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Ricotta calda

di Margherita Carbonaro

RICOTTA

Questa sera andiamo a mangiare la ricotta all’agriturismo. La ricotta calda che evoca memorie di masserie antiche in mezzo ai carrubi e di massari con le mani callose. Per chi è troppo giovane per ricordare le mani callose dei massari, che ormai non ci sono più, evoca pure memorie di agriturismo.
Per andare a mangiare la ricotta calda bisogna compiere innanzitutto esercitazioni complicatissime di geometria pratica. Far sgusciare cioè le macchine, l’una dopo l’altra, fuori dalla stradina di questo nostro villaggio di cemento d’annata stretto fra la provinciale e il mare. Regolano il parcheggio consuetudini di occupazione del suolo antiche quasi quanto le mani callose dei massari. L’intruso venuto da fuori è sempre un nemico pronto a minacciare diritti acquisiti per lunga e faticosa usucapione. E il suolo sono pochi metri quadrati di cemento dove si è coltivata l’arte del parcheggio in tripla fila, per lungo e per largo, in uno spazio dove in altre latitudini un ciclista faticherebbe a trovare spazio per la sua bicicletta. Qui ci si sfiora a marcia indietro e a specchietti rincagnati sul corpo delle lamiere, ci si intende a mezze occhiate sulle precedenze, si azzardano serpentine mai viste. Ma un parcheggio, pur sempre, con vista sul mare.
Alle otto meno venti, orario un po’ astruso per un appuntamento da queste parti, siamo in men che metà. Ma l’uno dopo l’altro ci riuniamo, uomini e donne, vecchi e bambini, e un assortimento ben cadenzato e apparentato di tutte le età di mezzo. Andiamo a mangiare ricotta. .
Ma tu Margherita l’hai mai mangiata la ricotta calda? – mi chiede Maria moglie di Carluccio fratello di Giovannella moglie di Carlo cugino di mio padre Corrado.
Credo di averla mangiata una volta da uno degli ultimi massari dalle mani callose, rispondo. – Poi, l’ho mangiata all’agriturismo.
Per andare a mangiare la ricotta calda all’agriturismo, chi può indossare brillantini sui vestiti li indossa. Chi di statura è un po’ bassa, porta vertiginosi tacchi. Io non ho tacchi né brillantini sul vestito, ma un braccialetto fatto di molte file di perline luccicanti. Comprato in un negozio della catena tedesca di bigiotteria Brigitte Bijoux. Quando l’ho visto, il suo luccichio combaciava col mio umore. O meglio con l’umore in cui avrei voluto essere allora e con quello in cui desidererei essere stasera. Ma a quest’ora astrusa brillantini e luccichini sono spenti. La luce è spossata, sta a pancia all’aria sperando in un po’ di frescura. Non ha la forza di far luccicare.

Partiamo. In carovana, partiamo.
Alla testa della carovana, dove mi trovo anch’io, un pigolio ci accompagna. È l’attacco della cintura di sicurezza al posto del guidatore. Pigola inutilmente per una decina di minuti, poi il dente di metallo si rassegna e tace. Mentre il dente di metallo prima pigola e poi si azzittisce, noi strette sul sedile di dietro guardiamo fotografie sui cellulari, commentiamo somiglianze di bambini con i precedenti gradini della stirpe. La piccola Federica, due anni non ancora compiuti, porge raggiante il cellulare che tiene al rovescio puntandolo in direzione dell’una o dell’altra di noi. I cellulari sono cataloghi di genealogie portatili.
Prima di arrivare all’agriturismo ci fermiamo ancora per un pezzo al bordo della strada. In carovana, aspettiamo gli amici non apparentati che avrebbero dovuto raggiungerci lì e che non arrivano. Staffette corrono da una macchina all’altra, perché solo il capocarovana conosce le mappe del cielo. Altre macchine ci corrono accanto, ci sfiorano. Aspettiamo. Poi finalmente, in carovana, all’improvviso ripartiamo. Giriamo, curviamo, ci addentriamo nelle campagne di muri a secco, ulivi, carrubi e stracciata plastica di serre. Giriamo e curviamo fino a perdere ogni orientamento. Finché in un angolo nascosto del disorientamento si apre uno spiazzo di terra battuta, compare un parallelepipedo corpulento ma modesto, e una vasta gettata di cemento con una lunghissima tavola coperta di tovaglie bianche: l’agriturismo.
Mettendo piede fuori dalle macchine, come una mente sola tutti pensiamo: Ah, la pace della campagna.
E prima di sederci al tavolo ci sparpagliamo alle spalle del parallelepipedo per godere la pace davanti ai polli e alle vacche. I cellulari fotografano ombre di polli in un pollaio dove già è calato il buio e piccole vacche marroni in un imbrunire senza vigore. I bambini sono felici. E anche noi.
I brillantini e i luccichini si accendono quando ci sediamo al lungo tavolo con la tovaglia bianca. La ricotta calda viene servita in piatti fondi e si mangia con il cucchiaio. È morbida ma compatta, salata, e nuota bianca nel suo siero biancogiallognolo. La ricotta calda si mangia con il siero e il pane di casa.
Ma tu Margherita l’hai mai mangiata la ricotta calda con il siero? – mi chiede Lucia del gruppo degli amici non apparentati.
Ma quanto è buona la ricotta calda – esclama Anna, sorella di Lucia, con un gridolino entusiasta che sa di latte cagliato. – Sessant’anni che non la mangiavo.
Buona. Buona. Buona: ripete ogni piatto e ogni cucchiaio.
Sessant’anni, ripete Anna.
Buona, così: con il siero e il pane.
È bastato sederci al lungo tavolo apparecchiato per venticinque, parenti e non apparentati, che è calato il buio. Non l’ho neppure visto calare. Qui, così a sud, il giorno diventa notte nel tempo di una cucchiaiata di ricotta calda.
La ricotta che un tempo, al tempo dei massari dalle mani callose, si metteva in contenitori tondi e oblunghi fatti di canne che si chiamavano cavagni.
E lo sapete come si chiamavano le spatole per mettere la ricotta nei cavagni? – chiede Carluccio zio di Natalia mia seconda cugina.
Silenzio.
Cazzate si chiamavano, dice Carluccio. I cazzate.
Risate.
Cazzate. Ridiamo. Mangiamo. Nel buio acceso di brillantini ci fotografiamo. I cellulari sono cataloghi di genealogie portatili.
Dopo la ricotta arrivano scacce con ricotta e salsiccia o con pomodoro e petrosino. E poi pane cunzato, caciocavallo e tuma.
Ma tu Margherita l’hai mai mangiata la tuma? – mi chiede Rossella cugina di Giovannella moglie di Carlo cugino di mio padre Corrado.
A me la tuma non piace, sembra gomma – commenta Leandro marito di Rossella.
A me invece sì – rispondo io. – Perché la faceva mia nonna a Milano.
In realtà non la faceva lei, ma Tatà. Tatà era entrata da bambina in casa di mia nonna Margherita, e quando lei si sposò la seguì nella nuova casa. Quando i miei nonni e mio padre si trasferirono a Milano, Tatà li seguì. Era analfabeta. E quando io ero in prima elementare e avevo appena imparato la zeta volli insegnarle a scrivere. Tatà tracciava sul quaderno le sue lettere per affetto verso la bambina, ma di imparare a scrivere non le importava niente. Sicuramente disimparò in fretta le sue lettere. A Milano però faceva scacce e tuma, la gelatina modicana di maiale e anche la salsiccia con il finocchietto. Mia nonna Margherita ordinava apposta i budelli dal macellaio.
Mentre io parlo Lucia sussulta. Mi conosce soltanto per nome, e nel racconto ho lasciato scivolare a un certo punto il mio cognome.
Ma allora tuo nonno faceva il notaio a Pozzallo e mia madre lavorava da lui – dice Lucia.
La guardo perplessa. No, a quanto ne so mio nonno non ha mai fatto il notaio. Era giudice.
Ma sì, mio nonno Santino che faceva il notaio a Pozzallo – dice Adriana cugina di mio padre.
Allora il mio bisnonno che faceva… – riprendo io.
Sì, mio nonno Santino – ripete Adriana.
Allora il mio bisnonno Santino…
Ma Lucia è già felice così. – E lo sai che il tuo bisnonno fu anche galeotto? – dice. – Mia madre conobbe mio padre nel suo studio.
Galeotto fu dunque il notaio Santino, padre di Guido mio nonno. Santino che faceva il notaio a Pozzallo quando i pianterreni della case erano anche stalle. E le case con un piano al di sopra del terreno, o senza stalla, erano poche.
Ma se Santino propiziò quelle nozze, allora un legame c’è pure fra di noi, penso guardando Lucia e forse qualcosa di simile pensa anche lei. Al tavolo della ricotta ci ritroviamo affratellate all’improvviso dalla memoria di un notaio galeotto.
Ci siamo tutti. Fra scacce, ricotta e tuma.
La padrona dell’agriturismo racconta che proprio qui vicino, a poche decine di metri da qui è stabilito che passerà l’autostrada, la Siracusa-Gela in costruzione da più di trent’anni.
Quando a qualcuno fa comodo mangiarci qualcosa o se un piccolo mafioso deve allargarsi la villa, l’autostrada va avanti di un pezzo – dice Peppe marito di Emanuela mia seconda cugina.
La padrona dell’agriturismo gira piano lo sguardo verso il buio. Nei suoi occhi acquosi c’è già una malinconia di raffiche di polvere lungo i bordi di un’autostrada.
China ai bordi dello spiazzo di cemento, ai confini del buio la piccola Federica, due anni, sta rimettendo una poltiglia bianca. Ora si rialza. Un brillantino luccica un istante sul vestito. Federica porta la mano al petto e con le piccole dita protegge il brillantino.

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2 Commenti

  1. Grazie di questo testo, mi è molto piaciuto. Non sapevo che la ricotta si poteva mangiare calda…mentre leggevo un po’ mi sembrava essere là. Grazie a Margherita per averlo scritto e a Helena per averlo condiviso!

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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