Il fondo del bicchiere

di Marco Candida

Quella notte tornammo a casa dal Cowboy Landscape di Voghera con almeno sei o sette litri di birra in due – e questo significa che almeno tre quarti di quei litri riempivano la mia, di pancia. Laurina è quella della coppia che ci dà un occhio a queste cose, ci sta attenta, e difatti la sua pancia è piatta come la tavola da stiro che sempre più saltuariamente usa per le mie camicie e i pantaloni mollando a me il malloppo (“Toh, adesso ho dell’altro”). Tuttavia anche lei negli ultimi periodi – col divaricarsi dello spread, e col cambio di governo, e quei listini che si vedono alla televisione un giorno sì e l’altro anche due volte sì, che ti rimbecilliscono col loro saliscendi masturbatorio, alle nove del mattino segnando meno, poi riprendendosi, poi arrivando al pomeriggio a un’impennata e l’Italia sembra forte, pensi ai marmi delle statue, ai mattoni delle chiese, alle pietre che pavimentano le strade, e tutto sembra duro, forte, inaffondabile, fino a quando si arriva alla chiusura e tutto quanto si smorza e si attenua, “brusca virata”, la solita grigia esistenza – sì, anche Laurina ultimamente ha bisogno di qualche camelia sinensis in più per trovare sonno e mi dice che presto se va avanti così avrà bisogno di qualcosa di anche più forte di quello, e quando usciamo al venerdì e al sabato sera ordina sempre più spesso birre, spritz, bevande alcoliche, anche se come ho detto ci dà ancora un occhio, non vuole diventare la nave che sto diventando io più o meno all’altezza della cintola dei pantaloni, ci sta attenta.
Però è innegabile che quella sera (28 novembre 2011) entrambi tornammo a casa da Voghera molto più che alticci. La serata era sui cinque o sei gradi sopra lo zero. Fredda. Senza stelle. Macchiata di nebbia biancastra e giallastra qua e là. Ma non delle peggiori. Non era ventosa. Nonostante la nebbia non percepivamo troppo umidità. Naturale che a guidare furono i nostri amici dato che saremo anche col batticuore per lo spread e la situazione finanziaria (Laurina aveva sentito in tivù Enrico Letta affermare che il mutuo delle case sarebbe diventato quattro volte tanto dopo le manovre del nuovo governo – democraticamente non eletto, come mi divertivo a ironizzare almeno all’inizio della vicenda, perché adesso c’è solo alcol e pancia gonfia e sempre meno pensieri e sempre più testa vuota), ma ancora non siamo così fatti da guidare in stato di ubriachezza. No. Non ancora.
Danny e la Sabrina avevano guidato senza problemi anche perché si sentivano in colpa per averci portato al Cowboy Landscape, una specie di saloon all’americana con cowboys e cowgirls di Castellazzo Bormida, Pozzolo Formigaro, Fresonara e Polverola. Si balla musica country e blue grass. C’è una struttura per fare rodei e qualche stalla con cavalli dal muso triste, e dall’aspetto piuttosto malnutrito, balle di fieno nei campi e una volta ogni tanto vengono organizzate corse coi cani. Non che sia un locale malvagio. E’ persin bello, com’è agghindato e tutto. Sembra proprio di essere nel West. Però non è esattamente il nostro genere. Metterci gli stivaletti. Calcarci in testa un cappello da cowboy. Laurina e io ci sentiamo ridicoli dopo mezz’ora. Anche quando andiamo da MacDonald’s o Burger King circondati da plastica e metallo ci succede e credo che in una decina d’anni da quando ci conosciamo non saremo mai andati a un Bowling assieme. Tra l’altro il Canadian Burger che ha ordinato Laurina le è rimasto sullo stomaco, e ha cominciato a lamentarsi.
La cosa fondamentale da tenere a mente nella nostra storia è in ogni caso che siamo ubriachi, ma anche che non siamo stupidi. Per dire, non abbastanza stupidi da guidare in stato d’ubriachezza e dunque (dato che l’una cosa contiene probabilmente l’altra) abbastanza intelligenti da accorgerci all’istante che la porta del nostro appartamento è aperta e che sia io che Laurina eravamo sicuri d’averla chiusa. Dunque che cosa ci faceva aperta?
“Oddio, non dirmi che ci sono i ladri!” mi dice Laurina.
Io dondolo stile cretidiota sentendomi un acquario pieno di birra. Anzi devo persino stringere le chiappe perché ho paura che qualche pesce rosso mi possa scendere dal buco del sedere. “Be’, mi pare l’avessimo chiusa”
“E ti pare sì, perché l’ho chiusa…”
Io spingo l’uscio e la porta si spalanca.
Un buio denso, impressionante sta lì davanti a noi.
“Aspetta aspetta aspetta!”
“Che c’è?”
“Ma non l’hai visto il furgone parcheggiato qui fuori davanti al palazzo?”
Abitiamo in zona Oasi in un complesso residenziale con palazzi di una decina di piani. E’ stato un affare, abbiamo acquistato l’appartamento novantamila euro, e sono cento metri quadrati di casa. Con i nostri stipendi d’impiegati, ce lo possiamo permettere. Il nostro appartamento è situato al quinto piano Scala B.
“No, non ci ho fatto caso…”
“Be’, io l’ho visto e…”
Laurina e io sentimmo un fischio sul pavimento e poi uno schianto. Proprio come qualcuno che muovendosi nell’oscurità sta facendo strisciare il nostro mobile in sala e il mobile cade.
“Non dirmi che sta succedendo anche a noi…”
“Che.. co…”
“Una rapina, creti. I ladri! E’ un mese che svaligiano, qui a Tortona.”
Laurina ha ragione. Ora ricordo anch’io. Ho letto tutto quanto su Panorama di Tortona. Negli ultimi due mesi ci sono stati qualcosa come quindici appartamenti svaligiati. Un paio anche a un isolato da Zona Oasi. Nelle vicinanze. Poi a San Bernardino. Poi in Zona Paghisano. Dal cimitero.
“Che… ca… eff… ass…”
E prima che potessimo fare dietro-front e filarcela da dove eravamo venuti ossia ritornare nell’ascensore e schiacciare il tasto T, sentiamo una voce nell’oscurità.
“State un po’ fermi, veh, che sennò vi sparo.”
“Chi… che… ca…” dico io.
Una luce si accende. Un uomo all’interno.
Una calzamaglia. Un passamontagna.
Una pistola in mano.
“Merda…” sibilo io.
“Fermi lì! Anzi, entrate un po’, veh, entrate e non fate furbate!”
Laurina e io entriamo.
Sbuca subito fuori qualcun altro e incredibilmente questo qualcun altro non indossa passamontagna.
“Ma sei scemo?! Giri per la casa a faccia scoperta?” fa l’altro.
Laurina e io non possiamo crederci.
Conosciamo quell’uomo.
E’ l’impiegato giù in centro città allo sportello della nostra banca del vino e del formaggio, come ormai la chiamo io dopo che da banca con le palle si è trasformata dall’oggi al domani in una banchina col tutù rosa che fa piroette in punta di piedi e soprattutto salti mortali – e quelli li fa fare anche a noialtri clienti.
“Frangini!” gridiamo Laurina e io.
“Oh cazzo, no! Che fig…”.
L’impiegato Frangini diventa rosso.
Fa per coprirsi la faccia.
Io lo riconosco subito, e bene, perché vado spesso in banca, specialmente negli ultimi periodi di crisi. Ci siamo fatti un bel po’ di chiacchierate Frangini e io, con lui sempre a rassicurarmi, a raccontarmi un mucchio di frottole.
“Oh no…” dice ancora.
“S’è ca fuma? S’è ca fuma ades?” dice l’altro.
“Sparal! Sparal tuti e du! Se ca ta vo fa?” dice Frangini in dialetto.
“Ma sei scemo? Ci danno l’ergastolo! La sedia elettrica!”
“Sparal a t’ho dit!”
“Ta tel fat un’atra vota! Ta vé in gir senza maschera! Non è la prima volta! E’ la seconda! La seconda, zio cane! Non ti ricordi cosa è successo a quell’altro da cui ti sei fatto vedere? Non te lo ricordi?”
“Sparal!
“Ta ghe propri ‘na testa quadra…” fa l’altro.
“Frangini, non spari. Non diremo niente a nessuno!” dice Laurina.
“Frangini, ma che succede? Perché lo fa?”
Frangini ci guarda. Ha i capelli color della stoppia, ma nella mia allucinazione alcolica mi sembra un piatto di spaghetti al burro. La pelle abbronzata. Non è un brutto uomo. Sicuramente migliore di me, con i miei cinque o sei litri di birra nella pancia. “E’ la banca che ci ha detto di rapinarvi” dice.
“Che cosa?!”
“Eh, storia lunga. Lasciamo stare”
“La banca? Ma cosa s’inventa, cosa?”
“Ma se va dig paregia va dig paregia! Sono le banche! Perché fussa par mi mica lo farei! Sono le banche, è tutto un complotto. Ci costringono a svaligiare i clienti. Poi vendiamo tutto quello che possiamo vendere e col ricavato apriamo conti correnti fittizi e facciamo operazioni di borsa. Abbiamo una trentina di clienti virtuali noi alla Credito&Credito&MaiDebito. C’è il nome, il conto corrente, c’è il certificato di nascita, la residenza… Ma è tutto un giro enorme, una truffa troppo lunga da raccontare, che coinvolge mazzi di persone, un letamaio.”
“Ma ne racconti un’altra, ne racconti! Si aspetta che le crediamo?”
“In effetti, mi m’in sbat ar bal! Credeteci o no, io non avrei bisogno di svaligiare un bel nessuno col furgone della ditta Restauro Mobili.”
Certo, l’avevo vista posteggiata sul ciglio della strada da basso. Restauro Mobili Ferlinghetti. Un furgone blu con le scritte gialle sui portelloni. Un Ducati orrendo. Quei mascalzoni lo usavano per non essere scoperti mentre portavano via il mobilio…
“Roba da matti.”
“Dai, andiamo!”
“Sparal! Sparal!”
“Ma no, dai. Anche se sanno chi se ne importa? – dice l’altro da dietro il passamontagna nero, con due buchi raccapriccianti per occhi – Non appena parlano li fanno fuori.”
Frangini guarda il suo compare.
Poi guarda noi.
“Questo è vero. Sì, questo è verissimo. Altrimenti mica lo farei.”
“Cosa vuoi dire, Frangini?”
“Semplice, cosa voglio dire. Noi siamo copertissimi, Se succede qualcosa, se parlate, se dite che sono stato qui, che siamo stati qui, siete morti. Provate a chiamare i carabinieri, provate a farlo. Vedete cosa succede. Eh eh, mica tanto da scherzare. Il giro è grosso, ve lo ripeto. Molto grosso. Se salta fuori che un impiegato di banca ha fatto una cosa simile, qualcuno potrebbe insospettirsi. E siete fritti. Fossi in voi non andrei a raccontare in giro questa storia a nessuno. Nemmeno per scherzo! Nemmeno facendo finta che sia finta… Perché l’è propri vera, l’è.”
“Non ci posso credere – dico io – Non ci posso credere! Cioè adesso sono le banche che fanno le rapine a mano armata…”
“Questi sono i tempi. Dunque, acqua in bocca. Non una parola. Altrimenti…” e Frangetti fa un rumore con la bocca e si passa orizzontalmente il pollice sulla gola.
Poi mollano lì il nostro mobile e se ne vanno. Li sentiamo entrare nell’ascensore. Sentiamo l’ascensore scendere cigolando e sferragliando come al solito. Poi le porte aprirsi e chiudersi. Quelle dell’ascensore. Il portone del palazzo. Possiamo sentire tutto. Come se avessimo, Laurina e io, un superudito che ci è spuntato per l’occasione. E’ la strizza ad averci alzato le capacità sensoriali.
Cinque minuti in tutto.
Un’allucinazione.
La prima cosa che mi viene da dire quando siamo soli è: “Vado a vedere se ci hanno lasciato il computer e internet e cerco di fare il primo biglietto per il posto più lontano da qui. I soldi in banca li abbiamo ancora, dopotutto, no? Quelli, quei bastardi, non hanno potuto toccarli.”
Laurina scoppia in lacrime, segue una discussione. Laurina mi dice che è da pazzi credere a quello che ci hanno raccontato. Lacrime blu le rigano il visino. E’alta un metro e cinquantasette. Ha gli occhi piccolini. I capelli tutti sistemati all’indietro, le scoprono una fronte bianchissima, liscia. La bocca carnosa è tutta piegata all’ingiù, sembra che stia masticando le parole che pronuncia. Le dico che non lo hanno fatto adesso, ma lo faranno più tardi. Ci ammazzeranno. Questo è sicuro.
“E’ la birra. E’ colpa di tutta quella birra! Stiamo sragionando!” frigna lei.
“Li abbiamo visti. Li abbiamo visti in faccia, Laurina. Non possiamo stare un minuto di più.”
Nel frattempo, senza nemmeno troppo voglia di farlo, controlliamo la casa. Hanno portato via tutti i vestiti. Spariti i soprammobili. Il tavolo della cucina. Tre o quattro mobiletti. Tutto stoccato nel furgone, sempre che non ne usino anche altri. Il nostro appartamento è quasi vuoto, come se non avessimo pagato conti da un pezzo, come se ci avessero fatto un pignoramento. Un danno di quindicimila, ventimila euro, probabilmente.
Laurina e io alla fine troviamo un accordo.
Il computer è ancora a suo posto. Io mi ci siedo e…
E ce la filiamo.
E’ così che ci siamo trasferiti qui a Puerto Rico. Dall’oggi al domani. Abbiamo fatto le valigie con quei quattro stracci rimasti, preso i nostri passaporti (li abbiamo fatti per il viaggio di nozze; siamo andati a Bali e in Marocco), siamo partiti e ora siamo qui. A Puerto Rico. Restando sempre zitti. Tanto chi ci crederebbe? Probabilmente ci prenderebbero soltanto per due suonati che una sera che hanno alzato troppo il gomito hanno avuto una specie di allucinazione dovuta allo shock di non essersi trovati quasi più nulla in casa. Sì. E’ così che andrebbero le cose. Ci rinchiuderebbero in qualche ospedale psichiatrico in quattro e quattr’otto e poi ci farebbero sparire per sempre. A causa del complotto. Il maledetto complotto che ci ha raccontato Frangini. Invece staremo qui fino a quando la polizia non scoprirà che non abbiamo il visto e fintanto che i soldi non mancheranno. Dopo non lo so.
Brutta situazione, vero?

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4 Commenti

  1. Ti ringrazio. Se stiamo andando verso un’era di Nuova Depressione, non occorre certo essere Nostradamus per prevedere un fiorire di storie simili a quella che ho scritto io. Ci sarà una nuova ondata di racconti sui fuorilegge – riedizioni di storie come I giorni di Dillinger di John Toland o Gangster Story di Arthur Penn. Mario Vargas Llosa ha commentato la situazione di attuale crisi economica affermando: “La crisi economica avrà almeno un effetto positivo, quello sulla letteratura”. E’ probabile che vedremo prossimamente il rinascere di autori che si approprieranno dei ruoli che furono di John Steinbeck negli Anni 30 o Tom Wolfe negli Anni 80 – come per esempio Adam Haslett col suo Union Atlantic.

  2. Ti ringrazio, Monica. Stavo chattando con Laura Di Corcia, quando mi è venuta l’idea per questo racconto. L’ho scritto in un quarto d’ora, l’ho subito inviato a Laura chiedendole “Ti piace?” e dopo cinque minuti lei se ne è dichiarata contenta. Allora l’ho inserito nel sito che curo da qualche anno e che si chiama Websitehorror (http://www.websitehorror.com) col mio pseudonimo in corrispondenza dell’oggetto “porta saloon” e mi è venuto in mente di inviarlo anche a Gianni Biondillo. Il tutto nel giro grosso modo di un altro quarto d’ora. Pensandoci adesso mi sembra un buon baratto un quarto d’ora per sempre. Ringrazio Gianni Biondillo e Laura Di Corcia e ringrazio ancora Giovanni Agnoloni per aver segnalato questo testo sul suo profilo Facebook.

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gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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