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JANE EYRE

di Franco Buffoni

Definito da G. H. Lewes sul Westminster Review “il più bel romanzo dell’anno” nel gennaio 1848, Jane Eyre spicca nella produzione di Charlotte Bronte, sia per quanto attiene gli schemi di confezione testuale sia per la vivacità e lo spessore psicologico dei personaggi. Se, per quanto riguarda la seconda caratteristica, si è generalmente concordi nel ritenere tale riuscita dovuta alla prevalenza nel romanzo dell’elemento autobiografico, sulla prima le opinioni sono alquanto divergenti. Si passa infatti da chi sostiene che, dopo il rifiuto di The Professor da parte di tutti gli editori, Charlotte avesse deciso di costruirsi in anticipo fin nei minimi dettagli l’intricata trama di Jane Eyre, a chi ritiene invece che il plot risulti così ben congeniato per una serie di circostanze fortuite, non dovute a una precostituita serie di scelte narrative da parte della scrittrice 1. E cita a favore di questa seconda ipotesi i successivi romanzi Shirley (1849) e Villette (1853), certamente non altrettanto ben calibrati in fatto di suspense e pathos, e soprattutto carenti nella armonica successione delle svolte psicologiche nei protagonisti.
In Jane Eyre non v’è dubbio che tutti gli eventi e i comportamenti degli altri personaggi sono in funzione delle svolte psicologiche (ma anche dei sogni, delle premonizioni) della protagonista. Tanto più accurati e approfonditi sono i ritratti degli altri characters, tanto più si arricchisce – mediatamente – il ritratto di Jane. E quindi di Charlotte. Chi altri se non Charlotte poteva in fine desiderare di avere alla mercè della propria bontà colui che – per amore – l’aveva tanto tratta in inganno? E v’è una moglie – proiezione forse della famigerata Madame Héger che a Bruxelles, per il mero fatto di esistere, le aveva precluso la felicità – da compiangere prima nella sua pazzia, e da piangere dopo morta. V’è un vicario, River (alias: il padre, Patrick Bronte) che – dopo la cocente delusione, salvatala dai pericoli – vorrebbe sposarla-imprigionarla, al quale Jane-Charlotte dice ‘no’ ritraendolo nella sua quotidiana meschina ricerca di azioni positive per sé, per l’avere del suo conto aperto con un dio più computista che metodista. Ma soprattutto v’è Charlotte nel suo assoluto bisogno di impossessarsi di Héger-Rochester, cioè dell’uomo malinconico e sardonico affascinato dalla vitalità e dal coraggio della fanciulla. Che non può essere ‘acquisito’ finché resta autosufficiente e ammogliato. Allora, anzitutto si dimostra come tale precedente legame matrimoniale sia ingiusto; quindi da esso lo si libera. Ma non basta: occorre che egli diventi cieco, rimanendo per sempre alla mercé (per l’appunto) della bontà e dell’amore della sua eroina-salvatrice.
Aldilà dei nostri, forse troppo espliciti, richiami psicologistici al narcisismo possessivo di Charlotte, restano alcuni verificabili episodi della biografia della scrittrice facilmente individuabili come sostrato della narrazione. Fonte principale è, naturalmente, l’accurata e vivacissima Life of Charlotte Bronte (1857) di Mrs Gaskell, ricca anche di aneddoti e particolari raccolti dopo la morte della scrittrice dalla viva voce di alcune amiche di Haworth nonché del reverendo Patrick Bronte 2. Incidentalmente si può osservare che la biografia di alto valore letterario scritta dalla Gaskell contribuì non poco ad alimentare fino ai primi decenni del nostro secolo il mito di Charlotte, a scapito soprattutto di Emily. E che soltanto nella seconda metà del Novecento la scala dei valori estetici in senso stretto si è finalmente assestata con il riconoscimento della superiorità artistica dell’autrice di Wuthering Heights. Un riconoscimento che Charlotte forse paventava, se nella prefazione a un’edizione postuma del romanzo della sorella giunse a scrivere: “Whether it is right or advisable to create beings like Heathcliff, I do not know: I scarcely think it is”. L’altra – molto più recente – grande fonte di informazioni sull’intera famiglia è Winifred Gérin, che ha dedicato l’intera esistenza alla peculiare razza dei Bronte, trascorrendo ben dieci anni nel paese di Haworth intenta alla scrittura delle quattro biografie fondamentali: Anne Bronte (apparsa nel 1959), Branwell Bronte (1961), Charlotte Bronte: The Evolution of a Genius (1967) e Emily Bronte (1971).
Dunque oggi ci è possibile rievocare numerosi episodi nella certezza che sono stati ben ricostruiti. Il lancio della Bibbia contro Charlotte-governante, per esempio, ad opera di uno dei ragazzini a lei affidati nella casa patrizia di Stonegappe: la governante – sosteneva Charlotte è un adulto, costretto a stare coi bambini senza possedere l’autorità di un vero adulto. La visita a Norton Conyers, dove Charlotte ha modo di vedere la soffitta in cui era stata rinchiusa per decenni una donna ritenuta pazza. E Mrs Gaskell rivela che già nel 1835, quando era a Roe Head, Charlotte aveva saputo la storia di una governante di Leeds, che – solo un anno dopo essere andata sposa a un ricco signore e avergli dato un figlio – scoprì che costui era già sposato a una donna uscita di senno. E ancora – circa l’incendio – l’episodio del fratello Branwell, che in preda all’alcool e all’oppio dà fuoco al proprio letto nella casa di Haworth. E naturalmente i terrori della bambina Charlotte, le morti precoci cui dovette assistere, gli stenti subiti, i racconti inventati coi fratelli, le storie di Angria e di Gondal.
Tutto questo e molto altro materiale autobiografico, come in un complesso millimetrico puzzle, si dispiega lungo i vari capitoli di Jane Eyre in modo straordinariamente (per Charlotte) organico e coerente. Chiave tecnica del felice esito dell’operazione di cucitura di episodi autobiografici lontani l’uno dall’altro nel tempo e slegati da qualsiasi unità spaziale è, a nostro avviso, l’appropriato tono di confessione autobiografica che Charlotte sa imprimere al suo lavoro. (Mentre in altre opere lo stesso ‘tono’ fallisce miseramente per troppa ‘invenzione’ inserita a freddo).
Il maggior pregio dell’autobiografia romanzata probabilmente consiste nella sua forza di immediatezza sulla narrazione, e quindi sulla curiosità del lettore. Perché conferisce freschezza alle esperienze dell’io narrante. Per esempio, anche quando l’azione è virtualmente ferma, basta che Charlotte-Jane rifletta, che pensi ‘in diretta’, e l’effetto è quello intimistico-coinvolgente della narrazione diaristica. Per contro, il rischio dell’autobiografia romanzata sta nell’eccesso di sequenzialità temporale, cioè nella prevalenza del dato cronachistico-diaristico. Solo se – come perfettamente avviene in Jane Eyre – tale rischio è sventato da continui arricchimenti della trama, con l’inserimento di nuovi personaggi, episodi, rivelazioni, i pregi rimangono tali assorbendo i difetti. Ha scritto Trollope nel XIII capitolo della sua An Autobiography di non saper citare nella narrativa inglese un interesse più thrilling verso i propri personaggi di quello dimostrato da Charlotte Bronte per Rochester e la governante nella parte centrale del romanzo: “She lived with those characters, and felt every fibre of the heart, the longings of the one and the sufferings of the other”.
Vale forse la pena di sottolineare il termine usato da Trollope: desideri. Perché se era legittimo che un uomo – ancorché vittoriano – ne provasse, non era affatto legittimo che ne potesse provare una donna, e per di più di rango sociale inferiore, e ancor più che ne scrivesse liberamente. Qui sta la chiave da un lato del successo, dall’altro delle censure dei critici più bigotti e tradizionalisti, come quelli del Quarterly Review. (Censure che, naturalmente, non fecero che acuire la morbosa curiosità dei lettori per l’opera e per l’autrice) 3. Una donna negli anni quaranta dell’Ottocento proto-vittoriano non poteva provare desideri, a maggior ragiore se governante e provinciale. Invece Charlotte-Jane racconta di una passione femminile fortissima per un uomo sposato: perché è vero che Rochester la corteggia e si propone, ma è altrettanto vero che – a differenza di tutti i precedenti personaggi femminili della narrativa inglese – Charlotte-Jane desidera fortemente già prima Héger-Rochester, e non ha vergogna di ammetterlo e di scriverlo nel suo ‘diario’. La donna vittoriana, ridotta allo stato di femmina asessuata, trova dunque in Jane Eyre un ideale contraltare femminista e libertario, vera e propria incarnazione del pensiero di Mary Wollstonecraft.
Perché la donna di Charlotte è una donna che lavora e si guadagna da vivere fuori casa, che rifiuta i pretendenti se non le aggradano, che si sposa senza il consenso del padre, che pone la propria dignità e i propri desideri sullo stesso piano di quelli maschili. Se poi non tutto viene esplicitato, sta al lettore moderno riflettere su quanto sconvolgente dovesse soffiare nelle menti vittoriane la costante brezza di sensualità che pervade il romanzo, esplodendo a tratti in passione turbinosa. Si rifletta su come anche l’uomo colto vittoriano, l’uomo di lettere, il poeta laureato dal passato rivoluzionario e progressista reagiva alle profferte della femmina emancipata: “Literature cannot be the business of a woman’s life, and it ought not to be”, scrive Robert Southey a Charlotte Bronte che gli aveva inviato dei manoscritti. “The more she is engaged in her proper duties, the less leisure will she have for it, even as an accomplishment and a recreation”. 4
La via verso Tess of the D’Urbervilles – ci si potrebbe chiedere – è dunque aperta, per contrasto, proprio da Charlotte-Jane? Oppure dalla contemporanea Becky Sharp? Più da Charlotte-Jane, crediamo, in quanto la terribile Becky, che per sua stessa ammissione non ha mai avuto un’infanzia, che a otto anni è stata costretta ad essere già donna, che trovandosi figlia di un pittore debosciato e di una cantante non aveva nemmeno il nome a proteggerla, ci pare maggiormente il punto di arrivo delle Moll Flanders. Jane Eyre è l’esatto contrario di Becky Sharp: pur tra gli stenti e le privazioni ha avuto un’infanzia di sogni e di fantasia, con tutto il tempo per imparare a desiderare di divenire donna. Becky è cinica e disperatamente fredda; Jane crede in Dio e nei suoi segni e disegni ed è disperatamente passionale. Forse il suo punto di arrivo, la sua pronipotina, è la tenue Little Governess di Katherine Mansfield, che vuole dimostrare di essere benissimo capace di sbrogliarsela da sola, e alla fine davvero impara, ma a costo di una atroce delusione. Lo spiraglio alla crescita rimane comunque aperto, come per Charlotte-Jane, pur nell’ammissione: “None but those who had been in a position of a governess could ever realize the dark side of respectable human nature”. E qualche decennio dopo Henry James avrebbe osservato quanto fossero facili da sviare le governanti nel loro isterico erotismo represso.

Crediamo legittimo, a proposito della narrativa e del carattere di Charlotte Bronte, parlare di una curiosa commistione di elementi romantici e di realismo didattico. Un mélange che, anche stilisticamente, potrebbe portarci a individuarne l’erede spiritualmente più diretta in George Eliot. E questo anche per quanto concerne lo stile col quale l’elemento autobiografico viene coinvolto nella narrazione. Intelligenza, dignità, un delicato senso ironico, e soprattutto insofferenza verso le belle donne sprovviste di tali qualità e capaci soltanto di smorfie e moine: sono queste infine le caratteristiche comuni ad entrambe le scrittrici. Ci conforta in questa convinzione anche la lettura di un recentissimo studio di Kathryn Bond Stockton apparso per i tipi della Cambridge University Press: God Between Their Lips. Desire Between Women in Irigaray, Bronte, and Eliot. Uno studio sul cui conclusivo assunto in toto non concordiamo, ma che contribuisce a illuminare dapprima parallelamente, quindi convergentemente le figure di Charlotte Bronte e George Eliot.
Perché, anche ad un livello di speculazione più ampio e profondo, vediamo consolidarsi il terreno degli esiti in comune tra le due scrittrici. Ci riferiamo, per esempio, alla vexata quaestio della funzione della poesia e della funzione della prosa. Nella prima metà del secolo non si ponevano dubbi sul fatto che lo strumento letterario per esprimere privati sfoghi e passioni, per esplorare gli abissi delle emozioni e dei sentimenti fosse la poesia lirica. Wordsworth e Shelley da un lato; Thackeray e Dickens dall’altro. Le profondità personali, l’esposizione di nuove idee e moralità erano appannaggio dei poeti; le correnti moralità e il comune sentire, l’invenzione di storie commoventi ma rassicuranti su che cosa fossero bene e male spettava ai narratori. Charlotte (e Emily) Bronte e George Eliot riescono con naturalezza e stile a sovvertire questo divisione precostituita di ambiti, innovando moralmente la società, gettando nuovi semi di conoscenza attraverso il romanzo.
Un ulteriore tentativo di definizione del romanzo di Charlotte Bronte potrebbe venire da tre distinte categorie della cultura inglese e europea: pre-raffaellitismo, melodramma e gotico. Come la pittura pre-raffaellita si discosta da quella più generalmente vittoriana per la sua maggiore forza nel rappresentare sensualità e passionalità, così ci pare più consono definire idealmente pre-raffaellita la narrativa di Charlotte e Emily. Idealmente perché, pur essendo contemporanei, i Bronte e i Rossetti non si conoscevano. Ma si pensi a quante affinità sono riscontrabili anche nei rapporti di coppia Dante Gabriel-Christina e Branwell-Emily, per esempio 5.
Quanto al melodramma, preferiremmo parlare di situazioni melodrammatiche, o forse – tout court – di romanticismo melodrammatico a proposito di Jane Eyre . E’, in Inghilterra, lo sviluppo della poesia lirico-intimistica del primo Ottocento; è, in Italia, l’opera verdiana. Già in altre occasioni abbiamo avuto modo di osservare come il romanticismo italiano si concretizzi e consista nel melodramma verdiano di metà Ottocento. Quello inglese si trasforma, diviene Jane Eyre e Wuthering Heights.
Circa il genere gotico e l’eventuale possibilità di discendenza o ascendenza di Jane Eyre al romanzo nero, richiameremmo anzitutto la fondamentale distinzione derivante dalla costante presenza – in tale genere – dell’elemento preterumano. Perché il ricorso a tale elemento, come è noto, può essere di diverso segno: v’è quello di Mrs Radcliffe, impregnato ancora dell’esigenza illuministica di spiegare – almeno alla fine – ciò che in precedenza era apparso irrazionale, inspiegabile; o quello di Walpole, che lascia l’evento occulto, preterumano, misterico sino alla fine razionalmente inspiegabile 6.
Charlotte, che – rispetto ai romanzieri ‘neri’ – ha assorbito Byron e, del byronismo, l’effetto-Manfred, e ha fatto tesoro della lezione blakeiana (a sua volta mutuata dallo Shakespeare di Re Lear e della Tempesta) circa l’interpretazione delle passioni degli uomini à la manière dei fenomeni naturali, mostra di sapere fondere con eleganza i due modi di approccio, senza scadere nel didatticismo esplicito della spiegazione, ma al contempo senza fare muovere i ritratti nei quadri. Perché è vero che nel XIX capitolo l’apparizione della zingara più gotica non potrebbe essere: ma fa parte del décor, lo arrichisce senza determinare sconvolgimenti nella trama. Ed è altrettanto vero che lo svolgimento dell’azione nei capitoli XXXIV e XXXV è infine determinato dalla voce sovranaturale udita da Jane; ma tale voce può ben essere interpretata come un astratto richiamo della coscienza, un presagio. Mentre della precedente tragica risata, definita preternatural dalla stessa scrittrice, intuiamo poi senza difficoltà la fonte. Saremmo dunque propensi a definire gotico ‘simbolico’ il gotico di Charlotte Bronte 7.
Simbolico al punto da rendere visioni, sogni, premonizioni, presagi, portenti dei semplici espedienti poetici. Dalla telepatia alla consistenza metaforica della luna vista attraverso la cavità dell’albero, al candelabro che nello specchio rivela a Jane l’esistenza di Mrs Rochester, tutto l’apparentemente preternaturale in Jane Eyre è in fondo simbolico. Oppure ‘pratico’, come la mezza frase carpita alla conversazione dei servi, incapace di svelare nulla di concreto alla angosciata fanciulla, ma per contro in grado di confermarle che qualcosa di terribile in quella casa le viene tenuto nascosto. (A riguardo ci pare inevitabile il richiamo a Manfred, dove non di bigamia si tratta ma di incesto, e la frase del servo resta in sospeso sull’aggettivo possessivo, il sostantivo “sorella” non potendosi pronunciare tra quelle mura). E quella luna che in sogno ammonisce Jane a fuggire la tentazione, traformandosi in eterea forma umana (cap. XXI), assurge a ipersimbolo di gotico, romantico e melodrammatico. Pensiamo a uno dei più celebri frammenti shelleyani di metafora lunare

And like a dying lady, lean and pale,
Who totters forth, wrapped in a gauzy veil,
Out of her chamber, led by the insane
And feeble wanderings of her fading brain,
The moon arose up in the murky East,
A white and shapeless mass–

Pensiamo alla Bride of Lammermoor dell’amatissimo Walter Scott (da Charlotte esaltato in misura proporzionale all’insofferenza provata verso Jane Austen), o se preferiamo al suo divenire melodrammatico italiano nella Lucia donizettiana, ed ecco improvvisamente illuminarsi il palcoscenico, ecco la folle donna malata fare ingresso reggendo il candelabro, l’ampia camicia da notte bianca come diafana nube a velarla. Ecco, nella scena della pazzia della Lucia di Lammermoor, l’esortazione a Jane a restare sacerdotessa di Diana. Romanticismo, melodramma: gotico simbolico, per l’appunto.
Come per ogni autore precocemente scomparso, anche per Charlotte Bronte è d’obbligo chiedersi quale sarebbe stato il punto di approdo della sua arte se fosse potuta vivere altri trenta o quarant’anni. Già abbiamo indicato in George Eliot l’ideale continuatrice; e già abbiamo insinuato l’opinione che probabilmente l’arte di Charlotte non avrebbe subito ulteriori sviluppi: sarebbero certamente apparsi altri romanzi, ma il vertice – probabilmente, visti gli esiti di Shirley e Villette – sarebbe restato Jane Eyre. Tuttavia, avendo già in precedenza accennato a una curiosa commistione di elementi romantici e di realismo didattico, e tenendo al contempo presente la successiva riflessione sul gotico simbolico, non crediamo di essere azzardati menzionando Zola e il naturalismo, o – per restare in ambito inglese – Wreckage e i Village Tales di Hubert Crackanthorpe. D’altro canto risale al 1853 la decisione di Charlotte di visitare scrupolosamente – per poterne poi scrivere – la vera Londra (ospedali, prigioni, ospizi), non solo quella decorativa (opera, salotti) che piaceva all’editore Smith e alle di lui sorelle. Ma venne il matrimonio e subito dopo la morte.
Allora accontentiamoci, e non è poco, di ciò che Charlotte Bronte ci ha concretamente lasciato. Il messaggio ideale? Che le distinzioni di classe e di censo devono cadere assieme. Si veda, a riguardo, il XXIII capitolo, laddove la volitiva Jane canonizza Rochester (“Do you think, because I am poor, obscure, plain, and little, I am soulless and heartless?”) fino a fargli ammettere “So, Jane!” alla affermazione di uguaglianza di entrambi (uomo e donna, ricco e povera) dinnanzi a Dio: “Equal, as we are!”.
Non è poco per il proto-vittorianesimo, e per di più in un contesto etico: Rochester giunge alla piena maturazione in virtù delle sofferenze fisiche e morali patite attraverso la purificazione dell’incendio.
Parità nei desideri, parità nel piacere, e soprattutto parità nel parlarne: “Desideravo essere sua. Ardevo dal desiderio di ritornare da lui”. E, in campo sessuale, niente più ingenuità alla Austen, per la quale uomo è colui che indossa i pantaloni. E marito ideale è un uomo elegante, di bell’aspetto. Interessa ciò che sta sotto i pantaloni, e non importa nulla se – come Rochester – egli non è né alto né elegante, e se il suo sguardo non è dolce e innamorato. L’importante è che sia profondo e scuro. Charlotte non lo può dire esplicitamente, ma che cos’è quel “something in my brain and heart, in my blood and nerves” che rende ineluttabile l’avvicinamento a lui, e una “agony” lasciarlo, se non la più netta definizione di maschio rispetto a quella di marito (per esempio in Jane Austen)?
Sensualità, vibrazioni vitalistiche, perché no?, lawrenciane. Nel divenire di Miriam in Clara, in Sons and Lovers vediamo idealmente confluire i desideri della governante.

Note

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NOTE
  1. A riguardo, un esauriente panorama storico dei giudizi critici appare in F. B. Pinion, A Bronte Companion (London, MacMillan 1975) nel capitolo dedicato a “Jane Eyre”, pp. 105-120.
  2. Tuttavia, già con la seconda edizione, Mrs Gaskell fu costretta ad apportare tagli ed alterazioni, con particolare riguardo alla furiosa passione per M. Héger, causa del secondo soggiorno di Charlotte a Bruxelles. Solo all’inizio del Novecento l’originale versione della biografia potè essere ripristinata.
  3. Miss Rigby, alias Lady Eastlake, giunse a scrivere su The Quarterly Review che Jane Eyre era un romanzo anti-cristiano, “a murmuring against God’s appointment”.
  4. Cfr. Elizabeth Hardwick, Seduction and Betrayal. Women and Literature, New York, Vintage Books, 1975, p. 9.
  5. Si veda, a riguardo, il recente studio di Christine Alexander e Jane Sellars su The Art of the Brontes (CUP 1995).
  6. Distinzione ribadita e approfondita recentemente anche da Emma Clery nel suo ben documentato studio The Rise of Supernatural Fiction, 1762-1800, CUP 1995.
  7. Mutuiamo la definizione da Robert B. Heilman, che nel saggio “Charlotte Bronte’s ‘New Gothic'” (in From Jane Austen to Joseph Conrad. Essays Collected in Memory of James T. Hillhouse, a cura di Robert C. Rathburn e Martin Steinmann, Jr., University of Minnesota Press 1967 II, p. 120) così si esprime: “The symbolic also modifies the Gothic, for it demands of the reader a more mature and complicated response than the relatively simple thrill or momentary intensity of feeling sought by primitive Gothic”. Ancora accostamenti delle “dark images of the Gothic” alle “produced straining extravagances of melodrama” appaiono nel capitolo dedicato a “Charlotte and Emily Bronte” da Raymond Williams in The English Novel. From Dickens to Lawrence, St. Albans, Paladin 1974, pp. 51 sgg.

9 Commenti

  1. quante cose si posono imparare da questo articolo!
    il clima, le passioni, i sentimenti di un’epoca….
    e una donna minuta capace di dire:
    do you think, because I am poor, obscure, plain, and little, I am soulless and heartless?

    grazie all’autore!

  2. Molto bello, Franco.
    Ho ritrovato l’incanto provato nella mia lettura di Jane Eyre. Per lungo ho sognato il misterioso Rochester, la sua sagoma cupa, gli occhi neri, la sua sensualità.
    Per esempio mi rammento il giorno del matrimonio di Jane con Rochester il più felice. Jane scopre che è già sposato con una demente. Rochester vuole prendere Jane con una sensualità selvatica che mi piaceva assai.
    L’ambiente fatto di fantasma, di elfi, di folletti era propio il luogo dei miei sogni. Jane incarna il fantasma, con il volto pallido, la sua presenza fuggitiva. Mi rammento anche la sua manera di salvare Rochester, tratto che ha determinato la mia vita a prendere in amore quelli che mi sembravano infelici. Penso che questo romanzo ha avuto un’influenza sulla mia vita. E con qualche anno di distanza, penso che avevo trovato il mio Rochester nella sua presenza enigmatica.
    Si tratta dell’influenza strana di un romanzo, quasi impercettibile. Un’impronta magica dove nello specchio vedevo una sembianza con il fantasma di Jane. Il cuore impareva il linguaggio del XIX, distanto del XX secolo. Mi è rimasto un’inclinazione al romantismo ( nel senso letterario) in discrepenza con il mio secolo.
    La biografia nell’opera letteraria lascia una scia leggera, in metamorfosi.
    Non si abbandona la nostra vita, quando si scrive un libro, fa una carne magica, più luminosa o cupa della nostra personalità.
    Un po’ come il pesce mostro che accompagna il protagonista di Buzzati.
    E’ sempre nella nostra scia e aspetta.

    Grazie all’autore.

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franco buffoni
franco buffonihttp://www.francobuffoni.it/
Franco Buffoni ha pubblicato raccolte di poesia per Guanda, Mondadori e Donzelli. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). L’ultimo suo romanzo è Zamel (Marcos y Marcos 2009). Sito personale: www.francobuffoni.it
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