Auschwitz e Rosarno tra demomafie e mafiocrazie

di Pino Tripodi

Ho sollevato con l’appello dell’11 gennaio, per alcuni in modo discutibile, lo spettro di Auschwitz. Intendevo così indicare una realtà incontrovertibile: la china di degrado, di abbrutimento, di trionfo del pregiudizio, di riduzione in schiavitù, di distruzione di ogni forma di cooperazione sociale e di reciprocità rischia di non essere una fastidiosa parentesi che si incunea tra un passato di barbarie e il sol dell’avvenire ma la prospettiva concreta in cui rotola il nostro più immediato futuro.

Non è solo Rosarno il problema.

L’altra sera sono salito sul filobus 90, uno dei luoghi più interessanti di Milano, frequentato nelle ore estreme solo dai poveri e dai migranti. Gli altri preferiscono non frequentarlo trincerando la propria scelta dietro puzze insopportabili, sguardi inquietanti, paure sicuritarie. Una ragazza ispanofona tentava con qualche difficoltà di scendere con la propria bambina sistemata nel passeggino. Un’altra ragazza, italiota come me, ansiosa di salire, ha iniziato a brontolare contro quelle che fanno i figli come i conigli e ci rubano il lavoro e fanno quello che vogliono nel nostro Paese. Silente, sono sceso per aiutare quella madre, poi sono risalito sul filobus dietro la brontolona che non ancora paga ha inscenato una specie di comizio contro gli stranieri che ci rubano e ci ammazzano e non si lavano. Ho atteso di essere sicuro che non fosse squilibrata, poi, di fronte all’episodio di normale idiozia, ho reagito nel vano tentativo di zittirla. Nessun altro ha detto parola. Perché? Perché un’unica idiota fra cento migranti trova suo naturale diritto offenderli e maltrattarli? Perché cento migranti trovano naturale stare zitti, non reagire di fronte alle offese di una persona sola? Chiunque ha visto Rosarno non può non sapere che dietro quel silenzio e quella sopportazione si evidenziano il terrore, la normale condizione di assoggettamento, il callo di condizioni di vita miserrime, i mille ricatti e i tanti capricci di una triste realtà.

Mi chiedo. Fino a quando sarà possibile non reagire? Dove può arrivare questo rapido rotolamento verso l’abominio? Fino a quando ci indigneremo contro gli spettacoli visti in tv ma non solleveremo una mano per interdire una realtà che non ci condurrà ad Auschwitz, ma alla diffusa realtà dei campi di detenzione per migranti, agli arresti di chi è colpevole di essere straniero povero illegalizzato, alla riduzione in schiavitù ci siamo già. Ci indigniamo certo, ma l’indignazione sembra essere diventata null’altro che una forma di consolazione.

La realtà è che i migranti poveri illegalizzati sono irrelati in un’economia che anche senza disturbare le mafie è democraticamente criminale. È una realtà che definirei di demomafie e di mafiocrazie. Oltre ad essere manodopera a basso costo ricattabile e revocabile, i migranti illegalizzati fungono da valvola di compensazione di ogni disagio sociale e hanno un’utilità politica fenomenale. Su di essi si regge parte importante dell’economia delle aziende e delle famiglie italiane, ma anche lo spettacolo elettorale della politica. Chi agita la paura del migrante vince le elezioni.

Il fatto è che il dispositivo dell’economia migrante non è marginale, ma è la forma consustanziale dei rapporti di produzione, ciò verso cui tende il rotolamento in atto.

Così come ogni nazionalismo è razzismo, la schiavizzazione è effetto di una polarizzazione progressiva che non riguarda solo i migranti.

Lottare contro la condizione dei migranti poveri illegalizzati non è a mio parere necessario solo per difendere loro, ma una condizione fondamentale di dignità e di tutela di ciascuno di noi.

Ho evocato lo spettro di Auschwitz perché Rosarno va oltre quella landa di Calabria; è stato il punto di maggiore visibilità e spettacolarizzazione di un’italietta che quando ci si mette sa stare al passo con le correnti d’avanguardia della modernità planetaria.

Rosarno è solo un episodio della guerra ai poveri, condotta anche a mezzo di altri poveri, che si dispiega in ogni parte del mondo e ha come suo fulcro la svalorizzazione crescente della forza lavoro.

Il lavoro salariato quando viene erogato non è spesso in grado neanche di assicurare le condizioni minime di sopravvivenza e di riproduzione della forza lavoro.

Il lavoro in modo crescente viene erogato in forma semigratuita e ultraprecaria in attesa di un divenire salariato visto come un felice miraggio anziché come una forma di prigione a vita.

La merce forza lavoro ha prezzi e considerazione in caduta libera e un’incapacità ad organizzarsi talmente cronica da sembrare irreversibile.

Ciò che è ancora più doloroso è che la TV, tra scioperi della fame, incatenamenti e mesi passati all’addiaccio nei posti più impensabili nella speranza che qualche telecamera ci veda, è la forma visibile e spettacolarizzata dell’impotenza dei salariati e delle loro organizzazioni.

Neanche le mafie riescono a organizzare la forza lavoro. Esse organizzano sempre e soltanto i padroni di turno, anzi sono sempre più lo specchio dei padroni di turno.

Il valore tendente a zero del lavoro salariato è il contraltare della polarizzazione della ricchezza.

I prezzi ridicoli con cui vengono pagati i prodotti del lavoro esaltano l’accaparramento della ricchezza nelle mani della finanza, della grande distribuzione e commercializzazione.

Rosarno è anche la riduzione della popolazione a comunità. Purtroppo, per l’ennesima volta è ciò che si rischia in Calabria. Di fronte all’ennesima immagine negativa riflessa sul mondo, la reazione più immediata è stata quella di serrare le file, di chiudersi nel solito vittimismo per celarsi nell’imminente unanimismo, nel solito piagnisteo contro lo stato agitato ad arte dalla cricche di potere che gestiscono la forma più terribile del welfare, la clientela.

Nel mio appello evocavo un fallimento generale e totale riguardante l’economia, la politica, la cultura. La società. Affinché questa consapevolezza non abbia il valore consolatorio di una critica a di sapore duchampiano ( tanto gli altri muoiono) desidero affermare che il fallimento generale e totale riguarda ciascuno a partire da me che lo evoco e tento di analizzarlo.

Quando avviene, come è avvenuto a Rosarno, che un migliaio di persone venga deportato con il proprio consenso poiché vive nel terrore di rimanere in quella situazione come si fa a stupirsi se viene evocato lo spettro di Aschwitz?

Dopo Rosarno nulla è cambiato: la demomafia e la mafiocrazia hanno ripreso il controllo che era sfuggito loro di mano. Qualche intellettuale, me compreso, non ha perso occasione di esprimere la propria opinione.

Le associazioni sono costrette a un duro gioco d’equilibrismo per non scontentare nessuno e per incamerare qualche residuo finanziamento. I partiti sono troppo occupati a pensare come vincere le incombenti elezioni. I sindacati non hanno neanche gli occhi per piangere. Sono tutti troppo impegnati per occuparsi seriamente di ciò che è successo a Rosarno. Le altre istituzioni sono sempre pronte ad agitare il vessillo contro la mafia e contro il razzismo per sollevare la solita patina d’ipocrisia.

Come nella più solida democrazia ateniese, nel simulacro di quella in cui viviamo ciascuno è ridotto a spettatore di parole. Anche i pochi che hanno la possibilità di parlare sanno di produrre parole che rimangono tali. La realtà della parola è pur sempre una parola poiché i parlanti producono a mezzo di parola una tecnologia del sé totalmente avulsa dalla realtà di cui parlano. La realtà del reale fluisce parallela alla realtà delle parole. Realtà delle parole e realtà del resto del reale si incontrano solo ed esclusivamente se ruffiano è il potere. Solo il potere ha la forza connettiva tra realtà della parola e realtà delle cose.

La realtà è diventata un grande schermo nel quale gli eventi non accadono se non come pura possibilità di produrre parola.

All’apparire della tv le nonne non tolleravano la distinzione tra fiction e realtà. Guardando immagini di incidenti, di omicidi, di guerra imprecavano contro ciò che vedevano e inveivano contro chi al proprio fianco nulla faceva per interrompere gli abomini.

Per loro esisteva solo la realtà, non la fiction.

Pure, gli uomini e le donne della contemporaneità non sopportano la distinzione. Ma al contrario delle nonne per gli spettatori di parola esiste solo la fiction, non la realtà. Ciò che accade si materializza soltanto in una discussione, in un articolo, in una chiacchierata tra amici. Poi il reale scorre parallelo alle nostre parole mentre noi cambiamo canale o film o libro per allontanarci dal fastidio, dall’imbarazzo che la realtà crea. Il reale è come una malattia da esorcizzare con le parole, da allontanare. Ma il reale sfugg a ogni consolazione, è ostinato, non si fa intrappolare, prima o poi esige che non solo le parole facciano i conti con lui.

Dovremo farli anche noi, con le nostre azioni, con i nostri corpi, con la determinazione a pretendere una qualche coerenza tra il nostro dire e il nostro agire.

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5 Commenti

  1. @ Pino Tripodi
    nell’abomio ci siamo dentro sino al collo, e il nostro ansioso desiderio di tirarci fuori sarà frustrato dalla nostra debolezza: ringhiosi brontolii, null’altro. Certo, continueremo, goffi e vulcanici, a scrivere appelli, a esporre i corpi sudati, a dire verità fastidiose; ciò nondimeno non riusciremo a scalfire l’insidioso torpore dell’indulgenza. Si guardi intorno: quanti incedono eretti? Quanti, la mattina, davanti allo specchio impietoso, possono dirsi di avere fatto il possibile? Quanti resistono alle dolci lusinghe dell’abomio che è ormai incorporato in noi? Quell’abominio è parte dei nostri lineamenti. Sì, ha ragione lei: la nostra indignazione è null’altro che una forma di consolazione. Perché tutto ciò? Forse perché siamo incapaci di uscire dal campo virtuale in cui siamo stati costretti. Volontà di intervenire? Troppo faticoso; e troppo rischioso. Meniamo colpi alla cieca, sulla rete, che è ormai diventata un grande sfogatoio; nel reale inseguiamo leader o partiti senza memoria, contenti di partecipare alla farsa del voto. Deleghiamo. E quando gli schiavi, come a Rosarno, si fanno folla armata, cosa facciamo? Parliamo di legalità e di non-violenza. Si guardi intorno: non siamo soltanto circondati da una marea di persone che non vede, o da pretoriani che controllano, ma anche da una piccola assemblea troppo fiacca per uscire e aprire un varco. E che insiste nel guardare benevolmente a un partito interessato all’avvicinamento alle sponde centriste dell’UDC.

    Ognuno di noi, in ogni dato momento, si trova nel bel mezzo di una totalità; ma da solo, ognuno, non potrà mai capirla: irrigiderà le proprie speranze e le proprie delusioni, mancando costantemente il bersaglio. Frantumati e velleitari, a cosa possiamo ambire? Vede, ciò che ha scritto, crudele e vero, anche commovente, chiama a risolvere ora la vergogna: uscite dal duro silenzio delle parole e fatevi creature di carne. Io condivido: è l’unica strada possibile, uscire e mettersi di fronte al caos e, con mano severa, schiudere la sberla limpida ed infocata. Senza dimenticare il pensiero, però; senza smettere di costruire altra coscienza. Prassi e teoria, come da memoria. E in entrambe entrarci direttamente, smettendo, appunto, di delegare. Ma con un’accortezza: non dimenticare, non dimenticarlo mai, che non basta pensare di agire per risolvere la situazione di abominio; occorre rendersi conto del gioco reale delle forze: vuol dire soppesare la realtà e distinguere, tra le mille prassi possibili, quella che apre contraddizione con il disfacimento nel quale ci troviamo immersi sino al collo. L’esigenza di uscire dall’abominio in una società che, complessivamente, alimenta l’abominio, e dunque non ha voglia di uscirci (quando poi riesce a coglierlo), è però destinata a restare un’esigenza soggettiva o di piccolo gruppo se non ci chiediamo quali siano le cause dell’inerzia collettiva; se, cioè, non analizziamo le dimensioni fondamentali di ciò che accade oggi: il “cattolicesimo politico”, le compromissioni della “sinistra” con il fronte industriale e finanziario più reazionario, i residui medioevali nella coscienza civile, la brutalità dei rapporti umani, il corporativismo (questo sì fascista) che vuole uniti dalla stessa sorte lavoratori e datori di lavoro, il risorgere del patriottismo e del militarismo, i miti d’evasione … L’indulgenza che aleggia intorno a noi non è soltanto il prodotto degli anni del berlusconismo; è un balletto di condizionamenti che saltella con agilità da tanto tempo, che si è interrotto soltanto a ridosso del 1969, per poi tornare sulla scena più pervasivo di prima. Usciamo dalle parole – finalmente! – senza però illuderci che se ne abbia subito un effetto politico positivo. Non costruiamoci altre illusioni. La strada è lunga, e noi siamo deboli. Purché si cominci …

    sp

  2. “desidero affermare che il fallimento generale e totale riguarda ciascuno a partire da me che lo evoco e tento di analizzarlo”.

    Ovvero spera di perdere le sue fonti di sussistenza? No perché lei dice che il lavoro è solo una “forma di prigione”. In astratto sono d’accordo, ma mi chiedo: perché tutte quelle persone messe davanti ad un contratto indegno (bassa retribuzione, nessuna tutela, eccessivo orario di lavoro) non dicono “no, grazie?”. Non sarà che devono campare? Il costo della vita sarà anche mantenuto basso da un esercito di schiavi immigrati (e non), ma, banalmente, niente è gratis, anche tirare lo sciacquone costa. Quindi? Muoia Sansone con tutti i filistei?

  3. Tranquilli, con un premier che si scompiscia in Israele la società multicriminale si consoliderà sempre di più, e voi ci sguazzerete dentro…

  4. Apprezzo molto l’indignazione e parte delle motivazioni, ma penso che, per quanto poco valgano le parole (su questo concordo), certi argomenti meriteranno sempre di essere affrontati con cura e attenzione.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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