Amor, ch’a nullo amato amar perdona: la damigella di Shalott

di Antonio Sparzani

(qui un’altra esecuzione un po’ meno incompleta nel testo)

Perfino l’anonimo autore del Novellino, noto anche come Le Cento novelle antiche, ultimi anni del Duecento, ne aveva sentito parlare e cantare. Ne cantavano i trovatori medioevali, ne scrivevano le storie di Chrétien de Troyes e dei vari narratori del ciclo bretone; è la sfortunata damigella di Shalott: un castello su un’isola non lontana da Camelot (qui la storica illustrazione del Doré di Camelot):

un ruscello scorre dal castello giù giù fino alla fortezza del re e porta con sé le storie e i canti che lo attraversano.

Cambiano le versioni, cambia la grafia del nome, da Scalotta a Scalot a Shalott a Escalot a Astalot, ma rimane una costante nella storia di questa damigella: ella è presa da un turbamento indicibile al solo scorgere Lancillotto del Lago e, da quel momento, non può che pensare a lui. Lancillotto appartiene, o comunque crede pervicacemente di appartenere ormai, anima e corpo, a un’altra, a Ginevra, la Guinevere di tanti racconti arturiani, che pure appartiene a un altro – ad Artù, il re più importante di quelle terre – ma che ha senza molte esitazioni corrisposto a questo secondo amore.

Il destino della damigella è dunque segnato, ella si abbandona alla sua maledizione.
Così la racconta Alfred Tennyson 1 (1809-1892), che riprende la storia e ne fa una struggente e incantata ballata; stavo anzi per dire filastrocca, a causa di quella struttura a rime baciate a gruppi di tre o quattro, adatte a suscitare una sensazione di continua sospensione:

There she weaves by night and day
A magic web with colours gay.
She has heard a whisper say,
A curse is on her if she stay
To look down to Camelot.
She knows not what the curse may be,
And so she weaveth steadily,
And little other care hath she,
The Lady of Shalott
.

con la presaga cantilenante rima Camelot / Shalott / Lancelot.
Tesse continuamente, la damigella, è costretta a guardare la realtà esterna soltanto in uno specchio, sempre appeso alla sua altezza, e a ritrarla ricamandola su un arazzo. Ma i divieti nelle favole, e forse non solo quelli, sono imposti per essere violati. La damigella è perennemente sul crinale tra una felicità raggelata e una ansiosa attrazione verso i rumori e le immagini del mondo esterno.

John W. Waterhouse, I am half-sick of shadows, 1916

And music, went to Camelot:
Or when the moon was overhead,
Came two young lovers lately wed;
“I am half sick of shadows,” said
The Lady of Shalott
.

e infine, quando sente, e vede nello specchio, passare un cavaliere di così irresistibile prestanza, riccioli neri come il carbone

His broad clear brow in sunlight glow’d;
On burnished hooves his war-horse trode;
From underneath his helmet flowed
His coal-black curls as on he rode,
As he rode down to Camelot.
From the bank and from the river
He flashed into the crystal mirror,
“Tirra lira”
2 , by the river
Sang Sir Lancelot
.

non si trattiene dal guardarlo direttamente, non più attraverso lo specchio ‒ voi capite quante metafore strisciano qua sotto ‒ e così facendo esce dalla sua esistenza sospesa fino a quell’istante in una infanzia-prigione dorata e affronta la vita, con l’esito che tutti immaginiamo. Così avveniva anche molti secoli dopo alle fanciulle in età da marito in Inghilterra, si raccoglievano i capelli e brandivano un carnet al loro primo ballo e non v’era modo di tornare indietro, alla vita di prima. Morivano così all’infanzia.

Lo specchio che stava notte e giorno sospeso dinnanzi a lei si rompe da parte a parte, 3 gli arazzi si sbrindellano in innumerevoli fili, e la dama di Shalott corre sulle sponde del ruscello, dove trova una barca nella quale, le vesti candide come la neve, (così la ritrae Waterhouse 4 nel 1888), si lascia lentamente scivolare, cantando, ormai morente, la sua ultima dolente canzone, fino a Camelot, dove, questa è la versione di Tennyson, verrà un’ultima e unica volta, vista, ormai morta, da Lancillotto, che spende poche parole di circostanza su quella morte, da lui, pur involontariamente, causata.

Un’altra versione della vicenda parla di Passarosa (in francese Passerose, il nome della malvarosa, o malvone), la figlia del valvassore di Escalot, presso il quale alloggiano una sera messer Galvano e il suo seguito; non appena Galvano vede Passarosa e le parla, ne è attratto e le propone amore, ma ella si nega sostenendo di avere già il cuore impegnato con un altro, che ella nemmeno sa chi sia, perché solo l’ha visto combattere con straordinaria valentia, coperto completamente dall’armatura. Costui era, come si sa da altra parte del racconto, Lancillotto che combatteva in incognito. Alla fine la damigella scopre di chi si tratti, ma Lancillotto, secondo l’usuale copione, le si rifiuta pur con grande dolore (“i capelli più lucenti d’un nappo d’oro, intrecciati con galloni d’oro e di seta, la pelle bianca e tenera come la neve che cade, gli occhi brillanti come quelli d’un falco di montagna, ma ridenti; della sua beltà la sala era tutta illuminata!“). A quel punto Passarosa perde ogni capacità di vivere: “Sappiate che, dal giorno in cui vi vidi, vi amai più che donna amò mai. Non posso più bere, né mangiare, né dormire, né riposare; non so più che soffrire notte e giorno. Solo con la morte il mio cuore potrà strapparsi da voi!“. E qui la versione riprende il filo di quella seguita da Tennyson, Passarosa si lascia morire su una barca che scende lentamente il ruscello e va ad arenarsi ai piedi del castello di Camelot.

L’altra versione che vale la pena di menzionare è quella di Elaine di Astolat, la figlia di re Pelles, che pure si dice innamorata perdutamente di Lancillotto ‒ sempre inossidabilmente fedele alla sua, si fa per dire, Ginevra ‒ e che, assai più attrezzata delle precedenti, pur di giacere una notte con lui ricorre, e con successo, a complicate storie di filtri e ammaliamenti. La notte si rivelerà peraltro assai fruttuosa e il frutto, sarà Galahad, il Cavaliere Buono, uno dei tre cui sarà concesso di trovare il Graal, e l’unico, sembra, che poté guardarlo direttamente.

Un merito di queste storie è anche quello di avere dato occasione a dipinti, liriche e musiche, come quella cantata da Loreena McKennitt, che apre questo post, di grande piacevolezza (vedi qui per una buona rassegna).

Molte sono le diramazioni di questa assai diffusa storia: il titolo del post indica però che il tema che vorrei con questo proporre alla riflessione dei lettori, pur rendendomi conto che su ciò già molto inchiostro è stato speso e che la soggettività gioca qui un ruolo predominante, è quello appunto del famoso verso. Il verso che Dante mette in bocca a Francesca da Polenta, quando straziandosi descrive a Dante e a Virgilio la sua vicenda d’amore con Paolo Malatesta e, guarda caso, racconta come essi siano stati scoperti mentre leggevano le storie di Lancillotto e Ginevra (…di Lancialotto come amor lo strinse…).
Neppure ritengo di aggiungere alle molte già fornite dalla tradizione dell’esegesi dantesca una ulteriore interpretazione del verso; desidero piuttosto proporre un’inconsueta chiarificazione linguistica.
Il nucleo comune di tutte queste versioni della storia di Shalott racconta di una damigella che, al solo vedere Lancillotto da lontano, senza che lui nulla ne sappia, è presa da un complesso sentimento, perfino così coinvolgente da portarla a decidere di morire: bene, io proporrei di non chiamare amore, e neppure innamoramento, questo sentimento, qualsiasi altra parola va meglio, stordimento, pazzia, infatuazione, furibondo desiderio, sì, ma non amore.

Riserviamo questa parola a quello che davvero a nullo amato amar perdona, quello che è per sua definizione e natura squisitamente simmetrico, quello che non può non riguardare due persone che si sono guardate negli occhi, che hanno comunicato, e che hanno cominciato a capire qualcosa l’una dell’altra che nessun altro ha capito fino a quel momento, insomma quella cosa magica che a tutti noi è capitata almeno una volta, o più volte, nella vita e che la rende degna di essere vissuta.

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NOTE
  1. scarsa è la fama di Tennyson in Italia e al momento solo una scarna scelta delle sue opere è rintracciabile in libreria, i miti e leggende nei classici Mursia, che tra l’altro non comprende la ballata di cui qui parlo; forse anche a causa della diffidenza verso un vero poeta laureato così amato in età vittoriana e verso l’oggettiva prolissità di molte sue opere.
  2. espressione per il canto di gioia dell’allodola, ripreso da Shakespeare, Racconto d’invreno, Atto IV, scena III
  3. mitica rottura nella storia della letteratura inglese, persino un giallo di Agatha Christie si intitola: The mirror crack’d from side to side, Collins 1962.
  4. e come lui altri pittori preraffaelliti, da William Holman Hunt a Dante Gabriel Rossetti

11 Commenti

  1. sparz!!!
    la mia canzone preferita al iv anno di liceo! che flash.
    detto questo, penso che la ballata di tennyson sia struggente, e riesca a mantenere, in una struttura che come dici evoca sospensione, tutti la nostalgia degli amori fuori tempo. e questo. buon lunedi,
    chi

  2. Porcaccialamiseriaccia a me non è mai capitato °-° , almeno non è capitata guardando ne-gli occhi.. O_O

    è grave?!; ufff si, che sconfortante desolazione comprime il mio cuore –

    è terribile – morirò senza mai provare quella senzazione simmetrica..

    .. poi,

    sentire che c’è chi è ingrado di provarla “più volte”..’più volte’
    mi getta in uno sconforto devastante..

    ..sento il mio asimmetrico destino avventarsi, con vitrei schiaffoni, contro l’anima mia ..

    e sento la mia autostima spiaccicarsi contro l’umidità dello specchio del bagno.. iuiiiiiiiiii é_è

    Amor, ch’a nullo ha amato..

  3. Ma non possiamo negare il fascino romantico che queste storie ci (mi?) trasmettono…o no? Naturalmente non penso di credere al colpo di fulmine.
    Non è tutto concesso a questa così attraente letteratura?
    Povera Ginevra, sì, doveva pur avere qualche tipo di follia…

    Mi fa piacere che qualcuno in Italia, come me, apprezzi Loreena McKennitt. Rimango sempre ammaliata dalle sue sinfonie e da quella meravogliosa zazzera di capelli rossi…

    D.

  4. oh, sparz! così tiri via la forza del legame che uno sguardo profondo reca a un altro sguardo (ignaro? consapevole?) come un dono e come una maledizione?
    bon. comunque hai scritto come sempre un bellissimo post. avrò dormito saporitamente domattina. ;-)

  5. chi: Loreena è unica, hai sentito la Penelope’s song?
    ares: dài, non ti buttare così giù, scava bene nella memoria, o guarda positivamente al futuro.
    tina: grazie, aggiungo che non tiro via nessuna forza, dico solo di non chiamarla amore, che sta da un’altra parte…

  6. sono curiosa di sapere cosa intendi per “altra parte” ;-)
    ne scriverai, un giorno?
    :-*

  7. Tina, dove stia esattamente l’altra parte ognuno lo scopre dentro il suo irripetibile vissuto, io mi limito a proporre che la si cerchi all’interno della grande famiglia delle relazioni simmetriche, o comunque decentemente simmetriche; la perfezione non è di questo mondo, però è meglio cercarla un po’, no?

  8. caro sparz le mie origini greche mi conducono ai tre verbi con cui i miei avi e le mie ave si riferivano alla parola amore. è per questo che mal tollero l’affermazione che ci sia un amore più amore di altri … sui sentimenti umani e le relative definizioni vado molto cauta . quanto alla ricerca di relazioni simmetriche mi trovi pienamente d’accordo …

  9. cara Tina, guarda che io non ho detto che c’è un amore più amore degli altri, ho solo proposto quella che ho chiamato una “chiarificazione linguistica”, e cioè di riservare la parola amore solo a quel tipo là, sui cui peraltro consenti. Tutte le altre relazioni, cioè quelle non sufficientemente simmetriche, possono essere altrettanto intense e avere pari dignità, per così dire, se uno è preso dal coinvolgimento forsennato. Certo che poi nella mia personale scala di valori, l’unico che val la pena di perseguire è quello simmetrico. Gli altri portano solo sofferenza, almeno ai non masochisti, o no? E dei tre verbi dei tuoi antenati quale preferisci, per te, dico? Forse ἐράω ?

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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