una questione di qualità

Diventa anche tu un autore!
Appunti su self-publishing e pseudoeditoria 1
Andrea Libero Carbone, Alessandro Raveggi, Vanni Santoni, Giorgio Vasta, per Generazione TQ.

Gli appunti che seguono vogliono essere rappresentativi di un modo di procedere al quale Generazione TQ intende quanto più possibile attenersi. Constatata la relazione che connette tra loro fenomeni anche all’apparenza diversi e irrelati, pensiamo sia indispensabile che una riflessione prenda sempre le mosse dalla consapevolezza di questa reciproca interdipendenza. Per questa ragione, nel riflettere su qualcosa come il self-publishing e, attraverso questo, su quelle che proponiamo di chiamare pseudoeditorie, non vogliamo limitare il nostro intervento al contesto letterario ed editoriale; il fenomeno in questione non si articola soltanto o soprattutto nel recinto più o meno ampio di un settore ma lo trascende proponendosi semmai al contempo come conseguenza e come premessa, vale a dire come effetto di un mutamento e come concausa di un’ulteriore metamorfosi. Sforzarsi di non perdere di vista le implicazioni e le conseguenze di ogni fenomeno in teoria circoscritto, pretendere di non ignorare l’idea di mondo che da ogni manifestazione discende, ci sembra dunque strutturale a ogni analisi che voglia considerarsi complessa.

Una premessa: la locuzione self-publishing di per sé è neutrale. Il self-publishing altro non è, o almeno dovrebbe essere, che autoproduzione, premessa di una diffusione dal basso e con i propri mezzi, in autonomia e indipendenza. Oggetto di questi nostri appunti invece è la dimensione etica, economica e culturale di quella che chiameremo “pseudoeditoria”. Per pseudoeditoria intendiamo quell’attività di self-publishing che maschera l’autoproduzione, offrendo servizi di stampa, promozione, distribuzione e a volte addirittura di community, a pagamento. La pseudoeditoria può essere divisa in due grandi filoni: la vanity press, dove all’autore viene richiesto un contributo per la pubblicazione, sotto forma di denaro o acquisto di copie, e il print on demand, dove vengono stampate solo le copie via via ordinate, ma l’autore paga per i servizi aggiuntivi, oltre che per le copie che vuole per sé. Lo stesso oggetto d’impresa delle entità pseudoeditoriali appare immediatamente contraddittorio: se il lavoro dell’editore consiste nell’acquisire dall’autore, contro il pagamento di un compenso, il diritto di trasformare la sua opera in un libro da vendere al lettore, il lavoro dello pseudoeditore consiste invece nell’offrire all’autore, contro il pagamento di un compenso, la possibilità di sottrarsi al criterio di scelta, nell’illusione di poter raggiungere direttamente il lettore. Poiché peraltro il costo dei servizi in questione è relativamente elevato, e in ogni caso supera il costo industriale della realizzazione del medesimo libro da parte di un editore, si innesca un meccanismo di selezione censuaria: non più (non mai) basata sul valore dell’opera, bensì sulla mera disponibilità finanziaria dell’autore-cliente. Se l’opera di selezione svolta dall’editore richiede una quantità di “no” pronunciati drasticamente superiore a quella dei “sì”, nel caso dello pseudoeditore siamo invece di fronte a un soggetto che, a pagamento, dice sempre di sì.
A partire da queste premesse, portiamo a esempio due casi diversi ma sintomatici di uno scenario culturale in complessivo mutamento, ovvero Albatros/IlFilo, una delle principali vanity press, e ilmiolibro.it, leader del print on demand in Italia.

Nel primo caso ci riferiamo a un episodio in particolare, ovvero all’incontro, disponibile su YouTube, organizzato nel maggio del 2010 all’interno del Salone del Libro di Torino, al quale partecipano Andrea Malabaila di Las Vegas Edizioni, Linda Rando di Writer’s Dream e Giorgia Grasso, direttrice editoriale di Albatros/IlFilo. Il tema discusso è per l’appunto quello dell’editoria a pagamento. Malabaila e Rando affrontano la questione criticamente, Grasso ne ribadisce il senso e la supposta necessità “democratica”. Via via che la conversazione va avanti ci si confronta con la declinazione di un paradosso. Rando interviene descrivendo una specie di scherzo-esperimento. Insieme ad altre persone ha costruito un brogliaccio composto di testi prelevati semicasualmente dalla rete, ha dato loro la forma di un manoscritto e l’ha spedito a Albatros/IlFilo. In risposta, nel giro di poco, ha ricevuto una proposta di contratto. Ovviamente a pagamento. Svelato lo scherzo ci si aspetterebbe da parte di Albatros/IlFilo l’ammissione di un errore di valutazione, o meglio il riconoscimento di una non valutazione e dunque dell’automatismo che conduce quell’editore a contrattualizzare ogni testo ricevuto. Invece Giorgia Grasso non si perde d’animo, ignora il livello di realtà che si è generato e risponde allo svelamento dello scherzo dicendo a Linda Rando che varrà la pena parlarne, di quel testo, perché potrebbe contenere del buono. Lo pseudoeditore arriva quindi a ipotizzare che il non testo che ha ricevuto (un assemblaggio di copia e incolla dalla rete, volutamente insensato) da un non autore dichiarato possa essere interessante e pubblicabile. All’apparenza ci sarebbero tutte le premesse per immaginare una migrazione di ognuno di questi elementi verso un piano virtuale e inoffensivo, verso il nonsense, ma le cose non stanno così. Dal momento che all’interno di questo nonsense si produce una transazione economica, fra l’altro cospicua, non possiamo permetterci di pensare che la situazione descritta sia il frutto di un immaginario ioneschiano: è tutto profondamente reale e il nonsense, piuttosto che arginare la transazione economica, ne determina le condizioni.

Il secondo caso emblematico è quello di ilmiolibro.it, un fenomeno simile nelle modalità, ma in realtà non assimilabile, a iniziative del passato recente, come lulu.com. I numeri di ilmiolibro.it, i termini della sua promozione, il fatto di essere un progetto del Gruppo Repubblica-L’Espresso, le partnership con Feltrinelli e Scuola Holden, ne fanno qualcosa che per la prima volta trascende i confini di un fenomeno di settore per configurarsi come parte di un mutamento culturale più ampio. In sostanza ilmiolibro.it “fa” comunità: lo fa innanzitutto attraverso una quantità numerica impressionante e un sito attrezzato alla bisogna, ma anche con una selezione accurata dei toni e dei modi attraverso cui “comunicarsi” – anche in senso eucaristico, oseremmo dire – al suo pubblico: “Se l’hai scritto, va stampato”; “ilmiolibro.it cambia le regole dell’esordio letterario in Italia”; “Se non credono che tu sia un vero scrittore, portali da Feltrinelli.”

Leggendo con attenzione la comunicazione di ilmiolibro.it, ci si rende conto che il gruppo Repubblica-L’Espresso, Feltrinelli e Scuola Holden puntano su una specie di strategica “deterritorializzazione” della loro iniziativa: ilmiolibro.it è un progetto “buono” e privo di luogo, incollocabile, che si limita a fare del bene, a soccorrere, dialogando direttamente con una tipologia di, chiamiamolo così, “autore-editore” rassicurandolo sulla sua identità: non sei più il povero diavolo costretto a pubblicarsi da solo, non devi considerarti tale: sei a tutti gli effetti uno scrittore, partecipi a un concorso tra tuoi pari e magari lo vinci e vieni pubblicato da Feltrinelli. Sei un parlamentare della “repubblica delle lettere”, e non importa che tu ti sia autoeletto tramite il versamento di un obolo. Insomma: una buona allucinazione di realtà – un’allucinazione sorridente e rassicurante – è preferibile alla realtà tout court, solitamente più frastagliata, complessa e delusoria.
ilmiolibro.it – ma anche, in modo diverso, gli editori di vanity press – sembrano dire: perché lavorare duro e migliorarsi per tentare di giungere a una pubblicazione che potrebbe non arrivare comunque, quando si può pagare per ottenere in modo certo qualcosa di molto simile, se non uguale?

È per questa ragione – perché le due cose non sono uguali, e nemmeno simili – che è necessario indurre il fenomeno medesimo a territorializzarsi, a riconoscere le sue contraddizioni. Ciò che infatti più preoccupa nella pratica pseudoeditoriale, è il suo travestimento, non solo da editoria, ma anche da agente di democratizzazione di pratiche editoriali, con quello che ne consegue. Nella pseudoeditoria, oltre alla destituzione delle agenzie di scelta e valutazione, si avverte la possibile creazione di una comunità narcisistica di uguali, tali solo per censo e potere economico, che accedono previo pagamento a un astratto ruolo autoriale. Nella comunità pseudoeditoriale ci si affida solo al rating, al consenso cieco da consumatore, o alle proprie disponibilità e capacità autopromozionali, tanto che sarà “necessario che l’autore si metta in gioco, che costruisca la sua platform online, che abbia un seguito sui blog e sui social network” . Un meccanismo che non solo getta discredito sulla già pericolante realtà dei lavoratori editoriali (editor, curatori, traduttori, direttori di collana, uffici stampa), ma provoca la creazione di una comunità informe e debole dal punto di vista dell’autocritica, non tanto appiattita dal punto di vista del gusto quanto impossibilitata a educare gli stessi partecipanti alle proprie capacità e ai primi limiti da superare.

La democratizzazione virtuale potrà sembrare liberatoria per quei lettori e scriventi che spesso rimangono indignati da un dilagare di letteratura mediocre e instant anche in quelli che una volta erano considerati “editori di livello”, oppure da tutti coloro che percepiscono, a volte a ragione, il meccanismo di selezione editoriale come oscuro o arbitrario. Ma non crediamo proprio, con l’avvento della pseudoeditoria di nuova generazione, di essere di fronte a un ’48 dell’editoria, che ne liberi le possibilità latenti e le pluralità spesso messe in difficoltà dallo stretto legame produzione-distribuzione: siamo piuttosto di fronte alla creazione di una comunità dell’assenso (acquistabile), che non prevede il dissenso, la scelta, il confronto, il “no” utile alla maturazione. Si risponde cioè a una possibile, e magari fruttuosa, critica delle pratiche di valutazione editoriale, sbaragliando il campo dialettico e puntando sulla carenza “affettiva” e di visibilità del consumatore, che diviene auto-produttore dei propri (virtuali) quindici minuti di celebrità a dispetto di coloro – gli editori tradizionali – che gli hanno detto “no”.
“Se l’hai scritto, va stampato” è il claim di ilmiolibro.it. Ovvero: se sei in grado di compiere un’azione elementare – compilare una serie di spazi con dei segni alfabetici – ciò che hai scritto può guadagnarsi una concretezza oggettiva simulando la forma-libro. In questo modo “anche tu” sarai autore (e “anche tu”, teniamolo presente, è il totem di questa comunicazione). Tale claim nasconde la precondizione essenziale – la disponibilità a una transazione economica, l’acquisto del sì – in filigrana: la trasforma in un sottinteso. Un non detto che è però imprescindibile. Il percorso che conduce chi ha scritto qualcosa a essere percepito come autore prevede, quasi come un dettaglio, che lo scrittore sia anche il proprio editore.

Lo scenario che si configura è quindi quello in cui la disponibilità economica produce le condizioni per il sì ed espelle automaticamente il no. Considerato che il no è qualcosa che può provenire da quelle agenzie di senso, fondate su studio e competenza, che sono gli editori tradizionali, quella che si va definendo è una loro progressiva dismissione. Nella pseudoeditoria, gli editori danno le loro dimissioni intellettuali, ma non si dimettono dai loro interessi economici: non svolgono più il ruolo di un servizio finalizzato allo sviluppo di una capacità pubblica, ma di un servizio d’accesso a una casta a pagamento. “Diventa anche tu un autore”, in una preoccupante rincorsa a una società di individui che agognano ruoli prestabiliti più che capacità riconosciute, etichette più che servizi, acquisizioni più che apprendistati.
E tanto più preoccupante è vedere come ilmiolibro.it stia facendo scuola: se il gruppo GEMS organizza già da due anni il concorso “Io Scrittore” , Roberto Cavallero, direttore generale libri Trade del gruppo Mondadori , la mette in questi termini: “Il self-publishing, l’autopubblicazione, è un elemento fondamentale, imprescindibile per gli editori. Un tempo pubblicarsi da solo un libro, pagando di tasca propria, era una cosa da poveretti, roba un po’ triste. Oggi è fondamentale. Ma non basta fare un sito con su scritto: ‘Autopubblicatevi!’. Bisogna costruire modi diversi di self-publishing e noi li stiamo studiando. Tra qualche mese vedrete delle sorprese… Nel prossimo futuro, un editore che non sarà coinvolto nel self-publishing non avrà autori […] Il punto è creare una comunità di lettori/scrittori che definisca un sistema di rating stabilendo ciò che vale. Ci sono case editrici come HarperCollins, Penguin e Random House che lo fanno. C’è Amazon, c’è Google+”.

Quali sono allora le alternative per chi ha il legittimo desiderio di pubblicare quel che ha scritto, e vuole farlo in modo autonomo e indipendente? Il sistema editoriale viene spesso percepito da chi ne è fuori e vorrebbe entrarci come una roccaforte inaccessibile, governata da meccanismi imperscrutabili e retta da cerchie chiuse. Generazione TQ propone innanzitutto una rivendicazione del lavoro editoriale come scelta intellettuale trasparente, invitando gli editori a pubblicare sui propri libri il nome di chi ha diretto la collana, di chi ha letto, scelto ed editato il libro, così da contribuire a sgomberare il campo editoriale da quei dubbi, e da quel mito di inaccessibilità, alla cui ombra prospera la pseudoeditoria.

Dall’altro lato, rivendichiamo la bontà della pratica reale di autoproduzione come modalità di accesso alla “vera” repubblica delle lettere: oggi esistono innumerevoli strumenti per un’onesta autopubblicazione, e ancor più ne esistono per far conoscere il proprio lavoro a un pubblico virtualmente illimitato: blog, social network, riviste underground, comunità di lettori, sono gratuiti e liberi banchi di prova, mentre i servizi della pseudoeditoria costano caro e sono generalmente erogati da una divisione specifica dei più grandi gruppi editoriali. Certo, nel mondo reale la visibilità non si può comprare: farsi conoscere e apprezzare è il frutto di un lavoro lungo e paziente di diffusione e scambio. Si legge quel che altri hanno scritto, si partecipa a una discussione comune, si impara, si cresce e si mettono a disposizione le proprie conoscenze, insomma ci si mette in gioco. Solo a queste condizioni anche l’autoproduzione in ambito editoriale può essere uno spazio di innovazione e di resistenza. L’alternativa al Diventa anche tu un Autore! è quella, magari meno accattivante ma di certo più vera del Prova anche tu a diventare un autore, lavorando e sfruttando i mezzi gratuiti a tua disposizione. Pubblicare un libro non è un diritto: lo è piuttosto avere interlocutori capaci di rappresentare un esempio, e un sistema di selezione che mostri le sue carte senza travestimenti.

Pubblicato sul Manifesto di oggi.

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NOTE
  1. Documento letto in occasione del Forum del libro di Matera.

33 Commenti

  1. La direttrice editoriale del Filo mi ricorda il teleimbonitore di (pseudo)arte contemporanea Andrea Diprè, protagonista pochi giorni fa di una memorabile e anche un po’ vergognosa puntata di Mi manda Raitre (http://www.youtube.com/watch?v=i4KANQFoXPQ), in cui Diprè viene informato di essere stato vittima di uno scherzo simile. Però secondo me va detto che operazioni come Il mio libro sono su un altro piano, lì nessuno ti illude di aver letto il tuo lavoro e di ritenerlo degno di essere pubblicato, la cosa schifosa in fondo è solo questa (come nel caso di Diprè, d’altra parte), no? In fondo anche gli aspiranti scrittori/artisti sono persone adulte (in genere).

  2. Veramente un bellissimo articolo. Da partecipante a TQ non posso che essere orgoglioso di come il “movimento” si stia dando da fare. Forse, un discorso più articolato e complesso, andrebbe fatto nei riguardi della saggistica che vede, i fondi di ricerca universitari, soprattutto nelle facoltà umanistiche, un vero e proprio bacino di finanziamento dell’editoria italiana. Credo che prima o poi bisognerà occuparsi anche di questo per delimitare, concretamente, i limiti che un saggista (universitario) combatte per pubblicare senza dover svuotare il portafoglio (suo, o dello stato/università). Grazie ad Andrea, Alessandro, Vanni e Giorgio; ed al Manifesto che ha pubblicato l’articolo.

  3. La necessità di ricorrere a una legge contro gli sconti (una forma di protezionismo) e il dilagare di questa penosa formula dell’autopubblicazione: sono due elementi di qualcosa di definitivo che sta accadendo all’oggetto “libro” (né buono né cattivo, sta accadendo e basta)? Forse il “libro” sta morendo molto lentamente?

  4. bene, alle argomentazioni de Il Filo e de Ilmiolibro ci mancava solo il trito luogo comune “anche Joyce pagò per pubblicare”, come se questo episodio da solo servisse a giustificare le loro attività (pseudo)editoriali. nel merito, mi è capitato spesso di esprimere perplessità o incomprensione verso ciò che TQ andasse facendo. Non perché quella generazione l’ho scavalcata, ma proprio per una mia difficoltà nel comprendere il senso delle cose. ma con altrettanta sincerità, oggi apprezzo moltissimo le proposte di TQ, in particolare quella di rendere pubblica ciò che si potrebbe definire “filiera della pubblicazione”. nomi, cognomi e ruoli di chi ha partecipato alla creazione di un libro e, magari, le fasi che hanno portato alla pubblicazione.
    si potrebbe osservare che questo non viene fatto in altri Paesi. è probabilmente vero, ma l’Italia potrebbe essere battistrada di una iniziativa intelligente.
    Credo che dagli altri Paesi abbiamo da imparare assai, per esempio su come gratificano economicamente e professionalmente i traduttori. Ma se per una cosa potessimo essere noi un modello, non sarebbe male. e, davvero, se ciò avvenisse su iniziativa dei TQ, potremmo anche vantarci di aver dato i natali a una organizzazione in grado di costruire qualcosa.

  5. “Il sistema editoriale viene spesso percepito da chi ne è fuori e vorrebbe entrarci come una roccaforte inaccessibile, governata da meccanismi imperscrutabili e retta da cerchie chiuse”.
    Vorrei soffermarmi in particolare su questo punto. La sensazione che si prova, dall’esterno, è esattamente questa: un mondo nel quale non è possibile entrare. Scrivo praticamente da sempre e ho provato, e tuttora provo, senza successo, al momento, a pubblicare. Non sono giovane, non sono già famosa, non ho conoscenze nel giro. Naturalmente tengo in considerazione che “se nessun editore ti pubblica può darsi che sia perché la tua opera è orribile” e mi rendo conto che non è possibile ad un autore valutare oggettivamente le proprie opere. Eppure… c’è qualcosa che non mi quadra. Leggo testi pubblicati e a volte recensiti con grande entusiasmo e li trovo francamente mediocri. Leggo, anche in rete, testi “scritti male”, e non intendo parlare di scelte linguistiche ben precise ma di scarsa qualità della scrittura. Leggo romanzi scialbi, dei quali non si capisce in base a quali criteri siano stati prescelti. “Non sarò peggio di questi”, mi dico. Ma dal mondo dell’editoria non arriva una parola, non capisci se quanto hai provato a proporre è “brutto”, “poco commerciale”, “inutile”, “insignificante”… Non capisci se quello che ti sembra, di avere cioè qualcosa da dire, di avere una lingua per dirlo, è una tua allucinazione, l’illusione di una persona sprovvista di talento, se qualcuno ha letto il tuo libro e ha cominciato immediatamente a fare le boccacce per il disgusto o a sbadigliare per la noia, o se nessuno ha letto, le decisioni sono già prese, gli aspiranti esordienti sono troppi e di conseguenza le chances del singolo, specie se sconosciuto, sono infinitesimali.

  6. Partirò dalla mia personale esperienza. Ho scritto un libro di saggistica e ho mandato un messaggio di posta elettronica a trenta tra le più importanti case editrici italiane, riportando l’indice e un breve sunto del contenuto del libro, e chiedendo se vi fosse da parte loro un qualche interesse per il testo.
    Ebbene, ho ricevuto soltanto due risposte, una negativa, l’altra positiva.
    la cosa che più sorprende e dovrebbe scandalizzare è la mancata risposta di ben ventotto case editrici, nessuna reazione.
    Io dirò la mia impressione, che è appunto quella che mi sarebbe stata preziosa una conoscenza di qualcuno introdotto negli ambienti che mi avrebbe almeno garantito l’attenzione di questi soggetti.

    Detto questo, vorrei fare una riflessione più di fondo.
    Il testo proposto sembra ignorare la natura del tutto culturale e quindi storica delle case editrici.
    Un tempo, esistevano le tipografie e non le case editrici, un tempo cioè in cui esisteva l’autopubblicazione (o dovremmo andare alla scrittura a mano prima dell’invenzione della stampa?)
    Anche il brandire la questione della selezione di classe appare un po’ ridicola: pubblicare poche copie rappresenta una spesa che chiunque può affrontare, ma magari pagarsi la raccomandazione presso un editore, quella sì che rappresenta una selezione per censo.
    Pubblicare un testo saltando il ruolo tradizionale della casa editrice sembra all’autore la violazione di chissà quale codice etico. Forse sarebbe il caso di ricordare che tra editore e scrittore si instaura un semplice contratto economico, e che il processo di scelta e di editing sono al servizio non dell’autore, ma dell’editore che dovrebbe salvaguardarsi attraverso un appropriato processo di selezione.
    L’autopubblicazione è un business come la normale pubblicazione, e io proprio non riesco a ritrovare alcuna dimensione etica nel sottoporsi alla selezione della casa editrice (che spesso poi neanche accetta il manoscritto…)

  7. Come il pony express col telegrafo, o il carro con l’automobile, inchiniamoci alla tecnica. Se lo scopo dello scrivere è quello di ottenere lo status di autore, eccoci serviti dal modo più facile. Non c’è nulla che si possa fare, il processo non è reversibile.
    Il problema è nella pretesa di uno status d’autore derivata da un a sua volta preteso status di qualità per la propria opera. Chi decide cosa è qualità? Esiste una tecnica neutrale in grado di fare questo? Esistono uomini in grado di discernere e fare una classificazione delle opere pubblicabili e non pubblicabili che vada oltre il riconoscimento di uno steccato oltre il quale non esiste la sufficienza per una pubblicazione?
    Chi fa la gavetta, ha necessariamente prodotto qualcosa di meglio di chi decide di rifiutarla?
    Vale di più l’insistenza, il presenzialismo, il lavoro ai fianchi, la conquista passo passo di una platea di persone che conoscono il nome, la nomea del qualcuno che ha fatto qualcosa? Siamo su termini morali, molti autori mediocri hanno guadagnato uno status e una pubblicazione solo in virtù della loro insistenza, della loro capacità/voglia di frequentare gli ambienti giusti, della loro ambizione/arrivismo, della loro capacità di inserirsi nei meccanismi dell’industria culturale e/o dei salotti culturali.
    Se parliamo di politica, ma anche di estetica, la morale non esiste.
    Molti degli autori che hanno avuto accesso alla “vera” repubblica delle lettere sono mediocri, spinti da altri mediocri che hanno avuto accesso alla “vera” repubblica delle lettere prima di loro, e così via…
    L’industria culturale ha già imposto una sua peculiare forma di automazione della produzione letteraria, che è quella deprecata da molti articoli in questo sito, gli instant book, i best seller…
    Ma il marketing ha teorizzato da una marea di tempo l’esistenza delle nicchie di mercato, dei target mirati, e molti autori che si presumono “di qualità” non fanno altro che essere autori da nicchia, da target mirato.
    Essendo sardo, penso per esempio ai casi letterari di alcuni autori sardi, che in vario modo hanno venduto la sardità, con risultati letterari sempre sufficienti (per definizione, la sufficienza è il minimo, d’altronde), ma praticamente mai eccellenti (nessun’opera manco lontanamente paragonabile a “Il giorno del giudizio” di Satta, per ora), e comunque indifferenti rispetto al carattere che ne marcava la pubblicabilità, che era appunto “+sardo”(un “+sardo” che si esprime attraverso la reiterazione di certi luoghi comuni sulla Sardegna e sulla sardità che ne rendono riconoscibile la marcatura, ma questo è discorso che meriterebbe un’analisi critica più puntuale).
    Lo stesso fenomeno è valso in generale per un generico “+territoriale” e “+noir”, in tempi recenti; così come in altri tempi è valso per altri caratteri.

    Il passo successivo è in linea con la nuova ristrutturazione capitalistica di cui siamo testimoni in questi anni definiti di “crisi”.
    L’automazione non basta più, la produzione di fenomeni letterari secondo uno studio di mercato che definisca i target e i caratteri marcati che deve avere un autore per divenire un fenomeno o almeno un buon investimento, l’ininfluenza dell’autore in sè e delle sue opere rispetto alla vendibilità, alla creazione della sua immagine mediante la pubblicità, soprattutto quella particolare branca della pubblicità che è la presentazione su giornali, pagine culturali, trasmissioni culturali o di approfondimento, magari talk show e telegiornali, ha ancora delle controindicazioni: l’autore, una volta raggiunto il suo status, acquisisce una capacità d’azione, una potenza legata al proprio brand (nome e cognome, o alias, come per i Wu Ming), che lo rende relativamente indipendente dalle politiche editoriali della singola casa editrice, dandogli la possibilità di contrattare la sua posizione sul mercato, una volta sciolti i contratti; l’autore ha ancora una soggettività esterna a quella della singola casa editrice, può muoversi all’interno del mercato editoriale, delle politiche editoriali contrastanti tra i grandi gruppi, può contare sul credito mediatico acquisito dalla sua figura, può guadagnarsi uno spazio visibile su internet.
    L’investimento pubblicitario e relazionale su un singolo autore, sebbene ormai non eccessivamente rischioso in termini di fallimenti di vendite, è rischioso in termini di saturazione del mercato: un autore non è usa e getta, il suo nome, una volta pompato dai media, fidelizza una vasta platea di consumatori del prodotto libro, quantomeno quelli del target prescelto.
    In più, c’è il rischio che il mondo magmatico di internet arrivi a selezionare figure autoriali e gerarchie, canoni della letteratura contemporanea (dello stesso istante, non degli ultimi cento anni) diversi da quelli proposti dalla mastodontica industria culturale tramite i media broadcast. Sebbene il rischio sia ancora remoto o sporadico per i fenomeni di vendita più vasti, inizia a essere incisivo, o potenzialmente incisivo, per i fenomeni più circoscritti a target ristretti, specialmente quelli che tendono a usare più il media internet rispetto ai media broadcast.
    I grandi gruppi editoriali non possono permettersi il rischio che un autore emerso dal nulla attraverso circuiti a loro sconosciuti possa diventare un fenomeno letterario fuori dal loro controllo e dai loro bilanci di vendite, semplicemente.
    In più, la pressione delle immense quantità di aspiranti autori (la mia generazione, che ancora ai trenta non è giunta, è gonfia, straborda di gente che vuol fare l’artista o il creativo in una qualunque maniera), per un meccanismo economico elementare, spinge verso zero le richieste salariali. Le case editrici devono scegliere tra una infinità di prodotti sufficienti (la differenza col passato è principalmente questa, la quantità di prodotti sufficienti è aumentata esponenzialmente, con l’aumentare esponenziale del livello scolastico e del consumo di cultura in generale), quindi potenzialmente pubblicabili; prodotti che tendenzialmente si equivalgono e risponderebbero in egual misura agli appettiti di un pubblico sempre più composto degli stessi autori che mandano questi prodotti…
    E’ ovvio e inevitabile, in un’ottica capitalista, che il futuro delle case editrici segua la strada del self-publishing, ancora più ovvio se si aggiunge un ulitmo particolare: la balcanizzazione del mercato, almeno nelle piccole tirature, dove all’aumento esponenziale degli autori corrisponde un aumento esponenziale del mercato costituito dalle loro relazioni più o meno prossime. Se pubblicassi un libro, se giungessi a una sufficienza editoriale, troverei una grande quantità di persone nel mio paese e in quelli limitrofi disposte a sostenere l’autore, il poeta, lo scrittore, il segno di prestigio culturale che queste parole darebbero alla piccola comunità in cui vivo.
    Il principio base del self publishing è questo: la produzione di un libro offre ampi margini di guadagno, se invece di spingere un autore a vendere 300000 copie ne spingo 3000 a vendere 100 copie ciascuno, il guadagno non diminuisce, anzi, l’autore stesso si occuperà con entusiasmo della propria pubblicità, lasciando libera e vuota quella voce di spesa, e perdipiù sarà disposto a pagare per pubblicare, o ad accettare contratti fortemente penalizzanti dal lato economico (non esistono solo le case editrici che si fan pagare per pubblicare), ecc. ecc.

    Conosco solo una soluzione, e si chiama DIY, che ugualmente non garantisce la qualità del prodotto o la ricezione garantita a un prodotto di qualità, ma quantomeno garantisce indipendenza ed estraneità dai meccanismi stritolanti dell’industria culturale. E consente anche, auspicabilmente, la generazione di circuiti in cui la figura dell’autore sia demistificata, in cui si prenda veramente atto del fatto che l’aura è scomparsa, l’autore come lo si intendeva un tempo finalmente morto, la repubblica delle lettere il rimasuglio di una vecchia egemonia aristocratico-borghese spazzata via da tempo immemorabile.

  8. Una riflessione sulle case editrici tradizionali. Ho l’impressione che l’utilizzo della mediazione di agenzie letterarie, che segnalano e promuovono i testi da prendere in considerazione, possa anch’essa ascriversi a criteri puramente economici. L’agente letterario non è infatti un critico o un altro scrittore che ha già alcuni contatti e sa a chi rivolgersi, ma è presumibilmente un uomo di una certa cultura (mediazione che sussiste ma è più legata al caso, alla conoscenza cioè di quello scrittore o di quel critico da parte di chi non è dell’ambiente). L’agente letterario è un possibile contatto con le case editrici che non dipende, che io sappia, da questioni di preparazione, formazione, pubblicazioni già fatte o altro, bensì anche qui da un fattore economico, da un obolo versato. Si ripropone quindi, anche se mascherata, la questione dell’accesso alla pubblicazione per via monetaria, dietro pagamento di pedaggio. E’ possibile quindi che pure le case editrici tradizionali (o alcune di esse; non conosco bene quale sia attualmente l’estensione del legame con le agenzie letterarie) siano “viziate” di self publishing, benché la cosa non appaia o non venga molto pubblicizzata e in ogni caso rimanga più contorta.
    Tuttavia è bello riuscire a intravedere un futuro di pubblicazioni democratiche, come si accenna nell’articolo, affidate a blog gratuiti, a riviste on-line o a siti personali messi in relazione da interessi comuni.

  9. Anch’io son dell’idea che a una critica, giusta, nei confronti dell’editoria a pagamento e di un certo self-publishing, vada affiancato un ripensamento dei meccanismi editoriali in senso più ampio. I blog e e i siti di letteratura potrebbero diventare un ottimo serbatoio se vi fossero più figure editoriali intente a considerarli come dei bacini da cui pescare potenziali scrittori, alleggerendo così l’immane mole di manoscritti che rimangono spesso senza lettori sugli scaffali delle case editrici…

  10. come sovente capita, quoto il Ghelli
    (ma un poco giá avviene: come ricordava altrove il patron di Transeuropa, il rischio é che l’avvento del self-publishing pilotato dai big – che nulla ha a che fare con la pratica nobilissima del DIY – il rischio è che si tolga ai piccoli editori il ruolo di cercatori e scout, in favore di una wasteland dove ci sono solo finte community di self-publisher paganti e nere torri, o meglio pile di libri, dei tentativi di best-seller effettuati dai medesimi big con le tecniche di lancio a spregio e saturazione che ben conosciamo).

  11. Potrà esserci anche un self-publishing pilotato dai medi e dai piccoli, non solo dai big. La stessa Transeuropa, che Sarmigezetusa cita, è anche un’agenzia letteraria.

  12. Ottimo articolo di cui condivido le conclusioni. Condivido anche molti degli input forniti dal post “un dado a venti facce”. Analogamente a quanto accade nei nostri sistemi politici, anche il sistema-cultura va incontro a un processo di accentramento. Aggiungo solo che se può apparire difficile (e lo è) combattere il sistema di banche e multinazionali, non è poi così impossibile combattere il potere culturale. Basta svuotarlo dall’interno cessando di assumerlo come interlocutore. Spegnere i loro interruttori, smettere di far squillare i loro telefoni, lasciare vuote le loro poste in arrivo. Sostituendolo con una rete collettiva. In una parola sabotarlo, invece di corteggiarlo.

  13. Sono perfettamente d’accordo sui contenuti di questo intervento

    Tempo fa pubblicai in rete un articolo proprio sulla Rando (da sempre in prima linea contro l’editoria a pagamento) la quale sul suo blog esibisce la pubblicità di “youcanprint”, ossia – è inutile nascondersi dietro un dito – di una casa editrice a pagamento.
    Tale articolo ha suscitato le ingiurie più variegate sia della Rando sia della Lipperini. Entrambe, anziché tentare di confutare le mie argomentazioni, si sono lanciate in accuse, completamente inventate, sul piano personale. L’articolo, che si intitola “Pecunia non olet”, e le reazioni possono essere letti in cache qui: http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:uMskQvjMRW8J:gaialodovica.wordpress.com/2011/08/19/pecunia-non-olet/+%22pecunia+non+olet%22+gumwriters&cd=20&hl=it&ct=clnk&gl=it

  14. Tanto il 90% di quello che viene pubblicato dai canali ufficiali e non resta ciarpame. Inutile che vi illudiate. Anche voi contribuite a produrre una quantita’ abnorme di vuoti a perdere.

  15. Nel mio campo (che è quello della saggistica storico-artistica) il fenomeno della vanity press sta diventando una piaga che inquina non solo la qualità della ricerca e delle pubblicazioni, ma a mo’ di sasso nello stagno, la serietà dei concorsi. Quasi tutti i maggiori editori (faccio un esempio: olschki!) chiedono un contributo all’autore per pubblicare saggi ricchi di immagini, e vi lascio facilmente immaginare i risultati. La cosa peggiore, in questo caso, è che non c’è alcuna forma di trasparenza, perché la nota “l’autore ha versato 10000 euro per questo volume” non compare da nessuna parte.

  16. Ho trovato questo articolo di TQ interessantissimo e ben argomentato, secondo me le critiche di non esaustività che stanno uscendo sono giuste, ma troppo severe: il dibattito su questo tema importantissimo e sottovalutato sta finalmente nascendo, e secondo me è un ottimo segno che anche TQ si senta coinvolta e ci rifletta pubblicamente per iscritto. In questo modo ha contribuito ad attirare l’attenzione su questo tema e stimolato il confronto e la riflessione. Io stessa per esempio ho aggiustato il tiro di un paio di mie considerazioni leggendo questo articolo. Così faranno i TQ e tutte le persone con un minimo di buonsenso che sono ben liete di imbattersi in una considerazione nuova che aggiunge qualcosa al dibattito, anche quando si trova in un articolo del quale non condividono tutto.

    Detto questo vorrei aggiungere a quanto detto finora che a mio parere le questioni principali qui sono due:

    1. LA REGOLAMENTAZIONE. L’attuale legislazione italiana in materia di editoria è allo stato attuale piuttosto vaga, e decisamente insufficiente se non tiene conto del diffondersi dell’editoria a pagamento e non distingue chiaramente editoria e print on demand. Servirebbe invece un approfondimento legislativo che definisca e regolamenti meglio da una parte l’editoria in quanto tale (impedendo per esempio di chiedere soldi agli autori anche solo con la formula subdola dell’impegno all’acquisto di copie) dall’altra che definisca e regolamenti il print on demand, in modo che sia obbligatorio per esempio informare chiaramente i fruitori/acquirenti che non si tratta di editoria, impedendo quindi il massiccio utilizzo di formule pubblicitarie al limite dell’ingannevole (il sito Youcanprint per esempio promette agli aspiranti scrittori di farli finalmente “entrare nel mondo dell’editoria”).

    2. LA COSCIENZA A MONTE – Perché tante persone si fanno imbrogliare da questi slogan faziosi? Perché il sogno di diventare e di essere riconosciuti scrittori fa perdere di vista non solo la lucidità nell’analizzare le possibilità di pubblicazione ma anche il fatto, fondamentale, che la scrittura dovrebbe essere un fine e non un mezzo? Io credo che la programmazione massiccia di talent show televisivi abbia una grossa responsabilità in questo senso. Il bacino dell’autoproduzione dovrebbe essere una fonte viva di autori ostinati nel loro desiderio di continuare a scrivere, confrontarsi, migliorare, e quindi in un certo senso una factory spontanea di qualità. Invece al momento sembra che il cliente medio del self publishing e del print on demand sia un autore sciatto e svogliato che invece di fare la fatica di lavorare sodo al testo, acquistare da sé il codice ISBN, inventarsi un espediente pubblicitario a costo zero per provare ad attirare l’attenzione dei lettori, preferisce al contrario delegare tutto questo a una società di servizi a pagamento. Questa non mi sembra voglia di scrivere, essere letti, scrivere meglio, ma bisogno facilone di emergere, di sfondare il muro dell’anonimato, che è una cosa molto triste.

    Ho cercato di approfondire la questione in un articolo pubblicato su Scrittori in Causa prima e su Scrittori Precari poi. Su Scrittori in Causa in particolare (per chi è interessato) tra i commenti è intervenuto più volte Alessandro De Giorfi, amministratore di Youcanprint, difendendo la causa del print on demand. Anche le argomentazioni di questo signore (nonché il vergognoso spot in favore del quale abusa del sacrosanto diritto di replica) sono estremamente istruttive sul modo di operare di queste società:

    http://scrittorincausa.splinder.com/post/25522638/il-print-on-demand-non-e-editoria

    Grazie per l’attenzione
    Carolina Cutolo

  17. Chi vuole pubblicare da solo (on demand oppure con vanity press) ha tutto il diritto di farlo. E ha anche il diritto di distribuirsi e farsi le recensioni.

  18. Davvero non riesco a capire le argomentazioni della Cutolo.
    Le potrei umilmente chiedere di spiegarmi perchè inventarsi un espediente pubblicitario per attirare su di sè l’attenzione sia così differente dal pubblicare contribuendo alle spese.
    Mi chiedo dove stia il problema, formuliamolo e poi cerchiamo una soluzione invece di riproporre delle motivazioni di ordine etico che in verità appaiono del tutto insostenibili, in quanto l’editoria è business in tutte le sue forme, fatevene finalmente una ragione!

    A me pare che se un problema esiste, stia nell’eccessivo moltiplicarsi delle pubblicazioni, troppi libri stampati.
    Il problema sta allora nel “print on demand”? Non mi pare, esisteva già da prima un eccesso di pubblicazioni. Il problema appare molto pià complesso e mi pare che qualcuno lo facesse già notare.
    Personalmente, non vedo soluzioni che non vadano oltre il ristretto campo dell’editoria, che investino cioè la società nel suo complesso, ma ascolterei volentieri ipotesi a questo proposito: finiamola però con le divisioni manichee del tutto improbabili tra un’editoria tradizionale virtuosa e un’editoria on demand viziosa e deprecabile, di virtuoso in verità non vedo alcunchè.

  19. Vincenzo:
    non ho mai detto che l’una sia virtuosa e l’altra viziosa (forse non hai letto con attenzione), ma che semmai sono viziosi i meccanismi di marketing che fanno passare una cosa per l’altra, perché evidentemente moltissimi aspiranti scrittori incappano nella trappola credendo alla promessa che gli fa intendere che “finalmente entreranno nel mondo dell’editoria”.
    Questo stato di cose anziché informare sulle conseguenze reali dovute allo scegliere l’una o l’altra forma di pubblicazione, porta all’avallo delle aspirazioni (per me tristi) a “sfondare” nell’editoria e al delegare l’autoproduzione ad aziende di servizi a pagamento, piuttosto che seguire un percorso naturale di crescita narrativa, assunzione di responsabilità e autofinanziamento, che è una cosa ben diversa da pagare 250 euro per l’ufficio stampa di Youcanprint.
    Per questo parlo di distinzione formale tra le due cose e di regolamentazione del modus operandi di ciascun ambito in modo che si sia obbligati alla trasparenza.
    Con ingiustificato sarcasmo dici “Le potrei umilmente chiedere di spiegarmi perchè inventarsi un espediente pubblicitario per attirare su di sè l’attenzione sia così differente dal pubblicare contribuendo alle spese”: non capisco, per quanto mi sforzi, il motivi per cui invece a te sembrano due cose simili: in un caso (e l’ho pure scritto) si agisce A COSTO ZERO cercando di farsi conoscere dai lettori (e si parla di autopromozione), nel secondo caso l’autore PAGA di tasca propria. Se la pubblicità che circonda queste operazioni lascia intendere che si tratti di editoria, è ingannevole (e si parla di pubblicazione). Sono due cose completamente diverse. Ma pagare un agenzia che fornisce servizi editoriali, sia chiaro, è assolutamente legittimo il problema sorge appunto quando il marketing (in assenza di argini legislativi) sfrutta l’ignoranza del consumatore.
    Non ho mai detto che l’editoria tradizionale e degna del titolo di editoria è IL BENE, lavorando da due anni a Scrittori in Causa e avendo a che fare con autori gabbati anche da editori incredibilmente noti, conosco bene le scorrettezze tipiche di moltissimi editori (rifiuto di trattare sul contratto, mancate promesse di promozione, ritardi vergognosi nei pagamenti, frode sui rendiconti, ecc). Qui però il tema è il print on demand, e secondo me uno dei problemi principali è che non esiste una legislazione che definisca le differenze tra editoria e print on demand che tuteli rispettivamente gli autori e i consumatori, non per dire che l’una e giusta e l’altra sbagliata, ma che sono DUE COSE DIVERSE, e finché questo non sarà chiaro moltissimi autori ingenui continueranno a cascare nelle trappole costruite ad arte da slogan ingannevoli. Su Scrittori in Causa riceviamo continuamente email di persone scontente dei servizi per cui hanno pagato, e che solo dopo aver stampato il proprio libro si sono rese conto di essersi fidate troppo e di aver caricato tutta la faccenda di proiezioni ingiustificate.
    In sostanza, nessuno nega che l’editoria sia un business, che lo sia l’editore che chiede soldi agli autori o che lo sia il print on demand (mi sembra ovvio), il punto è che senza regole il mercato approfitta di ogni spiraglio per fare profitto, quindi auspico una regolamentazione che riconosca e definisca i rispettivi ruoli e indichi i limiti entro i quali questo tipo di imprenditoria deve agire nel rispetto degli autori e dei consumatori.

  20. Carolina,
    certamente che il print on demand è diverso dall’editoria tradizionale. Forse si potrebbe riflettere come esista almeno un punto di vista secondo cui non è possibile assimilare totalmente due differenti casi di pubblicazione nell’editoria tradizionale.
    Quindi, il grimaldello retorico che utilizzi, sta nel presupporre che si tratti di due cose differenti, mentre io seguito ad assimilarle.
    E’ evidente che se il punto di partenza è che le due cose appartengano a due universi completamente differenti, la conclusione sarà coerente a tale presupposto.
    Io, al contrario, continuo ad assimilarle. Ci sta in entrambe uno scrittore, una sua opera, una struttura commerciale atta a realizzare il libro, e tra i due attori vi è una transazione commerciale.
    Fin qui, non scorgo differenze significative. Le differenze stanno nel prima (il percorso che permette all’autore di ottenere il prodotto libro), ma dei due percorsi non saprei quale giudicare preferibile (esprimo il giudizio più sprezzante sul mondo dell’editoria).
    In quanto alla fase finale, anche pubblicando seguendo un percorso tradizionale, la distribuzione che è il punto critico del processo complessivo non è certo assicurata dall’editoria tradizionale se si ha la sventura di pubblicare mediante una piccola casa editrice.
    Sarò riuscito a spiegarmi meglio?

  21. vincenzo:
    temo di no, se non vedi la differenza tra pagare per pubblicare mantenendo i diritti di un testo e essere pagati per la cessione dei diritti di un testo puoi spiegarti quanto vuoi, ma ometti un elemento che non si può proprio ignorare nel paragonale le due forme di pubblicazione in questione.

  22. Carolina, naturalmente ognuno ha diritto ad avere la propria opinione.
    Onestà vorrebbe che nessuno si arrogasse il diritto di dire dell’altro che non capisce solo se la pensa diversamente.
    Non scherziamo, so bene la differenza tra chi paga per pubblicare e chi non paga, solo che non mi pare questo il punto di discrimine.
    Potrei dire che quando si pubblica tradizionalmente, non è che si ricevano i diritti, ma che si paga tutto eccetto che i diritti. Infatti, è l’autore che anche in questo caso paga alienando una parte dei suoi possibili guadagni: messo così, forse le differenze cominciano a sfumare, no?

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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