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La libertà di Internet: proteggerla prima di progettarla (2)

di Ethan Zuckerman – traduzione di B. Borgato e B. Parrella – leggi la prima parte

Per sperare di vedere fornitori come Facebook propagare la libertà di Internet in questi ambienti recintati, occorre che prima di tutto s’impegnino a proteggere tali diritti sulle proprie piattaforme.

Un compito tutt’altro che facile. Sin dall’inizio molti hanno proposto di estendere l’Articolo XIX della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani anche ai diritti del cyberspazio – Robert Gelman aveva redatto una prima bozza di documento per i diritti nell’era digitale proprio in base alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1997. Più recentemente Max Sengens e la Internet Rights & Principles Coalition hanno cercato di affrontare la difficile questione della trasposizione del diritto alla libertà d’espressione nel contesto di Internet, lavorando nell’ambito dell’Internet Governance Forum. Rebecca mi conferma che insieme alla Global Network Initiative stanno impegnandosi a stilare una serie di “best practices” con l’obiettivo di proteggere i diritti stabiliti dall’articolo XIX anche nei social media e nelle piattaforme pubbliche.
È difficile trovare un punto d’incontro tra il diritto individuale alla libertà di parola e i diritti delle aziende private di creare comunità online di qualsiasi tipologia vogliano. Pochi di noi metterebbero in dubbio il diritto di Whyville di creare una comunità sicura adatta ai bambini, e a tal fine vanno limitati tutti quegli argomenti che potrebbero rendere la comunità imbarazzante o pericolosa per i più piccoli. Ma non me la sentirei di consigliare l’uso di Facebook per quegli attivisti che operano all’interno di società chiuse, dove la piattaforma ne disciplina i messaggi in base ai Termini di Servizio che vanno accettati dagli utenti: “Non userai Facebook per compiere azioni illegali, fuorvianti, maligne o discriminatorie.” Chi determina cos’è ingannevole o maligno? Illegale secondo quali leggi?

Facebook ha il diritto di limitare l’uso della sua piattaforma in tal modo. (Ricordo che quando ero responsabile del settore reclami per Tripod.com, ho approfittato dei nostri Termini di Servizio, che ci permettevano di rimuovere i contenuti a nostra completa discrezione.) Ma qui abbiamo la responsabilità di chiederci se il tipo di libertà di Internet che stiamo cercando sia possibile senza la cooperazione dei fornitori di servizi online nella protezione e diffusione di tali diritti. (Potremmo anche discutere se la libertà di Internet è un’idea che va applicata solo quando negli Stati Uniti si parla di società chiuse, oppure se è un concetto di valore universale.)

Vedo quattro nuove strategie possibili per proteggere la libertà di parola in un’Internet centralizzata (e sono sicuro che i lettori ne suggeriranno altri):

– Cercare di estendere la tutela dei diritti sancita dall’articolo XIX anche al cyberspazio. Ciò potrebbe avvenire tramite un’apposita legge oppure una sentenza giudiziaria che stabilisca un precedente dove viene dichiarato che un discorso politico ha la stessa protezione su una piattaforma online ospitata su server basati negli USA, come lo ha in uno spazio pubblico. (Nel caso improbabile che ciò dovesse concretizzarsi, mi aspetto di vedere i fornitori di servizi online rispondere con delle piattaforme che aggiungano un tag/contrassegno sui contenuti potenzialmente offensivi e avvertano che le opinioni espresse sono unicamente quelle del singolo utente, non del fornitore di servizi online).

– Chiedere al fornitore di servizi online di proporre un sistema di misurazione dove venga comunicato il livello di apertura rispetto a tematiche diverse. L’obiettivo è quello di trasformare i Termini di Servizio in documenti facilmente leggibili per permettere agli utenti di scegliere meglio e di usare piattaforme ottimizzate a tutela della libertà di parola o di agevolare determinati tipi di comportamento all’interno delle comunità virtuali. (Questo caso seguirebbe le orme degli innumerevoli tentativi avviati per documentare e proteggere i diritti dei consumatori online, a partire da TRUSTe. Tali tentativi non si sono trasformati in successi eclatanti, e non c”è nessuna garanzia che un’azienda possa aver successo proprio perché sia disposta ad offrire forti protezioni alla libertà di espressione, anche con questo tipo di certificazione. D’altra parte, si stanno facendo molti sforzi al fine di rendere i marchi per la privacy più leggibili e utili agli utenti; tale posizione potrebbe rappresentare una tendenza verso una maggiori possibilità di scelta da parte dei consumatori in quest”ambito di Internet.)

– Avere delle piattaforme costruite e mantenute dai vari Stati nazionali, progettate esplicitamente per competere con le piattaforme commerciali e per fornire degli spazi il più aperti possibile alla libera espressione. Un’idea che di primo acchitto i lettori statunitensi possono considerare folle, ma che non si allontana troppo da analoghe iniziative lanciate nell’Unione Europea, compreso lo sviluppo di Quaero, un motore di ricerca progettato proprio per offrire strumenti alternativi a Google. Visto però che l’esperienza di Quaero non è andata a buon fine, mi chiedo se il tipo di attivisti a cui mi riferisco qui si troverebbe più a suo agio con una piattaforma sponsorizzata dal governo piuttosto che da un’impresa commerciale.

– Incoraggiare la costruzione di social network decentrati, come quello suggerito da Dave Winer in alternativa a Twitter. Se Facebook non fosse un sito unico, ma un insieme di siti collegati tra loro che utilizzano un protocollo comune per Facebook, potremmo aspettarci una varietà di ambienti di libera discussione grazie all’offerta concorrenziale di più piattaforme. In qualità di fornitori di servizi sia le imprese a scopo di lucro che le ONG  potrebbero ospitare dei server con elevato grado di apertura per gli attivisti, o ancora meglio, potrebbero gestire dei server in proprio… esattamente come facevamo negli anni ’90, quando molti gestivano un proprio server che girava su Apache. Il problema? È molto più facile sviluppare software centralizzato che decentrato, e la distribuzione di un protocollo non risolve il problema della concentrazione di piattaforme di hosting (vale a dire che il problema del controllo della libertà d’espressione verrebbe semplicemente trasferito da Facebook a Rackspace, e non cambierebbero i risultati.)

C’è inoltre una strategia più ampia che va praticata – sperare che i fornitori tutelino la libertà di parola e tentare di fare pressione su di loro quando non lo fanno. Operando una ricerca digitando “facebook petition” si ha l’impressione che le petizioni rivolte a Facebook perché modifichi le proprie policy eguaglino quasi il numero di quelle organizzate dagli utenti di Facebook per questa o quella campagna. Questo metodo tende a ricompensare chi alza la voce e ha buoni contatti in loco – se si conosce qualcuno in aziende tipo YouTube o Yahoo!, può darsi si riesca a fare in modo che decisioni su quale materiale sia accettabile vengano riconsiderate o addirittura capovolte, ma a lungo andare non lo si può certo considerare un modello sostenibile per la libertà d’espressione. E tale strategia si va rivelando sempre più difficile da gestire anche per gli stessi fornitori di servizi. Un conto è individuare e cancellare opinioni razziste o offensive nella lingua che si conosce, ma quando a disposizione si ha una squadra che parla solo inglese e si vuole stabilire cosa sia offensivo in arabo o in cinese, non sorprende certo che le decisioni conseguenti risultino poi discutibili.

Cosa c’entra tutto ciò con la visione del Segretario di Stato statunitense, Hillary Clinton, sulla libertà di Internet, una visione che proietta tali istanze di libertà all”estero ben più che nei confini nazionali? Se continuiamo a perseguire un’Internet centralizzata (e non vedo forti segnali che puntino in direzione opposta), i due aspetti sono inestricabilmente connessi tra loro. Potremmo finanziare una serie di strategie atte a consentire agli utenti iraniani di accedere a YouTube, per poi scoprire che YouTube, in quanto piattaforma per la libertà di parola, è stato reso inutile dalle sistematiche campagne tese a rimuovere i video “controversi” caricati dal “cyber-esercito iraniano”.

Diamo per scontato che la Global Network Initiative oppure la Internet Rights & Principles Coalition riescano a stilare una serie di “best practices” atte a tutelare la libertà di Internet per quanti possono accedere a piattaforme che sostengono la libertà d’espressione. Oppure consideriamo l’eventualità che Facebook apra il dialogo sulla gestione interna con i suoi utenti, offrendo loro scelte e decisioni concrete sul futuro della piattaforma. Forse a quel punto avremmo qualcosa di valido da proporre a chi opera nelle società chiuse.

Come dicevo nel post precedente, qualora lo volesse, un sito quale YouTube potrebbe rendere assai più difficile a un censore del governo cinese l’attività di blocco dei contenuti. YouTube può gestire un ampio spazio come indirizzo IP e potrebbe suddividere YouTube.com fra migliaia di diversi IP e poi spargerli su svariati server di YouTube. Strumenti anti-censura come Tor e Ultrareach hanno messo a punto strategie che distribuiscono gli indirizzi IP agli utenti di società chiuse con modalità che rendono molto difficile il blocco tempestivo di tali IP da parte dei censori.

Qualche anno addietro Roger Dingledine e Nick Matthewson di Tor avevano proposto un progetto anti-bloccaggio con diverse idee interessanti (particolarmente nella sezione 7.4 — Public bridges with central discovery) che sarebbero estremamente utili per realizzare un YouTube immune a simili filtri. (Tor ha poi implementato parecchie di tali idee per fronteggiare l’incremento di blocchi in Cina con ottimi risultati). Altre strategie includono poi il rilascio degli indirizzi IP tramite canali diversi dal web, tra cui email o clienti software dedicati — strategie usate con ottimi riscontri da sistemi quali Ultrareach e Freegate.

Come per ogni proposta mirata ad aggirare filtri e blocchi, non esiste una soluzione perfetta. Potremmo però avvicinarci alla libertà di Internet se aziende quali Google e Yahoo! decidessero di combattere attivamente per conto degli utenti cinesi, iraniani o burmesi.

Gli ostacoli al coinvolgimento dei fornitori di servizi online contro i filtraggi non sono di ordine tecnico, quanto piuttosto concettuali e imprenditoriali. Se Facebook abbracciasse l’idea di rappresentare un nuovo spazio pubblico per la libertà d’espressione, avrebbe un incentivo per costruirsi un’immagine intorno a questa visione della Libertà di Internet, propagandola così  in tutto il mondo. Se però Facebook ha una posizione diversa, tant’è. Nutro però il sospetto che quelle piattaforme che vorranno impegnarsi a tutelare e proiettare la libertà di parola godranno di un’ondata di fiducia, sostegno e utenti.

[La prima parte di questo articolo è stata pubblicata qui]

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Testo originale Internet Freedom: Protect, then project
Pubblicato su Voci Globali – La Stampa – 26/3/2010
Pubblicato sotto Licenza Creative Commons Attribution 3.0

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1 commento

  1. a proposito di libertà su internet, noto con amara tristezza che i miei commenti al post riguardante il libro di Sandro dell’Orco, intitolato “Delfi senza redenzione”, risalente al 2008, sono stati cancellati. Peccato, caro Sandro, visto che i miei commenti erano i soli che domandassero qualcosa veramente a te che sei autore e non sai rispondere; a te che si potrebbe dire quello che Pasolini diceva ai Barberini, nel tuo caso: se un po’ esisti è perché un po’ esistono i tuoi commentatori. Peccato davvero. Peccato che NI contribuisca a ciò. Peccato proprio.

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