri, sempre nell’aula studentesca di cui facevo parte, ogni martedì facevamo “il vinello letterario”: autotassandoci a vicenda, noi del gruppo mettevamo i soldi per comprare il vino, e poi durante questi pomeriggi si beveva mentre ognuno leggeva a turno pagine dei libri che preferiva, e la cosa riusciva, riusciva tantissimo, tanto che una volta gli studenti che sono venuti a trovarci hanno ascoltato e proposto le letture anche in piedi).

    del resto, provo una totale repulsione per le mostre d’arte che alla fine del giro dei quadri e delle sculture terminano in un minimal shop, piccolo e bianchissimo, dove comprare un souvenir della mostra.

    comunque sia, se la cosa funziona, va bene. non era poi roland barthes a dire “la migliore sovversione non consiste forse nel distorcere i codici, anzichè distruggerli?”

    giuseppe

  19. sarà, ma non ho mai attribuito alla lettura un valore in sé.
    (forse non è questo che dice questo libro: dalla recensione di chiara faccio fatica a capire qual è il contenuto: ma forse è un problema mio).
    conta quello che si legge.
    questa estate quei venti italiani che incontro (mio malgrado) all’Isola leggevano gialli: molto più che alfabetizzati, leggevano solo gialli.
    il lorto problema era che un libro si potessere leggere “Tutto d’un Fiato”.
    allora più che di lettura in sé sarà forse meglio parlare di qualità dei libri e di qualità della lettura, eccetera.
    più che belle biblioteche che attirino le masse (si parla di questo nel libro?), mi piacerebbe che si cominciasse a rifare una buona televisione, che le masse già ce l’ha.
    cultura si può fare in tanti modi.

  20. adoro francesco pecorare perché riesce sempre con rapidissimi colpi di penna a farmi saltare le mosche al naso. mi fa sospettare qualsiasi cosa. il libro di agnoli è la storia in forma di manuale accademico di come si deve fare (perché lo ha già fatto) una biblioteca pubblica (dunque non una biblioteca di conservazione) perché prima di tutto le persone che abitano nei dintorni ne profittino e poi perchè la biblioteca torni a essere un luogo pubblico dove si discuta, e quindi torni a essere un luogo di democrazia. benissimo per me migliorare la televisione che già arriva alla masse, ma non si parla di questo nel libro. si parla finalmente, in una maniera che io ritengo sensata e di sinistra di libri. di come mettere i libri in mano alle persone. che poi i libri sono diversi dalla televisione, o no?

    quanto alla tua estate oh tash, visto che è la seconda volta che leggo il tuo appunto sulle letture dell’isola, devo dedurre che ti ha molto colpito che i tuoi molto-più-che-alfabetizzati leggessero gialli. io li ho letti per tanto tempo, e talvolta ancora mi capita, ma solo per capire chi è l’assassino. che si leggano tutti d’un fiato mah, non l’ho mai ritenuto un parametro.

    ma io non costruisco biblioteche.
    e non vado nemmeno sull’isola.

    grazie di aver letto
    chi

  21. ….conta quello che si legge…
    se si legge il libro di Antonella si potrà leggere sul leggere e molto di più.
    io che vivo nella città che Antonella ha “sconvolto” con il suo progetto di biblioteca posso dire che conta molto mettere i cittadini nella condizione primaria di poter leggere.
    potrei anche raccontare il triste ed emblematico epilogo di quella esperienza, di quello che aveva creato attorno a se e che la dice lunga sulla sinistra di oggi e il suo rapporto con la cultura.
    ma questa è una altra storia, che comunque “proverebbe” che le affermazioni di Valerio non sono poi tanto un OT.

  22. Ho letto il libro a luglio. Sono passati 3 mesi e il mio entusiasmo non e’ ancora sceso. Per la prima volta un manuale tecnico contiene saggezza, scienza, sensibilita’ e innovazione allo stesso tempo. Emoziona e convince senza sforzo. Brava Antonella e brava Chiara, che contribuisce a diffondere quello che sara’ un classico della letteratura professionale dei bibliotecari nel mondo. Sono felicissima che l’Italia si dimostri viva, sveglia, coraggiosa e creativa (a volte quelli che siamo all’estero ci preoccupiamo, lo sai?). Antonella: fai tradurre subito il tuo libro, ti prego. Chiara vuole provocare quando dice che “ha sentito molto odore di bruciato”. E’ giusto, questo libro e’ il fiammifero che ci voleva per accendere un grande falò. Che mandi in fumo tutti i pregiudizi noiosi che girano intorno alla cultura, i libri e le povere biblioteche classiche all’odore di muffa. Moribonde se non ci diamo da fare. Bisogna pensare alle persone e i loro bisogni oggi e nel futuro. E’ urgente, ragazzi. Lasciate perdere le solite sterili polemiche sui centri commerciali, i criteri sulla qualita’ dei libri o il silenzio. Le bibliotecarie non abbiamo piu’ il tailleur e la crocchia e non siamo pagate per fare “ssssshhhhhhh” sopra gli occhiali. Saludos de una España de izquierdas, compañeros!

  23. Da un bibliotecario una sola precisazione (che dovrebbe tuttavia risultare gradita a tutti coloro i quali concordano con il post): il libro della Agnoli non traccia una sorta di via “rivoluzionaria” per la pubblica lettura, ma piuttosto riassume, sintetizza, prende atto di ciò che realmente già succede in molte biblioteche di pubblica lettura (soprattutto in Lombardia e in Emilia Romagna) da diverso tempo; e di tutto ciò che già è teorizzato nella letteratura scientifica biblioteconomica da almeno un quarto di secolo. Naturalmente è significativo che un editore ben distribuito abbia deciso di dare più visibilità all’argomento, sul quale esiste una amplissima bibliografia (essenzialmente dell’editrice bibliografica e dell’AIB). E’ però quasi altrettanto significativo che gli addetti ai lavori (scrittori, critici, lettori forti – le categorie di visitatori di NI, credo) prendano il lavoro della Agnoli (tanto gli entusiasti quanto i critici) come un segno nuovo, implicando ciò una insufficiente conoscenza del mondo delle biblioteche pubbliche e della biblioteconomia che pure sarebbe attinente forse quanto l’editoria. Le biblioteche eccellenti (nell’accezione della Agnoli, che comunque può non trovare tutti d’accordo), così come i titoli di una bibliografia sull’argomento (che vanno tutti più o meno nella direzione della Agnoli) esistono numerosi, se qualcuno fosse interessato a visite e letture.

  24. Io il libro non l’ho letto, ma so cosa fa la Agnoli, e per di più sto in un posto dove esiste una biblioteca pubblica in un bellissimo palazzo, con un’emeroteca, persino, la biblioteca non ha denaro per acquisire, l’emeroteca non ha giornali:-)
    Le stanze sono mirabilmente vuote e silenziose, io ci vado per farmi mandare dei libri dalle altre biblioteche, il prestito in effetti funziona, e all’ingresso c’è un custode con l’aria ostile che mi chiede il “documento”, trascrive i miei dati e mi chiede che mestiere faccio, non dirglielo è la mia unica possibilità di protestare:-)
    L’esistenza della biblioteca è una metaglietta di stagno sulla pettorina di un politico, che sia vuota corrisponde al vuoto della città.
    Il cerbero all’ingresso è il segno del desiderio che nulla cambi, che ci siano targhe, come nel gioco del monopoli, che non corrispondono a nulla di reale.
    Qualsiasi cosa si legga una biblioteca come quella voluta dalla Agnoli, indipendentemente dal colore politico di un’amministrazione, è un fatto di civiltà che andrebbe non solo difeso, ma preteso.

  25. E concordo, per quel che posso capire, anche con Arvicola, anni fa ho potuto conoscere la bibliotecaria della biblioteca pubblica trentina, della quale purtroppo non ricordo il nome, non so esattamente come funzioni, ma ho visto che cosa sapevano organizzare per rendere vitale la presenza della biblioteca in città e nel territorio in generale.

  26. Anzi, adesso esco, vado in biblioteca e controllo se hanno il libro, se non lo hanno vado in libreria, lo compro e ne regalo una copia alle povere e gentilissime bibliotecarie di quel posto surreale. Sono delle care ragazze, penso che piangeranno:-)

  27. per chi vuole approfondire suggerisco un’occhiata ai siti: http://www.bibliografica.it/ e http://www.aib.it/ che entrambi riportano, tra l’altro, i cataloghi delle proprie pubblicazioni.
    qualche suggerimento anche per un “turismo biblioteconomico” verso biblioteche di pubblica lettura interessanti (da non confondere e da non mettere a confronto con quelle di conservazione, che sono altro e servono ad altro) testate personalmente:
    Regionale di Aosta (ha circa vent’anni, ma li porta benissimo)
    Comunali di Vimercate e Cologno Monzese (per i servizi piuttosto che per gli spazi)
    Quasi l’intera Provincia di Bergamo (a esclusione di Bergamo città, dove il tempo si è fermato nonostante i miliardi spesi per l’archistar) nel senso che la cooperazione funzionante ha trasformato 200 biblioteche in un unico organismo; interessante anche dal punto di vista dell’architettura la nuova biblioteca di Nembro;
    Merano
    Prato
    e, ovviamente, Pesaro
    Una noticina a chiudere: il testo che più di ogni altro contribuì – nei primi anni Ottanta – a cambiare l’idea di biblioteca pubblica, formando la generazione dei bibliotecari che oggi dirigono le proprie biblioteche e mettendo per così dire in moto quel processo che ha portato al libro della Agnoli così come alle riflessioni e alle realizzazioni di tanti altri, è “La biblioteca pubblica, manuale ad uso del bibliotecario” di Maurizio Bellotti, nell’edizione UNICOPLI del 1985. In questo libro, automazione a parte, vi sono già, e molto più che in nuce, tutte le idee che sarebbero poi diventate biblioteche “amichevoli”, sistemi bibliotecari integrati, opac geografici eccetera. La cosa curiosa è che Maurizio Bellotti è uomo – nel suo libro lo dichiara senza tanti giri di parole – di destra, ostile soprattutto all’idea di una pubblica lettura gestita da commissioni politiche e favorevole a biblioteche rette da puri tecnici.

  28. Ancora due parole: la biblioteca di Prato si sta trasferendo, quindi la meta diventerà sensata a trasloco avvenuto. Non ho citato la famosa Sala Borsa di Bologna, nonostante i numeri notevoli che può esibire, tra l’altro perchè tempo addietro vide una vertenza precari vs. amministrazione poco decorosa (per l’amministrazione). Oggi non so come sia trattato il personale.
    Ancora una cosa sul Bellotti: il suo manuale è significativo anche perchè non è suo; mi spiego: lui ha chiesto e collazionato interventi specifici a colleghi di provata esperienza (perlopiù della Sormani di Milano). Oltre alla destrorsità di Bellotti, un altro aspetto bizzarro è che invece i bibliotecari della Sormani erano perlopiù di sinistra (qualsiasi cosa voglia dire questo termine) e, soprattutto, la Sormani è stata poco coinvolta dallo svecchiamento della cultura biblioteconomica che pure i suoi bibliotecari hanno così efficacemente contribuito a determinare.

  29. @chiara
    La mia era una riflessione indotta, laterale: non contesto la sostanza del post, anche perché non ho letto il libro di Agnolo e confesso che mai l’avrei comprato a causa di quel titolo che contiene la magica et umanistica parola, SAPERE, che reputo obsoleta, non più corrispondente ad alcuna branca dell’attività cognitiva humana, per la quale risulta già borderline la parola CONOSCENZA se non applicata a processi di acquisizione di dati di scienza.

    Non ho niente contro le biblioteche.
    Mi piacciono le belle biblioteche.
    Non mi frega nulla se la gente legge o non legge, nel senso dell’atto di leggere un libro.
    Più importante sarebbe se si leggessero di più i meno «nobili» e più utili giornali.
    Non credo che il libro in sé, come strumento di comunicazione, abbia una qualche qualità intrinseca che lo renda preferibile et superiore e più nobile.
    La sola differenza, ma sostanziale, è che il libro richiede un dispositio attiva, rispetto alla passività emotiva di cinema e tv, ma non solo: il libro è solo l’innesco di un processo che avviene nella mente del lettore e che risulta individualmente diverso da persona e persona.
    E però un libro di merda innesca processi immaginativi et cognitivi di merda oppure più probabilmente non li innesca affatto, ti scorre via, ti fa «passare il tempo».
    Dunque la lettura in sé non è né buona né cattiva e lo stesso si può dire dei libri e delle biblioteche.
    Conscio (anche come cultore della televisione) dell’importanza culturale e politica della tv a fronte di un’incidenza cognitiva di massa del libro (fuori dell’essere un dispositivo di intrattenimento) ormai residuale e quasi terminale, non solo non mi faccio illusioni, ma mi dà fastidio questa persistenza del mito della lettura come cosa buona in sé.

    Il transito verso una società post-borghese sta distruggendo il mito borghese della lettura come processo di nobilitazione umana, nella direzione di una crescita etica e civile che è ormai fuori dell’orizzonte dei più: si legge solo ciò che intrattiene e non ANCHE ciò che intrattiene: Michele Mari in “Tu sanguinosa infanzia” ci ricorda che molte tra le pagine di pubblicità della collana Urania erano dedicate a libri che oggi diresti di alta saggistica, cioè di autori come Lucas, Adorno, Lèvi Strass e molti altri: si pre-supponeva, a ragione, che la fantascienza in quanto cosa da leggere fosse anche cosa per i colti, per i borghesi e i loro ragazzi. Oggi dove sono questi colti? Sono tout court quelli che leggono? Direi di no.
    La questione è complicata, come al solito…

  30. Non avresti però potuto scrivere il commento che hai scritto se non avessi letto libri. Non ti sarebbero bastati gli articoli di fondo e le paginate culturali dei giornali, con quelle pillole di informazione sia pure a volte saggistica, che sono come stuzzichini.
    Potresti rispondermi che il tuo commento non è di nessuna utilità, come i libri, e non nobilita, ma l’averlo potuto scrivere è in ogni caso un privilegio (la capacità di articolare il pensiero, ecc.).
    Anche solo questo privilegio, al quale è difficilissimo arrivare passando direttamente dalle scuole medie ai giornali, rende il tuo commento il commento di un privilegiato che ha potuto accedere alla lettura sistematica di libri.
    Anche ponendo che la lettura di libri sia un lusso rinunciabile e decadente e inadeguato, l’articolazione del pensiero è un arma difensiva che non si può togliere a nessuno (e neppure sfioro il problema della biblioteca come luogo di aggregazione ecc.)
    La lettura di libri, e soprattutto la lettura complessa, alla quale si arriva per gradi, tra i quali c’è anche quello emozionale, è un diritto, come il cibo, l’acqua, la salute.
    Un diritto riservato ancora oggi a pochi.

  31. “I libri salvano il mondo”, ma a modo loro. Lo distruggono – anche – prima di salvarlo. I libri – per esempio – vi fanno fanno a pezzi la nozione di ‘salvare’ il mondo, o vi chiedono che c’entrate voi, col ‘mondo’. Se lo salvano lo fanno anche malgrado voi, si mettono a esistere per conto loro, si infischiano di voi e parlano a qualcun altro anche molto dopo che di voi non è restato niente del tutto. Potete venerarli e loro possono disprezzarvi.

    Potete usarli come un prop sulla scena per assumere una posa interessante (pugni alle tempie: avete mai visto un busto greco o romano di filosofo, un ritratto del Rinascimento di umanista in quella posa?), come certe spade appese al fianco di tizi con monumentali parrucche, nastri colorati e tacchi alti, la mano posata su un libro, justement.

    Potete metterli insieme a un moschetto per dire una porcheria.

    Uno staff di Stato Maggiore può pianificare uno sterminio in una stanza tappezzata di libri. “Tappezzata”, precisamente.

    I libri occupano spazio fisico e si rifiutano di essere contenuti nella vostra ‘anima’, di arredare il vostro mondo ‘interiore’. Si rifiutano di servirvi. Vi interpellano, vi pesano, vi giudicano.
    Non hanno nessuno dei vostri scrupoli o delle vostre delicatezze. Come un violino, loro cugino, che può stare con la stessa aisance in una tavernaccia puzzolente di banditi o alla corte del Re Sole senza fare una piega, in tenuta scura da sera, col ricciolo ben pettinato, disposto a piangere o a cantare turpitudini o a declamare cose sublimi, ma a condizione che abbiate le palle delle vostre pretese. E a dirvi senza urla o straziamenti che non le avete, se non le avete.

    Sono ben più audaci di voi e ben più tenaci, e mai così eloquenti come quando pretendete di celebrare il LORO funerale mentre vi intenerite sul vostro.

  32. @ francesco
    avrei utilizzato le stesse argomentazioni di alcor. io penso che le tue capacità interpretative siano state affinate dai libri e continuano ad esserlo. io neppure, e forse credo di non aver specificato abbastanza penso che i libri salvino la vita, ma penso certamente che la lettura sia un esercizio fondamentale per la comprensione delle cose, perchè c’è come dici una dispositio attiva. perchè non fa sentire soli. detto questo, nel libro di agnoli c’è il tentativo di soluzione al problema come avvicinare le persone alla lettura, e il racconto delle esperienze già fatte e riuscite. come al solito, e come dici, la questione è complicata…

    @ francesca.
    i vestiti stretti puoi toglierteli di dosso, i libri che ti stanno stretti mai. ti rimangono adosso per sempre. almeno secondo una concezione di memoria alla Leibniz :-)

    @ arvicola.
    grazie per le specifiche e per il libro di Bellotti. Un’unica cosa, io nel pezzo ho scritto non so cosa voti Agnoli e in effetti non lo so, nè penso che gli intellettuali siano di un solo colore politico quindi il fatto che Bellotti sia di destra non mi stupisce poi molto.

  33. In Italia ci sono circa 20.000 bibliotecari; di questi circa 12.000 lavorano nelle biblioteche di pubblica lettura; in molti anni di lavoro, fra convegni, corsi, seminari, assemblee ne avrò conosciuti un migliaio (campione significativo, benchè limitato al centronord) e l’orientamento a sinistra (ripeto, qualsiasi cosa significhi) è maggioritario. Annotando gli orientamenti politici degli operatori del settore volevo evidenziare una (apparente?) contraddizione: da quando nelle biblioteche è entrata la cultura del risultato (e ciò è accaduto molto prima che i Bassanini prima e i Brunetta adesso ci pensassero, in modo che fra i dipendenti della P.A. i bibliotecari si sono trovati fin troppo preparati) sono accadute due cose: 1. le biblioteche hanno visto crescere enormemente i propri utenti e i prestiti dei propri documenti innescando un circolo virtuoso (più utenti e più prestiti = maggiore credibilità quindi più soldi per comprare più documenti eccetera) 2. le biblioteche hanno abdicato al ruolo di “mediatrici culturali” fra industria editoriale e lettore; questo perchè la cultura del risultato impone più utenti, più prestiti e soprattutto innalzamento dell’indice di circolazione (n. di prestiti in relazione al n. di libri, per dimostrare la vitalità della collezione, cioè soldi spesi bene), ma l’indice di circolazione si alza più facilmente usando due leve elementari, la prima consiste nell’acquistare in molte copie i best seller conclamati o annunciati, la seconda nell’acquistare molti DVD, perchè la durata del loro prestito è molto più breve e quindi la loro circolazione molto più veloce; e rinunciando quindi alla bibliodiversità, all’autore di nicchia, al piccolo editore, al saggio scomodo. In genertale questi marginali vengono recuperati grazie alla cooperazione, cioè acquistati uno per sistema bibliotecario. Ma questo significa renderli invisibili a chi già non li conosce e può e sa cercarli attraverso gli strumenti catalografici. Insomma, i nuovi modelli di biblioteca rischiano di asomigliare, nel bene e nel male, ai nuovi modelli di libreria. (Ho semplificato al massimo, spero che si sia capito qualcosa…).

  34. Si è capito, ma sono molto perplessa sul punto 2.
    Davvero il bibliotecario, prima del modello del risultato, indirizzava all’autore di nicchia? Ho fortissimi dubbi. Ci sono dati? In teoria il discorso fila, ma in pratica, credo, la cultura del bibliotecario medio non è diversa dal professore di lettere medio, e nessuno dei due legge, tanto per fare un esempio usando un post qui sopra, Arno Schmidt.

  35. La cultura del bibliotecario medio di una biblioteca di pubblica lettura funzionante è, OGGI, molto differente da quella del professore di lettere; non so quanto (e se) conosca autori e testi, certo conosce molto meglio del professore medio editori, collane, distribuzione. Prima dell’orientamento al risultato il bibliotecario (ma parliamo di 20 o 30 anni fa almeno) non aveva potere, non acquistava i libri per i quali venivano stilate liste dalle commissioni di gestione, composte, queste sì, da professori, maestri e varia altra cosiddetta società civile, oltre che dai politici trombati ai quali dare un contentino; la gestione per commissioni generava un circolo vizioso: non si decideva niente, la biblioteca non usciva dall’oscurità e perciò non veniva finanziata, eccetera. Oggi il bibliotecario potrebbe investire la credibilità e la fidelizzazione dell’utenza con scelte che non presuppongono una cultura enciclopedica ma solo la consapevolezza, per dirla in una battuta, che l’editoria è privata ma la biblioteca è pubblica e perciò ha delle responsabilità che non hanno, ad esempio, le librerie. Potrebbe farlo oggi, non avrebbe potuto farlo prima. Ma il modello esistente non presuppone una evoluzione, non è mai stato interpretato come un mezzo.

  36. non esiste il professore di lettere medio. non esiste il docente di scuola secondaria medio. è così varia la situazione che i picchi e gli abissi né si annullano a vicenda né permettono medie affidabili. sui bibliotecari non posso pronunciarmi, ma davvero il bibliotecario rinuncia alla bibliodiversità?

  37. Ottenere gli stessi risultati promuovendo la bibliodiversità è possibile ma più faticoso che utilizzando le leve di cui scrivevo prima. Non c’è una rinuncia totale alla bibliodiversità grazie alla cooperazione, cioè una biblioteca su venti o cinquanta si accolla l’onere del libro che tutti hanno ritenuto interessante ma nessuno ha voluto acquistare temendone l’imprestabilità. Ma il senso della biblioteca di pubblica lettura è lo scaffale aperto, il patrimonio a vista, la proposta fisica del documento a beneficio dell’utente curioso. Anche in Feltrinelli posso ordinare il documento eccentrico e magari in qualche giorno me lo prucurano: se so già cosa voglio.
    (Forse è vero che non esistono nè il professore medio nè il bibliotecario medio: ma, a mio parere, ciò che sta intorno alle professioni – tipo la cultura del risultato a ogni costo – spinge verso una certa omologazione dei comportamenti).

  38. Non esiste come essere umano, @chi, ma, a meno che le cose non siano molto cambiate da quando insegnavo io, e naturalmente potrebbe essere così, le letture dei docenti, usciti da un’università che sul contemporaneo, cioè sul vivo, per lo più taceva, dipendevano moltissimo da quell’unica, ahimè, mediazione che è la giornalistic, è lì che si forma la medietà.

    @Arvicola

    capisco bene, ti seguo, ma resto ancora perplessa, il fatto di conoscere bene la realtà editoriale non mette automaticamente in grado di mediare culturalmente.
    Se tu come bibliotecario mi spingi, perché acquisisci e promuovi in quella direzione, alla lettura del libro di una pessima piccola casa editrice che ha pubblicato un pessimo autore di nicchia (vado giù della grossa e paradossalmente) perché dovrei preferirti a un bibliotecario che “cerca il risultato”?
    Ho l’impressione che tu, da esperto del settore, tenda più alla critica del sistema bibliotecario attuale, che all’utente finale, sia pur partendo da premesse che ideologicamente posso condividere.

    PS, per essere forse più chiara:
    in che cosa “La cultura del bibliotecario medio di una biblioteca di pubblica lettura funzionante è, OGGI, molto differente da quella del professore di lettere”? Immagino nella formazione professionale, anche l’insegnante attuale, rispetto a quello di trent’anni fa, è molto più consapevole didatticamente, esattamente come, a quel che mi par di capire, il bibliotecario attuale è molto più consapevole del sistema editoriale.
    Benissimo. Quella cultura umanistica di base un po’ generica che li univa si è separata formando due figure professionalmente meglio formate, da un punto di vista tecnico, ma il punto resta sempre lo stesso, sono formate “culturalmente”, oltre che settorialmente? Sono in grado – perché potrebbe essere compito di entrambe – di “mediare” davvero culturalmente?

  39. Alcor, ma io non critico le realizzazioni di punta della biblioteconomia italiana, tra l’altro perchè ho contribuito alla faccenda. Non ce l’ho nemmeno con la cultura del risultato, trovo anzi inutile vantare successi quando non misurabili e dimostrabili con numeri in serie storica. Affermo però che, adesso, conquistato pubblico e credibilità, sarebbe ora di fare un passo successivo, assumersi la responsabilità di chi è pagato da tutti per organizzare la pubblica lettura. D’accordo che l’autore di nicchia e il piccolo editore possono essere pessimi (d’accordissimo, anzi). Ci sono però griglie biblioteconomiche per ottenere la migliore copertura bibliografica delle materie, degli autori, degli argomenti (per i non addetti ai lavori sono un po’ complicate): non vengono usate, semplicemente. 10x copie del titolo del momento “rende” di più. Va bene se la biblioteca deve uscire dal nulla, va meno bene quando è già emersa, ha già raggiunto il risultato atteso, ha già beneficiato di investimenti strutturali che ne garantiscono la durata nel tempo. Tutto qui. (Poi su come si fa praticamente a ottenere risultati eccellenti anche senza le leve elementari, be’, ci sarebbe da scrivere un manuale. Forse lo scriverò…).

  40. Bella recensione Chiara. Anche io penso che il problema che abbiamo di fronte sia l’alfabetizzazione ed amo molto le due biblioteche che frequento.

  41. scopro solo oggi questo post interessantissimo e l’altrettanto interessante discussione. faccio il catalogatore (una versione kafkiana del bibliotecario – che già di suo, in effetti…) e non posso che sentirmi stimolato dall’argomento. cerco di leggermi tutto e dire la mia. cmq sono davvero felice che si parli di biblioteche. sono tra i posti più belli del mondo, perbacco. grazie chiara!

  42. ancora una nota a proposito del risultato a ogni costo e delle contraddizioni che esso genera: nelle biblioteche di pubblica lettura funzionanti, almeno una volta l’anno viene fatta la revisione del patrimonio, vengono cioè esaminati tutti i documenti (libri, ma anche cd, dvd, vhs, ecc.) e veine scartato il materiale inidoneo. qual’è il materiale inidoneo? si dovrebbe applicare la griglia di Whittaker (la stessa che dovrebbe essere usata “nell’altro senso” per gli acquisti) e la SMUSI (non sto a spiegare cosa sono, digitate in un motore di ricerca e, più o meno, trovate la spiega); in più, si usa il criterio della (non) ricorrenza del prestito. Vale a dire che se un documento non è uscito da un tot di anni (spesso 5, valore rigido mitigato da valori diversi per particolari classi CDD) viene eliminato comunque, cioè anche se ha passato a pieni voti ogni valutazione in ordine alla sua qualità, attendibilità, coerenza, eccetera. Se un documento esce sovente viene salvato anche se non ha passato l’esame, e in pratica, se esce, all’esame non viene nemmeno sottoposto. Così si contravviene alla mission della revisione, cioè assumersi la responsabilità del materiale messo disposizione del pubblico senza filtri. Viene messa in discussione la natura stessa dello “scaffale aperto” su cui si regge tutta la teoria biblioteconomica della public library.

  43. well, ecco i miei due centesimi.
    il discorso di arvicola sulla gestione del patrimonio, sia nelle acquisizioni che nello scarto, è vero o, meglio, sono veri i rischi dell’utilizzo meccanico che un certo modello introduce. ma bisogna anche dire che gli operatori, spesso, sono avvertiti di questa cosa. mi ricordo, per esempio, che quando seguivo il corso come bibliotecario, qui allo ial di brescia, i vari docenti ci mettevano in guardia dal rischio di diventare semplice cinghia di trasmissione delle politiche delle case editrici. la politica delle collezione è davvero una cosa molto delicata.
    sulla “mediazione culturale”: in verità non credo che il bibliotecario abbia questa funzione, se non in senso molto lato. il punto è che la biblioteca, detto in tre parole, deve mettere in grado di arrivare all’informazione, la cultura è compito di altre agenzie (oltre che dell’utente – la persona).
    le biblioteche come luoghi: è vero che l’architettura parla e la logistica comunica ma soprattutto è il servizio, è il bibliotecario che si incarica della riuscita.

  44. Che informazione e cultura siano cose differenti, così differenti che si può essere responsabili della prima e non della seconda, è argomento che mi lascia perplesso. Se è vero che può esistere una informazione corretta (con tutte le sfumature del caso) e invece è meno chiaro il significato di “cultura corretta”, è altrettanto vero che senza mediazione (il libro è anche – soprattutto? – un oggetto di produzione industriale con un costo e un prezzo) difficilmente si metterà a disposizione del pubblico una informazione corretta. Poi è vero che gli operatori sono avvertiti e talvolta assennati: ma una cosa è sapere cosa e come, un’altra produrre per l’amministrazione di appartenenza report trimestrali degli indicatori di servizio, report dai quali dipendono finanziamenti, assunzioni, visibilità e indotti vari. Credo che (spero non ci siano bibliotecari all’ascolto…) il segno più significativo di una certa devianza sia non già le riflessioni della Agnoli, comunque la si pensi stimolanti, ma il progettone nazionale NPL (Nati per Leggere, per i non addetti) già nel nome vagamente inquietante, che si basa su presupposti “scientifici” dati per scontati ma che scontati e soprattutto “scientifici” non sono per niente (cioè che da bambini più si legge e si ascolta leggere e megliori si diventa, detto in soldoni) che vede i bibliotecari delle sezioni ragazzi uniti ai pediatri per spingere la lettura in tenera età, come fosse un vaccino.

  45. sui termini possiamo sicuramente trovare un accordo ;-) cmq quello che mi interessava era sottolineare che la biblioteca non è un’agenzia culturale ma uno strumento del cittadino. riporto, per chiarire quello che volevo dire, il famoso passaggio del manifesto ifla “La biblioteca pubblica, via di accesso locale alla conoscenza, costituisce una condizione essenziale per l’apprendimento permanente, l’indipendenza nelle decisioni, lo sviluppo culturale dell’individuo e dei gruppi sociali. “

  46. “l’indipendenza nelle decisioni”: se sono sprovveduto e vado in libreria (parlo di liberie “industriali” e di grande distribuzione) per farmi un’opinione e conseguentemente prendere decisioni, rischio su molti argomenti, ad es. relativamente alla storia contemporanea, di trovare documenti che al 90% sostengono una tesi e in angolo, e forse, testi di peso pari o superiore – per autorevoleza scientifica degli autori – che dicono altro. Probabilmente farò mia la tesi più esibita, con le conseguenze del caso. In una biblioteca io, utente sprovveduto, vorrei poter trovare alla pari questo e quello. Vorrei che il patrimonio fotografasse la pluralità dei contenuti, non la proporzione delle vendite. Starà poi alle iniziative mirate della biblioteca valorizzare il proprio patrimonio in modo da rendere veramente visibile e utilizzato tutto, salvando così capra e cavoli.

  47. Arvicola: Vaccinami, ti prego. Contro la noia. Anche contro la grande sapienza e la veritàm assoluta.
    Per l’appunto: Sí che ci sono bibliotecari all’ascolto. Come me, ad esempio. Per di piu’, tifosi della Agnoli. E poi mi dispiace farti sapere che NPL e’ il fiore all’occhiello delle vostre biblioteche di pubblica lettura, il solo progetto che viene citato e copiato e ammirato all’estero negli ultimi dieci anni.

  48. tifo per… all’estero dicono… Vabbè. Sarà un mio difetto, ma preferisco le riflessioni critiche alle casse di risonanza, se non altro perchè sono le riflessioni critiche che contribuiscono all’evoluzione e al miglioramento dei modelli.
    (All’estero, e non un estero qualsiasi, gli Stati Uniti – wow! – ci invidiano e persino ci premiano con riconoscimenti prestigiosi il progetto B-evolution, Alintec su base BNCF; però fa cagare lo stesso. Per dire).

  49. Sono in ritardo e quasi fuori tema ormai, ma non mi sembra che sia la “discussione” che fa della biblioteca una fonte di democrazia. Piuttosto l’offerta democratica di lettura e la lettura di per se. E se i modi per portare le persone a leggere non sono proprio ortodossi a me va bene lo stesso. Tutto ma non quello che sta succedendo. La libertà è un fatto interiore che va alimentato anche in un analfabeta, di ritorno o no. La lettura è un modo “semplice” di farlo, almeno per me gli altri sono tutti più complicati e danno risultati più incerti. La lettura non sarà un vaccino, ma certo un forte integratore alimentare. Superata la primissima infanzia e nata in una famiglia attenta alle offerte visive, non ho avuto limiti alle mie letture, né morali, né politici, nè qualitativi, né di genere, e di questo sono tanto grata ai miei genitori e ho cercato di fare lo stesso per i miei figli.
    Scusate l’autobiografismo.

  50. Paola, sarebbe splendido se fosse così, davvero. Purtroppo ci sono dei limiti oggettivi che impediscono alle biblioteche di offrire la lettura a 360°. Non è colpa dei bibliotecari, è che non può proprio essere altrimenti. In Italia ci sono circa 30.000 novità editoriali l’anno, quando una biblioteca riesce ad acquistare 3.000 libri (cioè il 10% dell’offerta) è già una eccellente e grande biblioteca di pubblica lettura. Ciò significa che il bibliotecario ha preso un libro e nove NO. (quando va bene, ripeto). Finchè non si riconosce che prendere un libro su dieci significa fare una scelta drastica e farla secondo dei criteri che dovrebbero essere perlomeno dichiarati, tutti gli altri discorsi non hanno molto senso.

  51. Il libro di Agnoli è acqua tiepida. Neppure calda. Almeno per le bibliotecarie: quelle cose le sanno benissimo. Se non le sanno, semplicemente, non sono bibliotecarie. Sono maestre, geometre, ragioniere, finissime intellettuali, ispirate cineaste – persone messe (o che si sono messe) in biblioteca pensando che fosse un lavoro che sa fare chiunque.
    Il libro di Agnoli, semmai, potrebbe essere un bel regalo da fare ad assessori e dirigenti di enti locali. Ma temo che – l’esperienza recente italiana insegna – gli ammaestramenti che saprebbero trarre dalla lettura si fermerebbero alla costruzione o ristrutturazione della sede (un architetto più o meno di prestigio, una spesa una tantum e una bella festa di inaugurazione, naturalmente alla vigilia delle elezioni). Dentro continuerebbero a restare le maestre, le geometre, le ragioniere, le finissime intellettuali, le ispirate cineaste – sempre che i soldi non siano finiti prima.

  52. Benvenuta sulla terra, cara Valerio!
    E benvenuto anche il libro della Agnoli, se è in grado di suscitare queste riflessioni.

    Saluti, da un bibliotecario

  53. Bette: scusa ma non capisco. Inanzitutto, basta l’acqua tiepida per lavare un mondo abbastanza polveroso come e’ quello delle biblioteche classiche. Poi, non vedo contradizione tra essere maestra/o, geometra, ragioniera/e, intellettuale o ispirata/o cineasta e allo stesso tempo lavorare con bravura e passione in una biblioteca. Fattelo dire da una che puo vantarsi di avere tutti i titoli di studio in materia biblioteconomiche riconosciuti nella universita’ del mio paese. Eppure non disprezzo la formazione e gli indirizzi scolastici di una bella e svariata squadra. Sempre che l’assunzione sia stata in regola, certo, con un concorso che dia a ogni persona la sua opportunita’ e ne riconosca le qualita’.

  54. 1.Per fare entrare e far rimanere le persone in bibliteca è molto importante, direi fondamentale, oltre la disposizione dei libri, il luogo amichevole etc. anche l’atteggiamento dei bibliotecari. A contatto con l’utente ci devono essere persone disponibili, che non fanno pesare le richieste, che non siano troppo rigide, che facciano anche una battuta, che non assumano un atteggiamento di superiorità, che se vedono la persona che si intimidisce per la sua richiesta per i motivi più vari abbiano un atteggiamento disponibile e rassicurante. Non penso che tutto questo si possa imparare con corsi di aggiornamento.
    2. Gli insegnanti spesso sanno poco di letteratura contemporanea: la lista dei ragazzi comprende sempre la triade barone marcovaldo-rampante-cavaliere inesistente e “io non ho paura” e pochi altri titoli. I ragazzi il più delle volte chiedono il libro che ha meno pagine, perchè devono fareil riassunto entro tre giorni.. Forse ho un pò esagerato, ma no sono tanto lontano dalla realtà

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