Scampato al disastro

di Flavia Ganzenua

E ti vengo a cercare
con la scusa di doverti parlare

Franco Battiato, E ti vengo a cercare

Che stai facendo?
Leggo, e tu?
Domenica ci vediamo? Cinema?
Ti chiamo io.

Dico e metto giù. È notte, è giorno, è mattina, è la solita ora in cui mi telefona sempre, da quando vivo qui. Lui, l’uomo scampato al disastro, mi chiama, si accende una sigaretta, e so che pensa a tutto tranne che a me.

Prima del suo arrivo, disfo le coperte, sparpaglio i vestiti, sposto le cose, faccio finta di non aspettarlo, ma so che lui è la somma di tutti quelli che ho perso. Sono tutti qui, dietro di me, addosso. Mi seguono ovunque.

L’uomo scampato al disastro entra nella stanza. Lo sistemo con cura sul letto. Gli tolgo le scarpe, gli inumidisco le labbra. Attraverso le palpebre sgranate, mi guarda. Mi sdraio accanto a lui, e lascio che mi spogli.

Muschio bianco. La mia analista sa di muschio bianco. Lo realizzo all’improvviso, all’uscita della metro. Qualcuno mi passa accanto ed ha il suo stesso, identico odore. Mi sento meglio e peggio all’idea di ritrovarla quando voglio, a comando. Basta comprare quel profumo. Ed è un profumo così comune, a buon mercato. Ci fanno di tutto, dalle saponette, alla schiuma da barba. È con questo senso di potere e di lutto che vado alla seduta. Salgo le scale. Muschio bianco, lo sento dal pianerottolo. Suono il campanello. L’analista mi apre. Si accomodi, come sta? Bene e lei? L’odore di muschio copre la sua risposta. Entro, ed entro, ed entro, e ne sento l’inizio e la fine. Lo butto via con il respiro, lo mastico, e lo risputo. E la immagino, dietro di me, i capelli tagliati di netto, un colpo di forbice e via, come in convento. Lo tengo stretto, addosso, ne sono piena, ma quando chiude la porta, mi accorgo che la stanza è priva di odore. Lei è priva di odore. Mi chiedo se non sia una cosa voluta, da manuale. Niente deodoranti, sapone neutro, abiti sempre diversi a cui non ci si può affezionare, intravisti di sfuggita tra un discorso e l’altro, incastrati tra padre e madre, stretti in un nodo doppio, un cappio. La immagino mentre fa tutto questo con cura, come un chirurgo che si disinfetta le mani prima di un intervento. Mi siedo, e parlo di lui, dell’uomo scampato al disastro. Ne parlo da mesi. Cerco di ricordare da dove è venuto e quando. Cerco di ricordare a chi assomiglia.

***

Domenica. Cinema. Il titolo del film ha qualcosa a che vedere con un futuro lontanissimo, un trapassato remoto anteriore prossimo. Arrivo un po’ in anticipo. L’uomo scampato al disastro è già lì, appoggiato a una macchina. Il cinema è pieno. La fila arriva in mezzo alla strada, impedisce alle auto di passare, è un assedio. L’uomo scampato al disastro si prepara una sigaretta. Lo osservo mentre distende con cura il tabacco sulla cartina. Mi avvicino. Sembro distratta, ma è un’illusione ottica. Lui è l’epicentro. Alza gli occhi su di me, afferra il filtro che tiene stretto tra le labbra. Non lo bacio, non mi bacia, come sempre.

Ho preso i biglietti, dice, con una specie di fatica che gli consuma la voce.
Com’è che si intitola il film? dico, con una specie di euforia che trattengo in bocca.

Sorride, il berretto calato fino alle sopracciglia. Bagna la cartina, la arrotola, accende la sigaretta. Come a un segnale convenuto, come se gli avessero dato una schicchera, la gente entra nel cinema tutta quanta insieme, risucchiata. Siamo gli unici rimasti lì fuori. Ed è troppo presto per i titoli di testa e troppo tardi per fare dell’altro, qualunque altra cosa.

L’uomo scampato al disastro dà due tiri.
Allora? Che hai combinato‘sta settimana? Hai scritto? dice, tirandomi giù il cappello.
Annuisco, rispondo, sto zitta.
Te possino, sussurra, poi butta via la sigaretta, mi prende sottobraccio, e mi spinge dentro.

***

Vuoi salire da me? penso, mentre paga il biglietto, ridono in sala, rido io, poi lui, mentre prendo le birre e gli racconto qualsiasi cosa mi costi meno fatica possibile, mentre saliamo in macchina, si ferma all’incrocio, arriviamo sotto casa, non mi guarda, non lo guardo. Vieni da me, chiedimelo adesso, ora, penso, mentre accosta l’auto in seconda fila, davanti ai bidoni.

E le luminarie che fine hanno fatto? Sono esplose tutte quante insieme? dice, le mani aggrappate al volante, proprio al centro, il maglione infeltrito che fuoriesce appena dal cappotto e gli lascia scoperti i polsi congestionati.

È vero, dico, non ci avevo fatto caso, e slaccio la cintura di sicurezza. Sali su da me, penso, poi prendo la borsa, cerco le chiavi. Apro la portiera, e subito la richiudo.

Ti preparo un the? dico.
Parcheggio, dice.
Annuisco ed esplodo, di colpo, tutta quanta insieme.

***

Hai messo delle foto nuove.
Che cosa? dico, fingendo di avere altro da fare, altro da guardare che non siano le sue mani infilate in tasca, la montatura nuova degli occhiali, i nei dietro la nuca, la maglietta grigia che ha sotto la camicia, camicia che ha sotto al maglione, al cappotto.

Questa foto… prima non c’era. Chi è questo ragazzino, tuo fratello?

Sì, ce l’hanno scattata in un parco qui dietro. La fontana era piena di pesci rossi. Mi sedevo sul bordo e cercavo di prenderne almeno uno. Ci sono caduta dentro non so quante volte. Qui è proprio un attimo prima.

Sorride, senza voltarsi. Si avvicina alla foto, la guarda a lungo, ma non la sfiora.

È fica. Anche io avevo una foto simile. Stesso cappotto, stesso taglio di capelli. Potrebbe averla scattata la stessa persona. Quanti anni avevi?

Tre o quattro, credo. Siamo sotto casa di mia nonna. Quella lì in alto è la sua finestra. Abitava a due passi da qua, vicino alle mura. Mi sembrava in tema, sussurro, mentre fingo che quella foto sia lì a prescindere da lui, che questa stanza esista al di là di lui. Invece c’è una stratificazione di cose, c’è un prima e un dopo, come se avessero scattato sullo stesso negativo più e più volte.

E questo poster? Anche questo prima non c’era.
Me l’ha portato mia sorella da Berlino. È di un centro sociale famoso, ci fanno pure delle mostre.
Bello. Sembra un collage, dice.
È un collage, penso, proprio come questa stanza.

***

Sono a mollo tra i pesci rossi. L’acqua mi arriva alle ascelle. Non so perché li chiamino pesci rossi, visto che sono rosa, di un rosa pallidissimo, e bianchicci. Sono così gonfi che sembrano sul punto di esplodere. Voglio portarne a casa uno, il più grosso, sposarlo, e dormire tutte le notti con lui. Cerco di prenderlo, ma il fondo è viscido, perdo l’equilibrio, cado giù. Mia nonna, affacciata alla finestra urla, si sbraccia. Mio fratello butta il pallone lontano e corre verso di me. Seduto sul bordo della fontana, l’uomo scampato al disastro fuma una sigaretta e guarda dritto dietro di sé.

***

Hai cambiato profumo, sussurro.
Sì, è uno nuovo, dice, senza smettere di sorridere.
Che c’è? A che pensi?
A niente, ti guardo. E tu?

A niente, dico, mentre spengo la luce. Guardami, guardami ancora, penso, mentre lascio che mi prenda e mi metta a letto. Mentre lascio, lascio, lascio.

***

L’uomo scampato al disastro apre gli occhi. È tardi. Dice. Devo andare. Si gira su un fianco, fa forza sui gomiti, si tira su. Saltano tutti i legacci. Li sento schioccare uno ad uno, sono fruste. Mi guarda. È un gigante. Io sono alta solo pochi centimetri. Stringo le gambe, cerco di fermare l’emorragia, ma il liquido cola lungo le cosce, i polpacci, cola giù. La stanza è immersa in un liquido caldo. Galleggiamo sulla superficie, rattrappiti. L’uomo scampato al disastro si volta, le mani aggrappate al bordo del letto, i piedi a mollo nell’acqua nerastra. Il liquido è così denso che è quasi solido. Lo osservo mentre si rannicchia su se stesso, come se cercasse di ridurre al minimo la superficie da bagnare, come se scegliesse con cura il pezzo da amputare. Resta, vorrei dirgli, non te ne andare, invece tappo bocca, naso, orecchie. Rimane immobile, in bilico, come se aspettasse un cenno qualunque per tornare indietro, o cadere giù. Esita, poi si immerge fino alla vita. Raccoglie i pantaloni dal fondo. Li infila. Si avvicina alla porta. Controlla che in corridoio non ci sia nessuno. Esce. Mi copro. Ricomincio a contare le settimane. Aspetto che torni.

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21 Commenti

  1. Un altro bel racconto.
    Rinnovo la mia ammirazione, incondizionata.
    Dove siete editori? Fatela scrivere!

  2. Scritto bene, la forma stilistica si sposa con gli intenti dell’autore.
    Qualche contenuto non mi è chiaro, mi sfugge qualcosa.

  3. Riconosco il movimento, però qui c’è ben altro.
    Bello Flavia, davvero.
    (valerio, ti adoro)
    kiss
    a.

  4. Vi ringrazio moltissimo per i bellissimi commenti che avete lasciato, e per il vostro interesse. Flavia.

  5. interessante, sembra kundera in acido e in assenza di tempo. com’era il titolo del film? io ipotizzo “the day after tomorrow”

  6. bello questo racconto di flavia, come le insegne al neon che si accendono e si spengono in una città estranea, sotto la pioggia, liquido, da istantanea; una sorta di polaroid sui tempo dilatato e contratto delle attese e dei ritorni.
    daria

  7. bellissimo, struggente, tenero, sospeso, travolgente. ogni parola è un abisso, una scarica elettrica. quasi non c’è differenza tra leggere e vivere l’ansisa, l’angoscia, l’attesa, di un amore che sta nascendo o già sta morendo…
    un’autrice sapiente di cui attendo, fremente, altre meraviglie

  8. bello
    molto bello
    è così bello
    un altro bel racconto
    bello, inquietante
    un’altra impronta
    che bello
    bellissimo
    cazzo, che bello
    scritto bene
    piaciuto anche a me
    qui c’è altro
    brava
    brava
    interessante

    un vero campionario di critica militante del terzo millennio
    augh!

    attendo, fremente, con la polaroid in mano, altre meraviglie, altre insegne al neon, altri abissi

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