Scene dal buio

di Marino Magliani

Il disastro non era che si accorgesse che m’ero svegliato da poco, ma che avevo dormito a casa. E ogni giorno si ripeteva la stessa scena: io che facevo in tempo ad alzarmi, a lavarmi faccia e denti, e poi mi sedevo a tavola con loro, e lui che se ne accorgeva subito, perché quella cosa lì, intendo che avevo dormito in casa, non mi riusciva di nascondergliela. Lui era mio padre. E io ormai da un anno, ossia da quando non frequentavo più l’università perché s’era sfasciato tutto, dormivo in casa. Lui non voleva. Diceva che prima o poi venivano, mi prendevano e mi mandavano in Germania, oppure mi attaccavano al muro e ci attaccavano anche loro, lui e mia madre. I primi tempi, parlo di settembre, erano tornati i soldati, sbandati e mezzi in borghese, a piedi o in treno, da soli e in gruppetti, e sembrava che fosse finito davvero tutto, poi un giorno, verso la fine del mese, i soldati hanno iniziato a sparire e a nascondersi nei beudi, molti a salire  in montagna. Allora mio padre disse che dovevo sparire anch’io. Che un giorno a l’altro prendevano anche gli studenti e li facevano andare in quella cosa di Salò. Mio padre le cose le vedeva. Quel giorno infatti erano arrivati i tedeschi a rastrellare la valle fin giù a Sanremo e s’erano portati via tutti. La sera girò voce che tra i presi c’era gente d’ogni età e tra i giovani, chi si era salvato è perché aveva aderito a quella cosa là di Salò. A uno gli avevano sparato mentre scappava. E quel giorno no, ma il giorno dopo mio padre tirò fuori dalla cantina un vecchio materasso di lana e me lo mise in spalla. L’umidità aveva appesantito il materasso, sembrava d’avere in spalla un sacco di olive, con la differenza che per portare un materasso devi continuamente fartelo girare addosso. Ricordo che mio padre mi guardava che barcollavo e scuoteva la testa. Non andavamo molto d’accordo, esami non ne avevo mai dato, ma mia madre mi proteggeva. Lui diceva che m’ero iscritto a lettere per non far niente e che anche un professore di Genova gli aveva detto che un’aquila non lo ero e che perdevo tempo.

Passammo un portico e una vigna e finimmo davanti all’entrata del Beudo Grosso. Il beudo, per capirci, è un condotto. Una valle ligure è costituita da tante vallette e gole, e ogni valletta ha il suo condotto d’acqua piovana, che a volte è asciutto, coperto o scoperto, e porta giù al torrente o ad altri beudi. Là dentro ci trovammo a dormire sei o sette uomini, un paio di giovani come me, dalla voce, gli altri dovevano essere sui trent’anni o giù di lì. Uno degli anziani disse che non c’era più posto, ma mio padre non ci pensò due volte a sistemarmi il materasso e disse che se non c’era posto si stringevano. In realtà ci si stava anche in centocinquanta. Mi sedetti sul materasso, mio padre mi passò la mano sui capelli e se ne andò. Doveva camminare curvo, perché il soffitto in certi punti era basso, e anche perché mio padre era grande, zoppo per una ferita rimediata sul Carso, ma grande per essere ligure. Rimasi a sentire i suoi passi che si allontanavano e rimbombavano e quando non li sentii più pensai che con mio padre ci parlavo sempre troppo poco.

Tremavo dal freddo, e così rimasi sveglio fino all’alba. Ogni tanto si sentivano dei versi di bestia. E uno che era accanto a me, ma senza materasso e mi aveva chiesto se poteva sdraiarsi un attimo da un lato, mi disse che era la civetta che si fermava all’entrata e aspettava che uscissero i topi. Aveva una bella voce anche se balbettava un po’. Un bersagliere sardo, così almeno me lo presentò quello che balbettava sdraiato accanto a me e traduceva cosa diceva (spiegandomi che il bersagliere aveva disertato e aspettava la volta buona per contattare i partigiani e mettersi con loro) disse in sardo che la civetta era una bestiaccia e sputò sulle pietre. Le pietre erano fredde, ogni tanto se ci mettevi la mano ti saliva addosso uno di quei ragni o di quei grilli che vivono nelle tane, pieni di antenne. Che fossero ragni e grilli me lo disse quello sdraiato accanto a me, a me sembravano formiche. E c’erano anche le formiche e le salamandre e le lumache che lasciavano la bava, e c’erano i nidi di ragno, mi disse sempre quello accanto. Gli chiesi come si chiamava. Italo, studente anche lui, agraria, prima a Torino, poi a Firenze. Forse ti ho già visto alla spiaggia, gli ho detto. Forse se all’alba uscivamo e ci guardavamo ci riconoscevamo.

All’alba tornai a casa, Italo disse che non usciva. Dormii in camera tutta la mattina e quando mio padre tornò e mi trovò in pigiama se la prese con mia madre. Che era pericoloso, che non dovevo presentarmi e lei anziché lasciarmi dormire mi doveva rimandare nel beudo. Quando mi ripresentai nel beudo portai qualche mela e la rosicchiammo in silenzio con Italo. Sul materasso ci si era sdraiato uno. Un po’ ce lo lasciai, poi lo feci sloggiare. Una mezz’ora soltanto disse. Va bene, dissi. Ma il tempo laggiù non si riusciva mica a dire. Come si faceva a dire se era giorno o era di nuovo notte. Secondo Italo era già notte. Mi aveva raccontato di dov’era, viveva nella villa sulla strada per San Giovanni. Suo padre studiava le piante, il giardiniere di casa era quel ragazzo coi capelli ricci e lunghi che avevo visto un mucchio di volte. Poi stavamo delle ore senza parlare.

Rimasi nel beudo qualche giorno, mio padre mi portava delle patate bollite, delle mele, acqua, ma poi a volte mi prendeva un attacco e allora andavo a dormire a casa e a mezzogiorno quando mio padre entrava si arrabbiava. Io gli dicevo che ero appena arrivato, che ero venuto per cibo o per un impacco di varma agli occhi che si riempivano di orzaioli. Ma lui non ci credeva e se la prendeva con mia madre. Si mordeva un dito, che per lui significava: mi tengo dal metterti le mani addosso.

Nel beudo parlavo solo con Italo. A volte non ce lo trovavo perché era uscito anche lui per una scappata a schiena bassa nelle vigne fino a casa. E poi tornava con uva e uova sode. Gli altri non erano sempre gli stessi. Il bersagliere sardo girava voce che fosse passato coi partigiani, e Italo mi assicurava che era anche per lui questione di giorni e poi con suo fratello salivano coi garibaldini di Vittò. Cosa farai quando sarà finito tutto, gli chiesi una volta. Lo scrittore, disse. E cosa scriverai? Scrittore di teatro. Poesie alla Montale. Guarderò la Liguria di giorno, finalmente di giorno, e la scriverò. L’ubagu e l’aprico. Agraria, dissi, sarebbe piaciuto farla a me. Facevo lettere perché a Genova avevamo una zia che viveva vicino alla facoltà e ci lavorava, e mio padre s’era intestardito per le lettere. Non io. Insistetti per farmi dire cos’aveva scritto e cos’altro avrebbe scritto là sotto se solo avesse avuto carta e inchiostro e una candela. Romanzi sulla resistenza, e racconti per bambini, disse. Mi rivelò un segreto. A Sanremo, nella pensione ebrea, ci aveva vissuto un tal Walter Benjamin, scrittore tedesco di origine ebrea che poi era morto sui Pirenei, e lui sapeva dove questo Benjamin aveva nascosto una valigia pieni di racconti per bambini, e quando finiva tutto andava in quel posto che era una soffitta e si portava la valigia e  traduceva i racconti dal tedesco, si faceva aiutare. Ma di suo, gli chiesi, cos’avrebbe scritto? Disse di tutto. Racconti soprattutto, ne aveva in mente a centinaia. Pesci grossi, pesci piccoli. Le storie di Adamo, che era il giardiniere di casa e si chiamava Libereso. Bastimenti pieni di granchi. I loro bagni, le ultime estati innocenti, prima della guerra. Storie di caccia, a Colla Bracca. Le storie di Giuà dei Fichi e di Marcovaldo. Io sbadigliavo. Storie di campagna, disse credendo che mi piacesse la campagna. Ma io dissi che non mi piaceva neanche la campagna, avrei semplicemente voluto fare agraria perché mi sembrava semplice, mio padre era contadino, aveva 1.500 piante di ulivi e se finita agraria o se nel mezzo di agraria mollavo potevo sempre andare in campagna. Quando gli raccontavo cose del genere, sospirava come se ci pensasse.

Un giorno tornarono i tedeschi e bruciarono delle case sopra san Giovanni o San Romolo, o in entrambi i posti. Neanche mia madre seppe dirmi con precisione. Io, che dopo il pranzo, scacciato da mio padre, rientravo nel buio, quel giorno ripassai svelto sotto i portici e mi infilai terrorizzato negli orti prima ancora di uscire dalle case. Da quella sera il Beudo Grosso si popolò tanto che non mi fu nemmeno facile trovare Italo. Ne convenimmo che non era più un luogo sicuro. E lui disse che a breve sarebbe andato via. Anzi, una volta o l’altra rientravo e non ce lo trovavo più. Mi chiese se volevo salire con lui in montagna. Cosa facevo là dentro, a sentire le bestie, i topi e le lumache passare, in quella puzza che ci saremmo mai più tolti di dosso. C’era il grande Cascione, u megu, in montagna, c’era la libertà. Io dissi che mio padre i partigiani non li poteva soffrire, erano straccioni e avevano i pidocchi. Queste cose lo irritavano e per rispondermi che non era vero balbettava ancora di più.

Siccome il Beudo Grosso ogni giorno che passava era davvero sempre più affollato, Italo disse che andava a trascorrere gli ultimi giorni nel Beudo della Polveriera, un beudo che stava tra casa nostra e il paese di Bastieto, e dai miei orti ci si arrivava benissimo in tre minuti di scorciatoia o di risalita del Beudo delle Capre. E così lo persi di vista, ossia, anche se forse non l’avevo mai visto, non lo vidi mai più. Chiesi a mio padre di condurmi nel Beudo della Polveriera, ma mio padre disse che là dentro un giorno o l’altro ci entravano i tedeschi perché ci giravano troppi delatori a Bastieto. Ed ebbe ragione. Un giorno si sentì una cagnara e i saloini si misero a correre inviperiti per i carruggi di Bastieto, e spararono a più di uno. Gli spari dentro il Beudo Grosso, dove mi trovavo ancora in quel tempo, si sentivano come da un’altra valle e fin dopo la fine della guerra non saprò mai che Italo quella notte s’era salvato ed era riuscito a salire in montagna.

Il Beudo Grosso era ormai diventato pericoloso, c’era mezza Sanremo. Si poteva tentare nel Beudo della Crosa, secondo mio padre. Il Beudo della Crosa raccoglie le acque di diverse vallate ed è coperto, un tunnel perfetto, col soffitto a volta, di blocchi di pietra tufalina. Mio padre le cose se le sente. Un mezzogiorno viene dall’uliveto, mi dice che nel giro di mezz’ora arrivano i tedeschi e si portano via mezzo paese. Mi ordina di prendermi due stracci e di seguirlo nel Beudo della Crosa. E infatti, quando è un po’ che son là sotto le campagne della Crosa, nascosto nel beudo, in quel nuovo odore di umido (perché ogni beudo ha il suo odore),  con la mano che devi sempre toglierti le ragnatele davanti, sento il soffitto rimbombare e le camionette dei tedeschi che bloccano le uscite del paese. Spari pochi, ma urla e luci che penetrano l’entrata del Beudo della Crosa. Io e la dozzina della mia età che eravamo lì siamo indietreggiati in salita. E stavamo lí, immobili, seduti perché in piedi non ci si stava. Uno mordeva una mela e si è mangiato un calcio negli stinchi da uno dei più vecchi. Non c’è cosa che viaggia come i minimi rumori nei beudi. Lo impari presto. Mi dicevo: ecco che questa cosa ti mancava, ci passavi cento volte al giorno per la mulattiera della Crosa e qui dentro non ci conoscevi, quest’odore te lo saresti perduto. Ragionavo come Italo ormai, mi raccontavo le storie. O forse lo facevo perché mi mancavano i suoi sospiri che avrei riconosciuto tra i sospiri di cento persone.                                                     Quando tutto tacque, gli spari, e i passi, uno dopo l’altro uscimmo. Il sole tramontava, era luce che feriva.

Nel 44′ mi nascondevo ancora nel Beudo della Crosa. I partigiani avevano preso una batosta. Quel comandante Cascione, medico, era stato ucciso, aveva risparmiato un prigioniero e questo bastardo era riuscito a scappare e aveva portato in montagna i tedeschi, li aveva condotti nel luogo dove si accampavano e c’erano stati molti morti. Pensavo a Italo, alle storie che non gli avevo mai raccontato e che ora mi inventavo durante l’ozio. Erano storie piene di luce e di amicizia. Ne avevo sempre in mente una, che avevo sognato una volta che avevo la  febbre in quel freddo. Era la storia di due ragazzi di Sanremo che non si conoscevano e che per puro caso, esattamente nello stesso tempo, avevano letto un manuale su come si costruiscono i trampoli e allora s’erano messi a fabbricare i loro trampoli, in cantina o in soffitta, e quando li avevano pronti erano andati a provarli in piazza – nella stessa piazza e c’erano arrivati esattamente assieme. Era una piazza dove non passavano né tram, né bici, né carri, per questo era venuta loro in mente. E si erano messi i loro trampoli, uno da un angolo della piazza e l’altro dall’altro e si erano mossi, a piccoli passi, prima rasente i muri e poi senza tenersi a nulla, fin quando non stavano bene in equilibrio e procedevano, stupiti, mentre si avvicinavano incerti uno all’altro e si sorridevano, fino ad arrivare a un passo uno dall’altro senza riuscirsi a dir nulla.

Passavano i mesi, i partigiani riformavano le file e progettavano colpi di mano alle polveriere. A volte scendevano fino in città. Mio padre non li poteva soffrire perché gli rubavano la verdura, ma sotto, lo sapevo, stava dalla loro parte.

Dormivo sempre nel Beudo della Crosa, ci avevo portato un altro materasso. Di giorno mangiavo a casa, e quel paio d’ore al caldo a letto in attesa che mio padre rientrasse dalla fatica e si pranzasse, era un lusso. Un mezzogiorno mio padre mi chiese quanti eravamo là sotto. Gli dissi che non lo sapevo, c’era pieno, e sul  materasso, dall’alba a mezzogiorno quando non c’ero ci si sdraiava Beppe, il figlio di quello delle bottiglie, che poi nel pomeriggio non si voleva togliere perché diceva che là sotto le cose erano di chi se le prendeva. E allora risate e quando uno faceva aria di nuovo risate… Allora il vecchio non volle che gli dicessi altro e finito il pranzo ordinò a mia madre di mettermi qualche straccio in un sacco da olive, di prepararmi un bottiglione d’acqua di vichy, e un sacchetto di mele e arance e cosa c’era. Quando lei preparò tutto, lui si prese il sacco in spalla, tanto, disse, lui non dava nell’occhio perché zoppo com’era non lo mandavano neanche in Germania. All’imbrunire ci trovavamo nelle terrazze di San Giovanni, dietro quel casone bruciato, ben sopra la villa di quello che l’anno prima si nascondeva con me nel Beudo Grosso, disse. Al primo buio, attenzione, le giornate sono corte, mi avvisò. Io dissi che allora andavo a recuperare il materasso nel Beudo della Crosa, era roba nostra, perché lasciarcelo. Ma lui non ha voluto, davo  nell’occhio, poi quelli che erano lì parlavano: “Ha tolto il materasso perché ha cambiato posto…”. E mi avrebbero seguito. Ma dietro il casone bruciato non c’erano beudi, dissi. Te obbedisci, disse. Quel pomeriggio, prevedendo che la notte seguente avrei dormito ben male – anche se mia madre era contraria, temendo più le scenate che avrebbe fatto lui se l’avesse saputo, che per il pericolo di finire in Germania se mi sorprendevano in casa i tedeschi – feci una dormita nella mia stanza come se fosse l’ultima, colazione abbondante, e all’imbrunire uscii di casa e mi nascosi sotto il portico. Secondo gli ordini, dovevo aspettare che la colonna di gente che veniva dalla campagna attraversasse il ponte e risalisse tra le case. Mio padre non si fidava di nessuno. Era la fine di febbraio, l’aria ancora umida e il pettirosso balzellava sui rami. Il torrente era gonfio, e copriva gli zoccoli dei muli che risalivano le rampe. Ma quando voltavano e passavano per la stradina di là del portico si sentiva tutto, anche i colpi di frusta che ogni tanto Bacì da Nea, attaccato alla coda, dava al bue. Li lasciai passare, aspettai il giusto e mi infilai giù per la stradina incassata tra le case. Le capre nelle stalle mi sentivano e scornavano le tavole. I lumi nelle finestre erano accesi, ma tempo un amen iniziava il coprifuoco e si sarebbe spento tutto.

Passai il ponte, e poi rasente i muri, e davanti a villa Meridiana tirai un sospiro. Avrei voluto chiedere se avevano notizie di Italo. Se era vivo. Avrei voluto parlare con quel giardiniere che dicevano conoscesse le erbe come i vecchi. Poi arrivai a San Giovanni, non c’era luna, e faticai a trovare il casone bruciato. Poco dopo sentii mio padre. Lo annunciarono gli scarponi inzuppati, era scivolato in qualche bealera, immagino. Mi bisbigliò un ordine. “Vai su fino ai limoni, e non voltarti a guardare, dalle prime canne ti ci infili, entri profondo e mi aspetti. Ubbidisci senza aprir bocca”. Mentre ubbidivo sentii un rumore di passi arrivare da sotto. Capii che l’avevano seguito o avevano seguito me. Lo sentivo allontanarsi con i suoi scarponi che facevano rumore nell’erbaccio. Io una volta dentro le canne m’ero fermato un attimo a guardare. Gli inseguitori si chiamavano, urlavano, spari, qualcuno si avvicinava al canneto. Entrai.

L’avevano ucciso, avevano ucciso mio padre? Stavo lì, mezzo piegato come se stessi cagando, e pensavo a tutte le cose che mi erano passate per la mente in quei mesi quando mi toccava sopportare le prediche di quel vecchio zoppo al quale ora stavano sparando. Trovavo sempre molto umiliante tutto questo obbedire senza poter dir la mia, mentre i miei coetanei erano sui monti a imbracciare il 91. Gregorio Sanderi, anni 21, studente di lettere a Genova, residente nei condotti perché saloini e nazisti gli danno la caccia. Saolini e tedeschi non sanno manco che esista un Gregorio Sanderi, ma lui ha la sfortuna di abitare a Sanremo, nido di teste calde, sfollati, renitenti di leva, profughi ebrei, e allora se danno la caccia a costoro, potrebbero mettere le mani pure su di lui. Evidentemente non era nemmeno questo (quanta gente scappava a schiena bassa in quel periodo o si infilava nei beudi), era che la mia vita l’avevo sempre lasciata decidere da quel padre che fra poco moriva. O era già morto.

Non sparavano più, ma gridavano ancora. I passi da intorno al canneto s’erano allontanati, ma non ne ero sicuro. Non ero più abituato ai rumori che non fossero rumori sotterranei, dopo un po’ che si sta in un beudo non si distinguono più le cose come una persona normale, ma come un grillo o una lumaca. E più passava il tempo, più ogni vibrazione si allontanava, più mi era chiaro che quell’uomo che non dava mai consigli, ma parlava come se la sua parola fosse legge, se n’era andato. E ci aveva sempre indovinato. Ci pensavo ora, che uscivo con la testa dalle canne e guardavo le montagne buie. Poi rientrai e prosegui nel folto, forse in una specie di solco di quelli che si fanno le bestie, le volpi e i tassi.

A un certo punto inciampai in qualcosa. Stoffa ruvida… Era il sacco. Doveva essere stato qui nel pomeriggio e aveva già portato il sacco, o era il sacco di stracci di qualcun altro che passava le notte nelle canne? Lo aprii, toccai. C’erano mele e stracci, e dal tatto riconobbi il giaccone di fustagno che avevo chiesto a mia madre di infilare nel sacco. Mi sedetti su una pietra e attesi.  Ora da qualche parte entrava uno sputo di luce di luna, o forse era il chiarore di colpi di mortaio. Arrivavano rimbombi, echi lontani. Un campanile suonò delle ore. Dopo un po’ davanti a quel chiarore passò qualcosa. Rumori che si avvicinavano come qualche ora prima. Era lui. Me lo disse per non spaventarmi. Io lo rassicurai, sapevo che era lui, dissi. A chi altri veniva in mente di entrare in certi posti, se non a lui e a me che dovevo ubbidire. Non parlare, disse, scemo. È possibile che sei sempre così scemo, non lo capisci che una parola si sente fin giù sul ponte? Taci allora, gli dissi. Il sacco, disse, l’ho portato io, è nostro. Di chi altri poteva essere, chi vuoi che venga qui, dissi di nuovo, a farsi sparare dai fascisti. Chi è furbo se ne sta nel Beudo della Crosa, che è bello asciutto, e stanotte dorme sul mio materasso. Non mi stava neanche a sentire, diceva che l’indomani si rompeva il tempo perché gli faceva male la gamba.

(questo racconto deliziosamente maglianesco uscirà su “Reportage”, n. 12, ottobre-dicembre 2012, in uscita la prossima settimana; l’immagine, scelta dall’autore: Farideh Farivar-Bölling, “der Ursprung”, alias “L’origine”)

 

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5 Commenti

  1. storie piene di luce sempre

    ci sono pennellate leggere e sfumate di sottotesto alla mera cronaca, come i due ragazzi con il manuale su come si costruiscono i trampoli che traballano l’uno verso l’altro senza parola, che finiscono per rivelare un senso interno e parallelo sulla scrittura e sullo stile.

    ,\\’

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giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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