Alcune poesie di Seamus Heaney

trad. di Erminia Passannanti

 

heaney

 

 

 

 

SCAVANDO

Tra il mio pollice e l’indice
sta la comoda penna, salda come una rivoltella.
Sotto la finestra, un suono chiaro e graffiante
all’affondare della vanga nel terreno ghiaioso:
è mio padre che scava. Guardo dabbasso
finché la sua schiena piegata tra le aiuole
non si china e si rialza come vent’anni fa
ritmicamente tra i solchi di patate
dove andava scavando.

Con lo stivale tozzo accoccolato sulla staffa, il manico
contro l’interno del ginocchio sollevato con fermezza,
sradicava alte cime e affondava la lama splendente
per dissotterrare le patate novelle che noi raccoglievamo
amandone tra le mani la fresca durezza.
Il mio vecchio potrebbe impugnare una vanga presso Dio,
proprio come il suo vecchio.

Mio nonno estraeva più torba in un giorno
di qualsiasi altro uomo su, alla palude Toner.
Una volta gli portai del latte in una bottiglia
turata alla meglio con un pezzo di carta. Si raddrizzò
e lo bevve, poi subito riprese a lavorare
intaccando e dividendo, mentre con piote
sulle spalle andava sempre più a fondo
in cerca di buona torba. Scavando.

L’odore freddo dei solchi di patate, il tonfo
e lo schiaffo dell’umida torba, i tagli netti di una lama
tra le radici vive si destano nella mia memoria.
Ma non ho una vanga per succedere a uomini come loro.
Tra il mio pollice e l’indice
sta comoda la penna. Scaverò con quella.

* * *

PUNIZIONE

Sento la tensione
del capestro alla sua nuca,
il vento contro il petto
nudo.
Rende i suoi capezzoli
perle d’ambra,
scuote la fragile struttura
delle sue costole.

Vedo il suo corpo annegato
nella palude,
la pesante pietra,
i rametti e i fuscelli galleggianti,
sotto cui dapprima
era un arboscello scortecciato
estratto dalla melma –
ossa di quercia, cervello a barilotto,
la testa rasata
simile a stoppia di granturco,
gli occhi bendati da un lino lercio,
il cappio un anello
per cingere le memorie
dell’amore.

Piccola adultera,
prima che ti punissero
avevi capelli biondi come l’oro,
eri denutrita e la tua faccia
imbrattata di pece era bellissima.

Mia povera vittima,
quasi ti amo,
ma avrei scagliato, lo so,
la pietra del silenzio.
Io sono l’abile voyeur
delle onde scurite ed esposte
del tuo cervello, del tessuto
ritorto dei tuoi muscoli
e di tutte le tue ossa numerate,

io che ristetti ammutolito
quando le tue sorelle traditrici
imbrattate di pece
piansero presso il cancello,
io che sarei stato complice
dell’oltraggio civilizzato,
capisco tuttavia l’esatta, tribale
ed intima vendetta.

* * *

CONSANGUINEITÀ

I

Apparentato da torba
geroglifica su un campo d’erba
alla vittima strangolata,
il nido d’amore tra le felci,
vado tra le origini
come un cane che rigira
sullo zerbino della cucina
le sue memorie d’una landa selvatica:
il fondo della palude trema,
l’acqua ha un fruscio e mormora
mentre discendo tra macchie
di festuca ed erica.

Amo questo volto erboso,
le sue nere incisioni,
I segreti celati
dei processi e dei riti.
Amo la primavera
fuori dalla terra,
ciascun argine un trabocchetto
patibolare, ciascuno specchio d’acqua
l’imboccatura disostruita
di un’urna, bevitore di luna
da non sondare
ad occhio nudo.

II

Pantano, acquitrino, palude:
I regni del limo,
domìni di esseri a sangue freddo,
di zampe infangate ed uova sudicie.

Soltanto bog,
che significa soffice
caduta di piogge senza vento,
pupilla d’ambra.
Suolo ruminante,
digestione di molluschi
e semi di baccello,
profonda stagna di polline.

Dispensa di terra, volta ossea,
sponda del sole, imbalsamatrice
di offerte votive
e fuggiaschi colpiti a sciabolate.

Sposa insaziabile.
Mangiatrice di spade,
scrigno, mucchio di letame,
banchisa di storia.
Suolo che metterà a nudo
il suo lato oscuro,
suolo che nidifica,
entroterra della mia mente.

III

Trovai una vanga
nascosta tra le felci,
distesa orizzontalmente
e ricoperta di una bruma verde.

Nel sollevarla,
i lembi dell’escrescenza
mormorarono e si lacerarono,
un solco bronzeo
s’aprì ai miei piedi
come pelle disfatta,
l’umido manico
che avevo conficcato nella terra
prese ad evaporare
al sole.

Ed ora hanno appaiato
quell’obelisco:
tra assi,
sotto un tumulo d’erba,
un nido d’amore viene violato,
fiori di betulla e cotone d’acquitrino
si scuotono mentre sollevano
il braccio biforcuto della quercia.
Sto al margine dei secoli
di fronte a una dea.

IV

Il centro resiste
e si dilata,
pozza e campo di semina,
sacca d’acqua
e sepolcro che si liquefa.

Le madri dell’autunno
inacidiscono e sprofondano,
fermenti di gusci e foglie
incupiscono le loro tinte ocra,
i muschi raggiungono l’apice,
l’erica lascia cadere i semi,
le felci depositano
il loro bronzo.

Questa è al vocale della terra
che sogna le proprie radici
nei fiori e nella neve,
le variazioni di clima
e di stagione,
una manna che compone
il letto in cui imputridisce.
Spuntai da tutto questo
come un salice piangente,
incline
agli appetiti di gravità.

V

La mano scolpì i gavelli
delle ruote del carro
sepolto in uno strame
di fanghiglia erbosa,
l’arco di cupido
della ribalta,
i bordi cavi
delle rastrelliere:
deificai l’uomo
che l’aveva guidato,
il dio carrettiere,
colui che alimentava il focolare.

Ero il suo attendente
privilegiato, un latore
di pane e acqua, il signorotto
di campagna del suo circondario.
Quando l’esatte si spense,
e le mogli abbandonarono i campi,
eravamo all’estero, bene accolti,
forniti di un salvacondotto.
Guarda i nostri progressi
laggiù nella siepe accesa di bacche,
il mio orgoglio di maschio
quando egli mi si rivolge.

VI

E tu, Tacito, osserva
come preparo il mio vivaio
lassù nella casa lacustre
ammassata dai terribili morti:
una pace desolata.

La nostra madre terra
è acre del sangue
dei suoi fedeli;
giacciono, gargarizzando
nel suo sacro cuore,
mentre le legioni stanno a guardare
dai bastioni fortificati.

Ritorna a questa
“isola dell’oceano”
dove niente sarà mai adeguato.
Interpreta i volti delle vittime
inumati dalla casualità,
e racconta di noi con lealtà,
di come sgozzavamo
per il bene comune,
e rasavamo la testa
agli infami,

di come la dea inghiottisce
il nostro amore, il nostro terrore.

(Dalla selezione di 12 poesie di Seamus Heaney, in Gli Uomini sono una Beffa degli Angeli. Poesia Britannica Contemporanea, Per la traduzione e cura di Erminia Passannanti, Introduzione di Blake Morrison, Ripostes, 1994. Ripubblicate in Linea D’Ombra. Quindi incluse nella raccolta Seamus Heaney, Poesie Scelte, Trad. e cura Erminia Passannanti, Brindin Press, Salisbury, 2009, 2013.)

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6 Commenti

  1. Meravigliose. Sembra un Neruda e un Pavese anglosassone, un Omero moderno. La traduzione è straordinaria.

  2. con tutto il rispetto io temo che i premi nobel non valgano molti poeti misconosciuti,salvo rare eccezioni(ma tranquilli,il mio giudizio,benchè coincida con quello di molti,e sto pensando per esempio a Piliph Roth, lascia il tempo che trova.Io tendo pure a sottovalutare il Pasolini poeta.Ok,e adesso portatemi pure al patibolo,o al bar. Fate vobis

    http://www.youtube.com/watch?v=n3ZfnyVP6aU

    p.s. http://www.eventiesagre.it/images/upload/image/2012/culturali/veneto/giugno/margherita-hack-_occhiolino.jpg

  3. “Tra il mio pollice e l’indice / sta comoda la penna. Scaverò con quella.” Sono versi, questi, che non solo bene illustrano la poetica di Heaney ma anche l’attento approccio al testo poetico e al suo linguaggio che emerge nella pregiata traduzione di queste poesie. Davvero ammirevole lo scavare della traduttrice nel testo e nel linguaggio per poi (ri)creare entrambi con intensa e lucida sensibilità poetica. Un lavoro straordinario che rende fruibile anche in italiano (e splendidi) i testi del poeta irlandese.

  4. Che i computer tacciono per sempre il chiacchiericcio,
    le morte di un poeta è il benestare della parola,
    e se in croce balbetta un’afasia disumana
    i necrologi in cenere non hanno storia!
    Ebbene, io lo conobbi tra paludi e acquitrini,
    tra le vanghe azzoppate dalla roccia
    in quel letame d’antrace, in quell’asfalto dissestato
    da lamiere in fiamme, in quella torba che fu il cibo
    dei suoi antenati che del diritto non avevano una idea
    razionale poi che i crani erano i loro vasellami…
    e sei morto lasciandoci il peloso belato in bocca
    e da mangiare patate marce, che i tuoi padri per non morire
    divorarono… vedi, ora sei parte delle leggende giovani
    e presto anche i miei versi ti seguiranno.
    antonio sagredo

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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