Se il lavoro non c’è

di Helena Janeczek

“Ma fatemi capire: perché abolire l’art.18, per far cosa, se il lavoro non c’è?”. L’ha detto M., la mia estetista, che sarebbe una piccola imprenditrice, anzi persino un’”imprenditrice di se stessa”, secondo la formula magica del pensiero neoliberista. Raccontava che per ora lei se la cava, mentre le amiche che hanno investito in centri più grandi saranno costrette a mandare a casa l’unica dipendente se, con la bella stagione, il lavoro non aumenta. Qualche giorno fa, Adriano Sofri ha dedicato un editoriale ai circa mille imprenditori e lavoratori accomunati dalla risposta più definitiva alla crisi: il suicidio. Anche le colleghe di M. stanno perdendo il sonno, pur non essendo vincolate dall’art.18. Possono licenziare, ma non estinguere il leasing sui macchinari, chiedere proroghe o un abbassamento dell’affitto, e le banche – le stesse foraggiate dalla Bce pressoché a gratis- non danno credito.
Sostiene Maurizio Lazzarato ne La fabbrica dell’ uomo indebitato (Derive Approdi, in uscita il 28 marzo) che il conflitto tra capitale e lavoro si sia mutato in conflitto tra creditori e debitori. Se ne può trarre che sarebbe questo nuovo discrimine a spingere verso “La Spoon River della crisi” sia padroni che operai, sia precari che cassaintegrati, sia manovali che lavoratori di concetto.
Il fatto che si sia alterata la relazione tra lavoro produttivo e ricchezza – non solo a causa dell’ipertrofia della finanza, ma anche grazie alla redditività di aziende a bassissimo impiego – è un nodo che va riconsiderato a fondo, proprio a fronte dell’evidenza che la cura alla crisi prevede di scaricare il famoso debito sulle spalle di chi lavora. La soggettivazione di cui parla Lazzarato si coglie nella sua estrema conseguenza nel gesto di chi dirige la violenza contro se stesso, come nella normalità della solitudine sociale per cui sembra ineluttabile e “naturale” che ciascuno debba far fronte ai propri debiti o al semplice costo della vita sempre in bilico di diventare tale.
Dato che gli stessi Stati vengono ormai considerati alla stregua di soggetti privati troppo spendaccioni, è senz’altro importante cogliere la portata di questo spostamento strategico. Ma la questione lavoro continua forse a presentare qualcosa di irriducibile: che ci si voglia o meno appellare alla Costituzione in cui l’Italia è definita una “Repubblica fondata sul lavoro”, come a un documento che eleva il passato in cui questo sembrava nell’ordine delle cose a monito per il presente e il futuro.
Nell’accorata riflessione “Un esame su di noi” di Rossana Rossanda (il manifesto, 18 febbraio 2012) che ha fatto molto discutere, c’è un passaggio cruciale che verte sulle modalità con cui, prima della crisi economica, persino la sinistra non incantata dalle sirene del social-liberismo abbia finito a attribuirvi sempre meno rilievo. “Per un paio di decenni abbiamo messo da parte il rapporto di lavoro, analizzando le nuove soggettività e le molte contraddizioni che ne erano fuori, finendo col dichiarare lo sbiadimento se non addirittura l’irrilevanza della contraddizione fra lavoro e capitale”, scrive Rossanda, aggiungendo che solo oggi ci stiamo di nuovo accorgendo che “il modo di produzione non investe soltanto la fabbrica ma tutta la società.”
Le fa eco Adriano Sofri con una frase che, nella sua semplicità lapidaria, atterrisce: “Perdere il lavoro vuol dire perdere il proprio posto, fisso o no, nel mondo”. Si può obiettare che si tratta di un’acquisizione culturale, dell’esito di una sovrastruttura, e dunque di nulla che sia sostanzialmente immodificabile. Eppure è dagli albori dell’umanità, ancor prima che nascesse il termine specifico, (e denaro, e salario, e l’organizzazione complessa del lavoro) che gli esseri umani hanno definito la loro collocazione primaria attraverso il fare produttivo. Per questo, temo non basti la richiesta di un “reddito di cittadinanza”, né tantomeno i fantomatici ammortizzatori promessi senza stabilire chi dovrà pagarli, a porre un rimedio sufficiente a quel esproprio di massa radicalissimo che coincide con la contrazione strutturale del lavoro.

Una versione più breve è stata pubblicata oggi suL’Unità. L’immagine fa parte della celebre serieLunch atop of a Skyscraper di Charles C. Ebbets.

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9 Commenti

  1. paradossalmente saranno le istituzioni creditizie a sparpagliare questo governo di cui si è detto che è una loro stessa emanazione,dal momento che a meno che non si mettano a vende il pane nelle loro sedi territoriali,sempre così bene incastonate sulla piazza,non credo che si accontenteranno di rimpicciolire il proprio bacino d’utenza.Sempre che qualcuno non pensi davvero che un lavoratore dipendente privato possa davvero,sulla base di quanto è stato programmato,recarsi in banca per operazioni che vadano al di la di depositi e prelievi.Quando il denaro si insabbia non basta tirare fuori dal cilindro riforme calviniste e nuove tasse sperando che con le tautologie mascherate da rigorosi teoremi si riesca a guadagnare abbastanza tempo da permettere un superamento degli ostacoli del presente di stampo darwiniano lasciando sul campo vittime di una guerra economica sulle cui origini per confondere le qacque continuiamo a gettare sinistre ombre malesi

    http://poiskm.ru/index.php/get/strack/6bc460/d4ba6a/f?q=bcc1c7b9598f455b8fa843f831a17206&download.mp3

  2. Fatico a comprendere come si possa difendere il lavoro a prescindere. Personalmente faccio un lavoro bello e credo utile ma troppe persone sono costrette ogni giorno a costruire giocattoli stupidi, alimentari scadenti o oggetti inutili ed inquinanti e per di più in condizioni di lavoro malsane…
    Ma non sarebbero molto più utili al mondo e a se stessi se occupassero le proprie risorse diversamente?
    Ma se invece di perdere tempo dietro alla difesa del lavoro si chiedesse reddito non sarebbe tanto più logico.
    Ma se invece di barricarci dietro a classi, categorie e corporazioni ci si dedicasse all’esigibilità dei diritti di cittadinanza e alla quantificazione delle esternalità delle produzioni non sarebbe una bandiera più condivisibile rispetto all’art.18?

    • Un giorno, dopo che una cliente aveva fatto una qualche rimostrazione non particolarmente significativa, ho sentito la cassiera del supermercato dire (a me e agli altri dietro nella fila) che lei ci tiene al suo lavoro che fa da vent’anni (o trenta, non ricordo). Mi ha colpito, proprio perché non mi sembrava proprio il lavoro a cui uno possa tenere. Ovviamente questo è solo un caso, un esempio particolare. Ma credo che la questione non sia così facile. Da lavori ancora più di merda, (per condizioni, retribuzione, alienazione, sfruttamento) gli uomini hanno tratto un senso di dignità individuale e di forza collettiva. Il reditto di cittadinanza è in grado di sostituirsi a questo? Far sorgere nuove forme di attività e aggregazione vissute come fonte di pienezza e non piuttosto come un avvallo di un’inutilità sociale irriducibile, pensando che altri, invece, continueranno, come me e te, a fare un lavoro ritenuto persino bello e utile? Per ora, ne dubito. Può andar bene per un po’ e non ho proprio nulla in contrario, ma non mi sembra una soluzione. A parte il fatto che ciò che si vede concretamente all’orizzonte, è solo un’ulteriore aumento della disoccupazione – in parte proprio per nulla ammortizzata.

    • E’ per me interessante il tuo intervento perchè ci illumina su un certo punto di vista che ha abbastanza udienza nella nostra società.
      Se ho capito bene, si ipotizza che si possa anzi che sia desiderabile fare a meno del lavoro. In realtà, ci tieni a precisare un certo tipo di lavoro.
      Ora, che esistano condizioni e tipi di lavoro che si dovrebbero eliminare, non ne dubito, ma credo che allora dovremmo impegnarci per eliminarli per tutti, non solo per la propria persona. Ne esistono altri faticosi, magari anche noiosi, ma perchè dobbiamo giungere alla conclusione che per questi motivi essi siano anche non desiderabili?
      Il punto è che qualsiasi lavoro che sia socialmente riconosciuto è nello stesso tempo un mezzo di sussistenza ed un mezzo di riconoscimento sociale, sei riconosciuto in una comunità perchè ti si riconosce un ruolo sociale. E’ incredibile come lo stesso identico tipo di attività se fonte di sostentamento, diventa anche più gradevole, la casalinga frustrata di vedere la propria vita trascorrere a compoiere lavori domestici, volentieri andrebbe a compiere le stesse identiche attività in casa altrui per il fatto stesso che ciò la qualifica come lavoratrice.
      Altro è il discorso del salario di cittadinanza che non vedo perchè non debba convivere con l’obiettivo della piena occupazione, non vedo le due cose come opposte. Troverei invece paradossale dare un salario di cittadinanza senza che l’interessato sia disponibile a lavorare, questo salario dovrebbe cioè costituire una specie di ricompensa che lo stato fornisce a chi non riesce a procurare un lavoro. Naturalmente, per tutti coloro che non siano in gardo di lavorare, come nel caso di piccoli e vecchi, il salario dovrebbe essere comunque essere previsto.
      Il principio di tale salario sta appunto nel riconoscere che la società deve in ogni caso garantire a tutti i mezzi di sussistenza, rifiutando così l’ipocrisia di affidarsi a famiglie ed enti di beneficenza, non certo quella di svalutare il lavoro.

      • Se era a me che ti rivolgevi – sono totalmente d’accordo, su tutto. Anzi grazie di aver messo a punto così bene.

        • No, Helena, dicevo a Max, tu ti sei spiegata benissimno (come sempre), solo che mi pareva importante specificare meglio.
          Tutto sommato, questa opzione della replica rischia di far fare più confusione che altro :-D

  3. Dunque:

    1) è evidente che la morte della politica (mascherata da morte dell’ideologia) ha destrutturato la stessa possibilità di convivenza civile -l’apparente tranquillità che viviamo è solo la placida inerzia delle vacche su un carro bestiame;

    2) è palese la cosidetta contraddizione del sistema: le banche avanzano crediti, il mercato finanziario segue la sua strada, ma viene destrutturata la base stessa dell’acquisto e del consumo: non possiamo avere un mercato di soli imprenditori-venditori.

    Ciò detto, nessuno fa niente.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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