An Exciting Mission

di Monica Jansen

“Caution Church Van. An excited Church with an Exciting Mission”: guardando questa avvertenza sul retro di un pulmino di parrocchiani, posteggiato accanto alla ‘cappella’ di Hyde Hall sul campus della University of North Carolina a Chapel Hill, mi sono chiesta se potesse valere anche per la congregazione che per tre giorni, inizio maggio, lì si è ritrovata per discutere i pro e contro della “Anomia della terra” (titolo del convegno). Il progetto veniva da una rete internazionale di ricerca creatasi l’anno scorso tra le università di Amsterdam e Utrecht, Parigi (Nanterre), Michigan e Chapel Hill con il titolo generale “Precarity and Postautonomia: the Global Heritage”. Una delle conclusioni più sorprendenti del convegno-“assemblea”, almeno per me, è stata che l’autonomia concepita nell’Italia travagliata degli anni Settanta, non solo ha conquistato l’intellighenzia accademica statunitense in questi primi anni 2000, ma starebbe perfino cambiando la società americana nei suoi fondamenti. Gustavo Esteva, professore/attivista trasferitosi negli USA dal Messico nel 1954, nel dibattito conclusivo ha complimentato gli americani per il loro risveglio politico, con un (ironico?) “welcome to the boiling!” Ma cosa vuol dire applicare la (post)autonomia alla realtà sociale e economica delle due Americhe: dico due perché l’America del sud è ampiamente rappresentata nelle università dell’America del nord e lo spagnolo è ormai seconda lingua se è lecito trarre conclusioni dalle doppie scritte inglese/spagnolo nei servizi pubblici. E cosa si intende per “autonomia” se si estrae il concetto dalle sue origini operaistiche degli anni Settanta in Italia, segnati non solo da rivolte di studenti e operai ma anche dal terrorismo, di destra, di sinistra, e di Stato? Come ha osservato giustamente Andrea Righi, autore di Biopolitics and Social Change in Italy (2011), i pensatori che negli Stati Uniti vanno per la maggiore, da Negri e Virno a Bifo, son tornati alle giovani generazioni italiane dopo la loro riabilitazione nei campus americani. Un altro partecipante faceva notare invece che il nesso tra i Black Panthers e Autonomia non era stato indagato a sufficienza mentre era essenziale per comprendere il valore sociale del pensiero radicale negli Stati Uniti. E che risposta dare all’indignazione di una relatrice, rappresentante dei diritti degli indigeni americani, i first nation, non inclusi da nessun relatore nella ‘moltitudine’ dei richiedenti diritti, da Autonomia a Occupy ad Anonymous? Intanto, seduta accanto a me, una signora legge un giornale locale recante in prima pagina la foto di un poliziotto con sotto la dicitura “Life without Activism would be dull”, la vita senza attivismo sarebbe noiosa. In quale quadro concettuale si deve allora concepire l’attivismo, che per molti dei presenti al convegno andrebbe diretto contro lo Stato? Per tornare alla domanda sugli indigeni: forse, come ha suggerito un relatore, la strategia Occupy di diventare invisibili, di fondere la propria soggettività con quella dei passanti che popolano la strada, è più difficile da realizzare quando si appartiene a una minoranza “visibile”? Osservazione contraddetta da altri secondo i quali nel movimento Occupy negli Stati Uniti sono state proprie diverse minoranze specifiche, come i caraibici newyorkesi, a prendere l’iniziativa per azioni locali tipo ‘urban gardening’ che hanno funzionato come nuclei di aggregazione. Ma allora come la mettiamo con un episodio Occupy in Messico, dove il comitato organizzatore ha violentemente rifiutato i rituali iniziatici di un gruppo indigeno, provocando la scissone del gruppo d’azione? Contraddizioni su contraddizioni, paradossi che generano altri paradossi: in questo convegno, l’ambivalenza sembrava il punto di partenza per intravvedere le possibilità di legare l’astrazione teorica a modalità nuove di intervento politico. Karen Pinkus, per esempio, professore di letteratura italiana, ha preferito lasciare da parte l’intervento sulla fiction preannunciato, per richiamare l’attenzione sul gigantesco problema del cambiamento climatico e sull’azione concreta degli attivisti nella zona della sua università, Cornell, contro le tecniche di sfruttamento chiamate ‘fracking’; questi attivisti fanno leva, paradossalmente, su uno dei provvedimenti americani più conservatori, ovvero il prevalere della sicurezza dei cittadini in situazione di pericolo. Però, un altro partecipante aveva apposto sul suo “mac” un adesivo con lo slogan: “the green scare”, affermando che occorre resistere contro ogni strumentalizzazione della paura del cambiamento climatico, che distoglie la nostra attenzione da altre emergenze più problematiche. Nonostante le controversie interne, tutti i presenti sembravano d’accordo con la “missione” di cui gli intellettuali dovrebbero farsi carico per –almeno – limitare i danni. Molti di loro sono attivi sia nell’università sia in movimenti, che talvolta sono anche accademici: Elise Danielle Thorburn, dottoranda e rappresentante di EduFactory, ha lanciato un appello a favore degli studenti in Quebec, le cui manifestazioni contro l’aumento delle tasse sono state represse con violenza dalla polizia, con tanto di feriti e arrestati, e quindi notevoli costi legali per il movimento. George Caffentzis, professore di filosofia dell’università di Southern Maine invece ha chiesto solidarietà con la lotta studentesca contro il debito del prestito di studio, che negli Stati Uniti pare sia ancora più grave di quello della carta di credito. Si sentiva insomma che alcuni partecipanti provenienti da varie aree di attivismo, si aspettavano che i relatori non offrissero solo analisi teoriche ma concepissero anche strategie pratiche. E si è creata anche una divisione tra gli antagonisti del capitalismo e chi sosteneva che il capitalismo ormai capillare sia piuttosto un nemico interno; tra chi sosteneva una visione anti-umanistica della lotta, proponendo una dimensione impersonale allargata alle entità di animali e molecole, e chi riteneva essenziale riportare i problemi a realtà concrete e soluzioni pragmatiche; tra chi si sentiva attratto all’‘anomia della terra’, che oltrepassa il concetto territoriale di Stato, e chi invece rigetta una critica irresponsabile e elitaria dello Stato. Un esempio: l’autonomia sanitaria può funzionare senza l’assistenza da parte dello Stato?

Per me, partecipare a questo convegno, è stata un’esperienza davvero molto eccitante, ma che perde la sua pertinenza se non ci si sforza di comprenderne le ambivalenze, le contraddizioni e i paradossi. Non per fermarsi all’impotenza della complessità, ma proprio per poter aprire altri orizzonti di pensiero. E perciò la sfida posta dall’anomia della terra, lanciata dall’organizzatore Federico Luisetti sulla scia del filosofo tedesco Carl Schmitt, ha funzionato bene come propulsore provocatorio che ha liberato diversi tipi di vitalismo, complementari e conflittuali.

Per ulteriori informazioni: postautonomia.org

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3 Commenti

  1. Complimenti per la chiarezza del resoconto e l’esposizione di tutti i punti di vista che hanno animato questo insolito convegno. In un contesto universitario è plausibile che la riflessione possa spaziare dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, ma proprio l’intenzione di voler spingere questo pensiero al di là del teorico per vedere come iniziative, atteggiamenti, sinergie possano avere un effetto sul reale è del tutto auspicabile. Interrogarsi, anche indirettamente, sulla terrificante pacificazione, mascherata di democrazia, in cui viviamo è un bagliore che espande i suoi riflessi a favore della maturazione di un pensiero critico che possa tradursi in azione. Le università potrebbero ri-giocare un ruolo determinante in questo processo di consapevolezza “de-territorializzando” l’ovvietà immobilistica della società in cui viviamo. Se ognuno di noi, ed in particolare chi ha il privilegio di insegnare e di condividere sapere e riflessioni, cercasse di riallacciare i vincoli recisi fra conoscenza ed etica, allora si compirebbe un passo in avanti ai danni del torpore postcapitalistico che vuol condannare la conoscenza al pragmatismo sterile o mantenerla salda ad un accademismo altrettanto vacuo che fomenta l’immobilismo. In questo senso sarebbe determinante il ruolo di chi insegna scienze umane, proprio per la natura di ciò che si insegna: la conoscenza del bello prima o poi si ricongiunge all’etica e a valori universali di giustizia e libertà. Questi valori, nonostante tutto, convivono nell’uomo e nelle sue composite forme di espressione che sono anche una delle sue giustificazioni della sua esistenza al mondo.

  2. Grazie a Monica per il suo destabilizzante resoconto, che ha colto benissimo lo spirito anomico di questo incontro, dove non si voleva celebrare nessuna tradizione accademica o politica ma invece mettere a contatto – con tutti i rischi impliciti in questa operazione – prospettive ed esperienze radicali di autonomia, facendo risuonare continenti e posizioni teoriche non assimilabili.

    Un tema che è emerso con forza è l’aspetto “selvaggio” che l’autonomia (o meglio, la post-autonomia) sta assumendo sia in Europa che nelle Americhe. In Europa come costruzione anti-capitalistica di una “antropologia politica selvaggia” (Joost de Bloois), che sfidi dalla parte della vita, e dunque di un certo primitivismo biopolitico, i principi etico-politici dell’homo economicus occidentale. Nelle Americhe, come rivendicazione di un pensiero decoloniale ed indigenista, in grado di decostruire i dispositivi politico-concettuali della cultura liberale.
    A mio avviso, queste sensibilità testimoniano di un distacco dai principi più eurocentrici del marxismo e dell’operaismo, e radicalizzano invece gli aspetti etico-antropologici della critica della civiltà: da Nietzsche a Pierre Clastres, da Spinoza a Tiqqun …
    Un commento a margine. Il mio collega Emilio del Valle Escalante (maya k’iche’), originario del Guatemala e studioso (indigeno) di letteratura indigena, avrebbe dovuto partecipare al convegno e inteloquire con gli intellettuali latinoamericani che hanno dato voce alla critica decoloniale – tra i quali Gustavo Esteva e Catherine Walsh. Purtroppo non ha potuto esserci, ma ho raccolto alcune sue idee che voglio condividere con il vostro blog “indiano”. A suo avviso, nelle Americhe, è importante distinguere tra le prospettive decoloniali indigene e l’indigenismo degli intellettuali di origine europea o meticci, legati prevalentemente al contesto politico e culturale europeo o nord-atlantico. Critici come Esteva e Walsh sono tra i rappresentanti più noti di questo decolonialismo per l’Occidente, ma trovano ben poca risonanza tra gli intelletuali indigeni, che non si definiscono più in rapporto ad una America “Latina” ma ad un continente americano inteso come “Abya Yala” (secondo la proposta dell’Aymara Takir Mamani) .

    Un’altra piccola precisazione: ad organizzare con me questo convegno-assemblea sono stati, a UNC-Chapel Hill, John Pickles (geografo) e Wil Kaiser (studioso di letteratura americana). Un ruolo fondamentale l’hanno avuto anche, a distanza, Vincenzo Binetti (Ann Arbor, Michigan), Joost de Bloois e Frans-Willem Korsten (Paesi Bassi).

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Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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