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nengue…

di Orsola Puecher


 
Tutto per lui era così piccolo, così vicino, così bagnato;
avrebbe voluto mettere la terra accanto a una stufa
.”
Georg Büchner LENZ 1835
ed. Adelphi trad G. Dolfini

 
 

François Couperin “Deuxième Leçon de Ténèbre”


Estrapolata da uno dei molti telegiornali del blizzard, l’apparizione, per uno strano caso sobriamente commentata, fra le nevi dei Monti Sibillini, l’epifania di questo signore molto anziano, diritto, elegante come un alpinista degli anni ’20, astratto, ironico e per nulla spaventato, che riprende orgoglioso il suo pellegrinaggio verso la meta del paesino di Corbara, dove ci tiene a precisare non c’è nessuno ad aspettarlo, è testimonianza di un perduto senso della vita, della misura del sopravvivere con pochi mezzi e pochi drammi che ha caratterizzato intere generazioni nella lotta contro gli elementi naturali e le avversità.
Ha ragione Anna, dall’Aquila, che, assistendo al decadere di ciò che ancora per miracolo stava in piedi della sua città, in certi nostri bollettini della neve, alla mia mail:

From: Orsola Puecher
To: anna tellini
Sent: Saturday, February 11, 2012 7:40 AM
Subject: sibillino
 
anna un’altra metrata di neve per l’inverno del nostro scontento
ho estrapolato da un tg questo personaggio incredibile che ne è il protagonista assoluto
mi piacerebbe riuscire a scriverne

risponde

Re: sibillino
DA: anna tellini
A: Orsola Puecher
Messaggio contrassegnato
Sabato 11 Febbraio 2012 9:16
 
L’aristocratica eccentricità vestimentaria, nonchè l’irenica serenità del tratto, me lo porrebbero come vessillo del distacco, della voluttà di perdersi: in breve, un “Into the wild” in salsa sibillina…

E allora lo metto qui con antica funzione apotropaica, che stasera spaventi un po’ e allontani la tormenta che ci assedia come non mai, levigando ogni cosa in creste di neve a dune di deserto, e che ci fa sentire al centro di un grande ghiacciaio di nevi perenni. Che ci rassicuri, in questa che sarà davvero un lunga notte bianca, che non è niente di trascendentale questa neve, come vuole farci credere ogni inviato che si rispetti di tutte le televisioni del regno della retorica giornalistica che ha i suoi innevati da raccontare e va per i paesini sepolti a caccia di casi umani e immancabilmente il suo sarà un viaggio nel nulla, o nella morsa del gelo. Se manca la luce per qualche black out, non si trattiene dallo sventolarci che siamo al grado zero della civiltà e altre amenità. L’intervistato di solito dignitosamente dice poche parole, offre malvolentieri all’invadenza della telecamere interni modesti, con stufe a bombola. Dove si sta accampati con gli anziani, imbacuccati. Panni appesi ai raggi del tubo della stufa economica a legna. Piastrelle di cucine modeste, non di design. Abbigliamento non tecnico e sovrapposizioni di scialli e scialletti e berretti. Ma lui insiste ma come avete fatto a stare senza luce e riscaldamento? E se, dignitoso, il padre di una bimba di dieci giorni gli risponde che si sono chiusi in cucina e hanno acceso tutti i fornelli della stufa a gas e si son stretti l’un all’altro ad aspettare, pare non accontentarsi e riprende la caccia al dramma da esibire e violare.
Nessun grado zero di civiltà. Fino a non molti anni fa si viveva così, come in questi giorni la neve ci sta facendo ricordare.

Lo so che è ridicolo. Ho il negozio sotto casa. Ma quando arriva il tempo, devo accumulare lo stesso. Salame, vino, legna. La paura che l’inverno porti miseria mi abita dentro. Ne ho passati troppi a tribolare: guerra, lager, fame nera, amici portati via dal gelo. Se faccio provvista affronto al meglio la stagione del riposo, della lettura, del raccoglimento. Anni fa la neve mi isolò per giorni, rimasi senza luce e telefono. Fu magnifico. Ero felice, tranquillo, non c’era tv. I fiocchi cadevano senza rumore. Avevo legna, farina bianca, lardo, formaggio, e una storia da scrivere. La finii al lume a petrolio. Era la Storia di Tonle. La neve, l’istinto del lupo, la voglia di perdersi nei boschi di casa, sull’Altopiano di Asiago, mettere ancora gli sci di fondo , lasciare che il fiato ti geli la barba. II tempo, anche, del narrare.
 
Mario Rigoni Stern
intervista di Paolo Rumiz
La Repubblica
24/9/2006 Corvara [Bolzano]

 

11 44
33 2-2

 

John Cage A Valentine Out of Season


 

Nengue… nevica…. dicono qui nel dolce dialetto centro italico: traccia del latino ningere/ninguere [nevicare] che restava nell’antico accusativo di nix, ninguem poi diventato nivem, perdendo con quell’enne questo suo sonoro, ninnnante, scorrere ininterrotto di fiocchi. Fa la neve… si dice. Ma chi la faccia tutta questa neve quest’anno è davvero un mistero. Da una settimana, da quando sono nati i tre gattini bianchi come nengue della gatta Mizzi, non fa altro che nevicare. Ci si muove, ci si ferma. I pettirossi si posano vicinissimi a caccia di briciole e bacche d’alloro. La volpe si avvicina alle case, di notte. Si mettono le catene, si tolgono le catene. Si è a volta a volta bloccati, come si chiudessero i ghiacci dello stretto di Bering. Si sta chiusi a spiare dalla fessure di porte e finestre fino al disgelo. Non una macchina che passa, bianco e silenzio. Poi si scappa a far provviste esagerate nelle pause. Salutando chi incontri come si provenisse da luoghi remoti, da solitudini di mesi, infagottati in ridicoli abbigliamenti in cui si stenta a riconoscersi.
Aspettando che ‘rnengui e poi snengui.
 

L’uomo di neve
 
di Wallace Stevens
 
Si deve avere una mente d’inverno
Per ammirare la brina e i ramoscelli
Dei pini incrostati di neve;
 
E aver patito il freddo per lungo tempo
Per accorgersi dei ginepri arruffati di ghiaccio,
Degli abeti ruvidi nel distante scintillio
 
Del sole di Gennaio; e non immaginare
Alcun lamento nel suono del vento,
Nel suono di poche foglie,
 
Che è il suono della terra
Spazzata dallo stesso vento
Che sta soffiando nello stesso luogo vuoto
 
Per chi ascolta, chi ascolta nella neve,
E, un nulla lui stesso, guarda
Il nulla che lì non c’è e il nulla che c’è.
 
[trad. Orsola Puecher] 1
 
 

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NOTE
  1. The Snow Man

    di Wallace Stevens
     
    One must have a mind of winter 
    To regard the frost and the boughs
    Of the pine-trees crusted with snow;
     
    And have been cold a long time
    To behold the junipers shagged with ice,
    The spruces rough in the distant glitter
     
    Of the January sun; and not to think
    Of any misery in the sound of the wind,
    In the sound of a few leaves,
     
    Which is the sound of the land
    Full of the same wind
    That is blowing in the same bare place
     
    For the listener, who listens in the snow,
    And, nothing himself, beholds
    Nothing that is not there and the nothing that is.

16 Commenti

  1. se per grado zero della civiltà, intendiamo la mancanza ininterrotta per giorni di acqua luce gas, come in alcuni paesi che ho visitato, credo che ciò sia avvenuto. soprattutto per gli anziani.

    possiamo stare qui a questionare quanto vogliamo che “un tempo si viveva così”, ciò non non toglie niente al loro autentico dolore per non riuscire, o riuscire a stento, con enorme fatica, a fronteggiare queste avverse condizioni climatiche.

  2. sì, orsola, hai perfettamente ragione in questo: l’unico problema è che, a volte, per rispondere a delle frasi fatte, utilizziamo a nostra volta delle frasi fatte, perdendo definitivamente il contatto con quella particolare realtà.

  3. sì, Giuseppe, ma appunto Orsola si tiene ben lontana da queste frasi fatte, tutt’altro, da “E allora lo metto qui con antica funzione apotropaica, che . . .” in poi tutto è fuori che frase fatta; solo parole nitide, dignitose e discrete. Un pezzo intriso della purezza della nengue.

  4. grazie sparz
    qui direbbe qualcuno siamo a “una tregua del Generale Inverno”
    però è giusto
    non bisogna perdere definitivamnete il contatto con la realtà
    così ho aggiunto un’intervista ai miei alberi
    ma loro son tipi riservati e di pochissime parole
    e mi hanno diffidato dal mettere il sonoro

    ,\\’

  5. non so dire… frasi fatte e così via ingombrano sempre e i tuoi post le saltano sempre a piè pari, un sollievo sono
    ogni tanto in televisione arriva qualcosa che sembra vita vera e non stupidate, come direbbe mio padre. E una volta si viveva così, lo so, ci sono nata in un paesino, cinque famiglie ma la più anziana, mia nonna, aveva sessant’anni: adesso anche solo sulle colline, altro che appennini, sarebbe la mascotte!

    ci sono gli alberi a farci stare zitti e vecchi che sono come alberi…

  6. Bello, ottimi spunti per intervistare gli alberi, gli animali, gli uomini ossessionati dall’auto; per soffermarsi a scrutare il silenzio bianco del paesaggio, per condividere il disagio degli anziani e degli ammalati, per incrociare lo sguardo del vicino divenuto meno frettoloso, per ricordare un tempo più partecipato dall’infanzia alla vecchiaia; bello questo deliquioso rallentamento della frenetica vita per scoprire mani callose, rughe oneste, etc.Grazie del post, Gaetano.

  7. io glielo dico ogni volta, a volte evito solo per non essere ripetitiva. ma stavolta, me ne frego: repetita iuvant.
    great, Madame.

  8. il mio nientometro, marca Nothing&Nicht, in presenza di neve è stabile: ticchetta leggero con un suono di campane tibetane e certe lucette intermittenti color pancia di lucciola fioche e rassicuranti
    sono altri i molti casi in cui la lancetta oscilla nervosa e si accendono certi lampeggianti rosso fiamma di drago e parte una sirena navale squassaorecchie.

    ma, se il niente non è aumentato, la luce invece ha una temperatura al calor bianco e usciti dalla tanecase ci vorrebbero gli occhiali da ghiacciaio di Roald Amundsen e ci si sente, probabilmente, come i micetti che stanno aprendo gli occhi dopo il buio prenatale, che a loro dura oltre la nascita parecchi giorni.

    ,\\’

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di Nadia Agustoni
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non si abbassa la grandezza
della morte.
orsola puecher
orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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