Travestita estate

di Franz Krauspenhaar

Ci si avvicina alla fine del viaggio. Ma la fine è un traguardo, non una catastrofe. [George Sand.]

Questo caldo infernale mi spinge lentamente alle corde, una volta tanto vorrei camminare nella neve, nel nord della Svezia, e rischiare l’assideramento dentro una Volvo senza benzina… prima che arrivi una troupe di Discovery Channel a cercarmi con le prove di un tentato suicidio… ma no, tu dov’eri? Dov’eri quando cercavo di finire le mie pene il mio supplizio col tuo aiuto? Ti chiesi l’offerta della tua mano per tagliarmi le vene, che io non riuscivo a farlo nella solitudine delle ore ultime, e tu mi parlasti del bene della vita. Il perché, il percome, il persopraesotto. La statua di sale quanto basta, pepe macinato al momento. Ho deciso di raccontarti questa estate piena di vuoto, questo calvario sudato, come un sudario senza croci, ma spasmi di vuoto orticario… come? Credi che io stia poetando, con la ferocia dolce dei falliti che s’impennano come motociclette adolescenziali? No, l’ora della poesia l’ho trascorsa. Tornato alle più miti intenzioni della prosa, all’espressione giudiziosa delle frasi che proseguono con una certa libertà sul foglio, più piane, meno sinistre e gocciolanti e spasmodiche, m’inclino come un bombardiere di idee torride, e ti chiamo, ad ascoltare il mio racconto d’un’estate, quella appena svanita, nel vento della fine stagione, come svendita.
La pioggia ci fa dimenticare ogni calura. È la mano di bianco, o di spugna rigonfia, come fosse un disco volante senza peso, che diventa impossibile strizzarla. Ma quasi, sì, perché non si vede l’uscita da ciò che è stato, è sempre così, terreo. Col caldo montuoso sulle mani, i calli in salita, le vertebre semiesplose, così che la pelle raggiungeva la velocità di smembramento cellulare delle pustole, dimagrito come un avvoltoio della foresta indiana, ho nelle corde un grido grigio; è afoso come l’aria, riavvolge la nostra storia inenarrabile. È un foglio di carta velina usato per i giornali della notte, letti solo dai gufi universitari. Nascendo nella caduta, a fari spenti, l’auto della polizia del diavolo nelle mani Polistil, il ricordo di gavettoni nella militare abbondanza di camerate. Le masturbazioni spaziali di ragazzi degli anni Ottanta, al sapore di Cacharel, freddo e puntuale come un’esecuzione capitale. Schiaccio la sigaretta sotto il tappeto con le mani, è pesantissima, lo sforzo è quello del vogatore quando mi sposta sui remi. Così mi sfiora il pensiero di quei primi film di Pedro Almòdovar, complicati e inutili, con quelle donne passionali e nevrotiche più di quelle che avevamo conosciuto fin là, bocche da scarafaggi bianchi, e mi vien voglia di indossare quei vestiti da donna, di essere anzi una di quelle trans col naso grosso e lungarno puntato verso le camminate a tacchi spillati di quei giorni gloriosi. Voglio essere una lei e un lui, immembrati nello stesso corpo intenzionale. Non mi sembra una cosa strana, mi dici tu. No, è vero, ora noto che hai i baffi, giuro che non l’avevo mai notato, oh sei matto, mi dici, certo, dico io, sono matto e senza novità di rilievo, a parte quest’estate di travestimenti. Tutta? Chiedi; no, rispondo, ci sarà altro; l’estate è appena andata, è stata lunghissima, estenuante, critica. Impura. Sbattuta in prima pagina, e poi subito dopo asservita ai bagni reconditi, vicino alle docce, armati di guanto adesivo alla mano mortuaria, il guanto-doccia della Postalmarket acquistato nell’86. Dura ancora, il reperto, come sa bene il bagnino Alferne, dei Bagni Poulidor di San Sezze al Terano. Una plage chassidica quasi, con nerofumi di grinzosissime paratie scoglianti su per il budello del colon costiero. Un belinante “Alfredoalfredo” modello Pietro Germi, ma più strizzato nel bodydouble briandepalmico. In ogni senso, dopo quella settimana nell’antimitica San Sezze, ero avvinto alla noia come nelle stolide cassamortuarie anulariche raccorditrici condutture asfaltiche di Roma. Ho vissuto per cent’anni e tre quarti alla Magliana, con la banda a suonare il rock duro pesto e tutto il clangorico scazzonato a base ritmica. Uno sgrillamento di potenza monetaria che letteratura cinema e tv hanno reso noto al granpubblico. Sezze, San Sezze per i cristiani, Sezze-San per gli orientalisti, Sezze upon Thames per gli anglofili, è un borghetuccio impiantato sulla lito verso la coté sudica, passando di appena pelo Formia, così che si napoletanizza tutto il discorso dei parlanti. Una settimana di pesce al sangue, di carne al brucio, di labbra sorte dal nulla di una cannuccia, impiantata come ombrellone miniaturizzato nel limone spremuto di una tonica Schweitzer, abbandonata nella truce calura. Me ne sono andato in prima istanza pensando a nuovi traguardi della menta aerosol, ma il fresco era chimera plena, dunque bisognava andare lontano, verso il nord. Ma lontano, perché? Avevo davvero voglia di urticarmi le salivanti, la memoria sbianchita, la potenza erotique? No e no. Allora tornare a Roma fu naturale conclusione, come vedi. Già, dici tu, sei pigro da fare schifo, si sa. No, che dici, non sono pigro, sono uno che si dà da fare da troppi anni, usurato come un vecchio albero motore; ergo, urgo revisione. Comunque pure in spiaggia avevo notato la bicicletta di Moran, il passo stracco di Gaber, Belacqua coi suoi studi danteschi sotto l’ombrellone, e l’aragosta di Dante sotto l’ascella, tornando al bungalow, come una baguette mezza viva. E l’Innominabile, così deciso a non dirsi nessuno, con Moran che gli reggeva il gioco, e di conseguenza il poker notturno, mentre quell’altro irlandese, alto e coi capelli bianchi, la faccia da marinaio di Moby Dick, insomma del Pequod, scavata da fosse ecologiche di pelle e gli occhi di ruscello tondo che mulinava su se stesso, occhi vertigo blu, che si chiamava Beckett, ed era lo psichiatra di tutti quei matti irlandesi che avevano preso posto nei bungalow sulla spiaggia, miei vicini di strazio caldissimo; e a volte ci si ritrovava nell’afa della notte a parlare di calcio, di Stanley Matthews, e soprattutto del loro idolo, George Best, tutti morti, come peraltro morto mi sembrava il Beckett, anche se a tutti gli effetti era proclamato vivo soprattutto dal suo muoversi pacato per la spiaggia alla ricerca di lumache (sono conchiglie, Mr. Beckett, conchiglie!) lo redarguivo; e lui mi concedeva quel suo sorriso che mi dissero rarissimo, giusto perché in me aveva trovato un vero interlocutore, forse un Malone che vive, che dunque, se non è zuppa è pan bagnato, non muore più, che vive e sta bene; e nonostante le sofferenze della calura riesce ancora a girare con una polo Ralph Lauren blu, mentre lui e tutti gli altri irlandesi della sua comitiva vanno in giro mezzi nudi anche per San Sezze, al mercato di San Sicario, davanti al municipio, di fronte alle donne grasse del paese, ciccione da film di Anthony Minghella, che girano le teste dall’altra parte, e girano praticamente nudi, coi ciondoli del viro all flesh in evidence, megagalattici, ubriachi di Nastro Azzurro già alle dieci antimeridiane e che dio ci aiuti. La notte, la comitiva di irlandesi si disperde nelle fosse biologiche della spiaggia, Moran batte un bastone contro una vecchia barca dipinta di biancazzurro con la scritta “Forza Lazio”, Molloy fa delle inalazioni dentro a un castello di sabbia, tirando la polvere del mare divenuto nerastro. Io e Beckett ci raccontiamo un sacco di cose, i piedi a tuffo nel mare, seduti sulle conchiglie , le sigarette inglesi London Prick accese contro il nero d’ardesia della notte. E’ un uomo interessante Beckett, mi racconta la sua vita con poche infingarde parole; mentre lavorava come lettore di inglese all’École Normale Supérieure di Parigi, venne messo in contatto con James Joyce grazie all’amico comune Thomas McGreevy. Tra loro, anche questo Joyce era irlandese e forse famoso, iniziò una lunga e tormentata amicizia. Durante l’estate di un anno che il mio nuovo amico non è in grado di ricordare è a Kassel, dagli zii Sinclair, e coglie l’occasione per rompere con Peggy. Nel frattempo Lucia, la figlia di James Joyce, si innamora perdutamente di lui, creando non pochi problemi diplomatici al giovane Beckett, che non ha alcuna intenzione di corrispondere. Com’era questa Lucia? Gli chiedo. Non male, risponde lui. E allora perché non ci sei stato? MI guarda come se fossi un animale, che per un attimo soltanto ha emesso i rari suoni del linguaggio degli umani. Mi piacerebbe vedere la faccia di Lucia Joyce, chiedo a Moran il giorno dopo; lui mi dice: bella ragazza la Lucia, mai capito Beckett con le donne, io le avrei dato la spettanza senza problemi, e si mette a ridacchiare e accende una sigaretta, una King George. Il caldo è terribile. Beckett mi sfugge, come gli altri. Hanno trovato altro da fare, ma non capisco cosa. Beh, dici tu, cosa vuoi che facevano, avranno trovato delle donne, oppure erano in quel buco per spacciare cocaina nascondendola nella sabbia della spiaggia. Mi metto a ridere, tu non capirai mai, non saprai e non capirai mai. Il caldo e la solitudine m’invadono come invase la grande truppa la Normandia, Beckett e i suoi strambi amici a un tratto spariscono senza nemmeno salutare, la spiaggia si svuota quasi del tutto, sono riempito soltanto di un caldo insopportabile e di un paio di scottature color rosso uovo sodomizzato. Così torno qui. La mia idea di travestirmi da trans di un film di Almòdovar prende straordinario piede polifemico. Buttato sul letto, nudo come un vermiciattolo verde bottiglia Folonarifernet, organizzo la mia fuga nel femminile. Voglio fuggire con una donna, ma quella donna voglio essere io. Voglio stare nel mio stesso desiderio, voglio esserlo. Voglio accarezzarmi come fossi un altro che accarezza non me, ma una donna vera, una che desidero anch’io.
Belle pretese, tu dici, e spegni per sempre l’aria condizionata Daitan Drei, che si spande come crema cioccolatosa Piemonte Brand. E’ settembre e l’ora è di migrazione dell’aria verso soffi freschi, dopo il momento climaticamente più osceno arriva quello più bello. E allora cosa hai fatto? Chiedi; e io, beh, da quando mia moglie è morta ho in serbo i suoi vestiti, non li butto per questioni di ricordi felici o roba simile, anche quando felici essi non lo erano per nulla, ma non mi fa cuore di buttarli, o di regalarli ai fratonzoli, i quali a loro volta li regaleranno a una scimmia o a una zingara storpia, a una straniera con le croste di bachelite agli inguini. No, con tutto il rispetto per le etnie dilaganti e l’equo e il solidale e le bandiere delle stupinigi della terra. Poi penso ai film dello spagnolo omo, ne rivedo un paio in streaming, mi rendo conto che sono da farsi anche in rappresentazione solo le donne, non i maschi bosesiani, per dire. A Bosè Miguel sostituire con Victoria Abril. O le altre, compresa la nasona che sembrava pervenuta da un Fellini dell’ultima frontiera erotica, tra Poe e il bordellaro. Le donne, le donne, o mia moglie. Mi travesto da lei, vado in giro come lei, con quegli abitini a fiori, e m’entrano miracolosamente tutti, che era una marcantonia saporosa, m’entrano e però non m’escono, che l’uscita del capovestiario è sempre più affare difficile per le taglie più forti. Mia moglie tu lo sai era una manza vera, giunonica e marziale proletaria dalle spalle larghe alta un metro e 83, gambe fortissime da squat, ex campionessa di nuoto sincronizzato. Lei era tutta la mia vita e anche quest’altra, questa post, quest’assurdo monitoraggio di giornate e nottate una più indivisibile dall’altra, incollate in una sequenza senza scampo e senza piano. Così, sai, alla fine cosa poteva esserci di meglio per vincere l’agosto turbativo che vestirsi e truccarsi da lei e andare in giro e fare e disfare per vincere la calura? Essere un altro, e precisamente la propria vita romantica incarnata nell’altro, quest’altro che ci pareva invincibile e che invece abbiamo perduto per sempre?
Vedi, con travestitismo, o feticismo di travestimento, si fa riferimento a un’eccitazione sessuale ricorrente e intensa, derivante dall’indossare abbigliamento del sesso opposto. La portata del travestitismo può variare dall’indossare biancheria femminile sotto un abbigliamento maschile convenzionale, fino a un totale cross-dressing. Bravo, mi dici, figurati, io dico. E che sono problemi grossi col cross-dressing, credimi; ci credo, dici tu. Beh, meno male, dico io; davvero, ho a cuore la tua storia, dici tu; che fai, ne scrivi un saggio? Non sono uno scrittore, grazie a dio, dici tu; ah sì, dico io, non essere scrittori in questo paese è una salvezza rara, siamo dei privilegiati a non scrivere, perlomeno non per essere pubblicati. Niente racconti, poesie, saggi. Nemmeno io, dici tu, mai scritto neanche una rigo a scopo per così dire artistico, ne sono orgoglioso. Anch’io, dico io. Comunque alcuni, che impersonano ruoli femminili, si esibiscono in locali notturni, parlo ovviamente, ma non troppo, dei travestiti, non degli scrittori. Certo, dici tu, ovviamente: ma non troppo. Tuttavia, a meno che il travestimento non sia associato con l’eccitazione sessuale, questi intrattenitori non soddisfano i criteri per il feticismo di travestimento. Il travestitismo, inoltre, non deve essere confuso con il cross-dressing associato al disturbo dell’identità di genere. Infatti, benché spesso si vestano con abiti tipici dell’altro sesso, e possano persino riferire di provare disagio per certi aspetti della loro mascolinità, gli uomini con travestitismo non identificano se stessi quali membri del sesso opposto. Tanto e vero che quando indossavo gli abitini della mia defunta moglie io non mi identificavo né con lei né con altre, sapevo bene chi ero e la mia identificazione stava sempre dentro di me, maschia e vigile: però allo stesso tempo sentivo lei avvolgermi proprio coi suoi vestiti; quel cotone, quel raso, le scarpe alte che mi portavano a superare il metro e 90, mi facevano sentire abbracciato da lei come se fosse stata una profumo resuscitato, una canzone, un fascio di rose rosse, un ballo sinuoso, come quello di Rita Hayworth in Gilda. Camminavo per la nostra Roma caldissima e stanca, tra grappoli e pustole e nei e minitumori di turisti in formazione balorda, e passavo ogni tanto le mani sudaticce sui miei fianchi, come a controllare che lei ci fosse ancora, che stesse ancora attorno e dentro di me. Mi ero messo una parrucca perfetta quanto basta o q.b., di quel nero lucido che simulava in terital la cascata zampillante dei capelli neri di lei, così setosi e compatti, che ti veniva voglia, sempre, di immergerti con tutta la tua voglia e il tuo amore in quel tardonaturalismo di tessuto. Di solito, lo sai, il travestitismo inizia con travestimenti parziali nell’infanzia o nell’adolescenza, ma a me non successe, cominciò tutto in quest’estate fangosa. (Sempre maschi, in massima parte si travestono in maniera episodica piuttosto che con regolarità.) Per il resto essi tendono a essere mascolini nell’aspetto e nei modi di fare. Molti sono sposati e conducono un’esistenza convenzionale sotto tutti gli altri aspetti. Di solito il travestitismo avviene in segreto. Gli uomini che agiscono il loro feticismo di travestimento possono sentirsi in colpa o provare vergogna per il loro comportamento, e talvolta celano per anni i propri impulsi alle mogli. (Ma questo a me non era mai successo, la voglia quasi brutale di travestirmi da lei era venuta ora, improvvisa e irresistibile, ben dopo la sua uscita di scena.)
Nella pace mortuaria di Villa Borghese, nelle orecchie I pini di Roma del meraviglioso Respighi, me la giro e rigiro, in un caldo mulinante, undercovered. Lucciole spegni e spagni si fanno avanti, mi prendono da lontano per una collega runaway; poi da centimetri di spazio pelle a pelle mi vedono maschione, sono esperte del rilevamento, ahò ma puro li travestiti mo’? ma vedi d’annattene! Sono incavolate al cubo crociato, ne ho paura, sono tante, quasi tutte export virginia, tra negraccione e immacolate albaniert, rumene spallate. A parte le negre o nere a seconda del grado di conoscenza lingua italiana e spartiti musicali e non dell’opportunismo linguistico, che sono dei Guzzi Falcone dopo una passata dal carrozziere dei motocarri, le altre sono valide per il brumbrum ficarolo; tu sais mon ami, saranno disperate e pure stomp, ma son giovani quasi tutte e comunque non sono da buttare nell’umido della differenziata, anzi ti dico che se togli loro il bellettame e il vestito volgarone possono passare, stando mute, per la tua signora… Ah certo, dici tu, bravo bravo bravo, adesso andiamo anche a offendere, la mia signora puoi anche non nominarla, va bene uguale, ecco, sì. Scusa, dico io, scusa davvero. Guardo fuori dalla finestra, piove. L’estate ci ha lasciati da tempo. Basta coi vecchi ricordi, dico. Mentre tu mi saluti ed esci, e io sono sgravato del peso di un segreto, vado con calma verso l’armadio lasciato aperto della mia signora e scovo gli abiti autunnali. Comincio ad accarezzarli ancora dentro, in fila; la voglia è diventata forte di nuovo, forse stasera riprendo.

[pubblicato su Achab – scritture solide in transito – rivista letteraria diretta da Nando Vitali, numero 1 (1 gennaio 2013)]

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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