Young Adult o la nostalgia della semplificazione

di Giovanni De Feo

Drooker_New-Yorker-cover_World-of-BooksAlcuni giorni fa la rivista New Yorker[1] ha pubblicato un articolo sugli Young Adult, ovvero i libri per Giovani Adulti, categoria di marketing ormai divenuta genere letterario. L’articolista, Christopher Beha, polemizza proprio su questo passaggio da marketing a critica letteraria. Se infatti pare lecito che un editore ‘bolli’ per ragioni commerciali un romanzo come Y.A., non altrettanto quando un romanzo viene scritto avendo come scopo una semplificazione premeditata per adulti. Attaccando l’ultimo Y.A. di successo Beha chiude così: “Nessun personaggio di quel romanzo sembra vivo in modo significativo. L’immagine che comunica della vita è così falsa che sembra creata apposta per piacere a qualcuno che non ha vissuto molto, e che quindi non può rendersi conto della differenza”.

Ciò su cui mi vorrei concentrare qui non è tanto la legittimità di questa etichetta quanto la sua effettiva “readership”, ovvero i consumatori ideali di questi romanzi. In particolar modo vorrei riflettere sugli adulti che leggono ‘storie di magia’ o storie fantastiche, ovvero quelle che hanno al loro centro un mondo che non risponde alle leggi del nostro. Mi rendo conto che tali storie non esauriscono tutta la fetta dei Y.A., ma trovo significativo che ne costituiscano tuttavia una parte consistente.

Partirò da una constatazione, non mia ma di Tolkien[2], ovvero che un bambino piccolo non ha particolari necessità di ascoltare storie di porte magiche, per la semplice ragione che per lui ogni porta è magica. Cerchiamo di sintetizzare questo stato di conoscenza. Quando si è piccoli il mondo esterno risponde a un quesito metafisico. Una porta, che agli occhi di un adulto è solo un pezzo di legno in un muro, può divenire di volta in volta un’apertura che cancella le persone, apre strade che conducono a mondi lontani, chiude possibilità che mai si ripresenteranno. Questa è la realtà metafisica di ogni porta, il suo orizzonte di possibilità. E se questo avviene con un manufatto umano, figuriamoci con albero, un ruscello, un prato. Tale commistione di mondo interiore e mondo metafisico ha un nome.  Osservate un bambino quando è al massimo livello di attenzione. Sopracciglia alzate, occhi ben aperti, bocca semi spalancata. Sono i marcatori di quello che in un adulto chiamiamo sorpresa, stupore. Lo stato con cui un bambino conosce le prime cose è la meraviglia, e in particolar modo la meraviglia davanti al mistero.

Ciò comincia a cambiare nell’età in cui la compenetrazione tra cosmo e mondo personale, tra mente e mondo, comincia a venir meno. Quando questa plasticità viene meno, in alcuni adulti scatta un meccanismo regressivo. Non si cerca più la meraviglia, ci si accontenta della nostalgia della meraviglia.

Pure non tutti gli adulti sono uguali, e così non tutti gli aneliti all’incanto. Per amor di gioco creeremo perciò anche noi le nostre sigle: i Q-A (Quasi Adulti); e i M-A (i Mezzi Adulti). Chiameremo Quasi Adulti quelli che mantengono un rapporto plastico con la realtà. Essi amano la letteratura dell’immaginario perché la compenetrazione tra immaginazione e mondo è parte del loro modo di esperire la vita.

I Mezzi Adulti sono invece i ‘target’ dei libri Y.A: tanto i Quarantenni infantili che i Sedicenni adultizzati. Questi ultimi non hanno più nessun accesso diretto con quella plasticità mondo-mente; ne conservano solo il ricordo. Proprio per questo essi devono riceverlo dall’esterno in forme via via sempre più semplificate, a secondo di quanto è limitata o deteriorata la loro sensibilità originaria.

A semplificarsi non è solo il contenuto, ma spesso anche il medium che lo veicola. Il M-A preferirà il film al fumetto, il fumetto al romanzo, il best seller ai classici, il classico all’epica, e via dicendo. Con questo non si vuole dire che il cinema sia intrinsecamente più semplice: ma è intrinsecamente meno collaborativo, richiedendo uno sforzo minore della lettura. Almeno nella sua versione spettacolare.

Facendo un esempio concreto: mi chiedo quanti di quelli che sostengono di amare Tolkien attraverso i film di Peter Jackson abbiano poi letto i romanzi; e quanti di costoro abbiano sfiorato il Silmarillion; e quanti l’Edda o il Beowulf o il Mabinogion. Non è una questione di sofisticazione letteraria, o almeno, non solo. Il M-A fruitore del fantastico preferirà sempre il surrogato all’originale proprio perché l’elemento magico è dato già come una regressione.

Quando è allora che la storia di magia diventa una mera fuga? Quando diventa un’idealizzazione senza sostanza, una semplicità che non ha fondamento. Io credo che tutta la letteratura sia, se non fuga, almeno momentaneo allontanamento dal reale. Perché nello stesso momento in cui esperiamo l’opera, qualunque essa sia, noi non siamo nella realtà, ma fuori da essa. La differenza casomai sta tra buona fuga e cattiva fuga. E’ un po’ la differenza tra quella che Lewis Mumford[3] chiama “Utopia della fuga” e “Utopia della ricostruzione”. La prima non fa che sedare il proprio scontento con la realtà. La seconda costringe a creare un diverso sistema di valori attraverso il quale io posso cambiare la mia realtà. Talvolta anche quella degli altri.

Si può dire che il cattivo fantastico funziona come una cattiva utopia, stordisce il lettore quel tanto che lo si esperisce. E la buona letteratura d’immaginazione? Fa in realtà quello che fa la buona letteratura realista, tiene svegli invece di addormentare. Quello a cui ‘sveglia’  è il senso del mistero. Questo l’ambito è specifico del fantastico, lo choc epistemologico con cui si conoscono le cose la prime volta. Allora la meraviglia non è più solo un’emozione, diviene una forma di conoscenza. Parafrasando Chesterton[4], scrivere che l’erba è viola ci fa a ricordare la meraviglia più grande, ovvero che l’erba è verde e di nessun altro colore. Quello choc è  anche nel mito. Non perché il mito sia l’infanzia del mondo, ma perché l’infanzia pensa in modo mitico.

Di questa plasticità mondo-mente il Mezzo Adulto ha una nostalgia feroce, come di qualcosa che ricorda ma che non riesce più a vivere. Il Quasi Adulto anche, eppure riesce ancora a viverlo quel mistero, e non solo nei libri, ma creando. I libri casomai sono solo uno dei mezzi con cui riappropriarsi di quel ‘modo conoscitivo’. Per questo, quando li sceglie, essi tendono a essere complessi, collaborativi, non ovvi.

Al contrario le forme consolatorie del fantastico sono appetibili soprattutto a coloro che hanno il gusto dell’immaginazione, ma non l’immaginazione stessa; le forme a cui possono accedere devono essere sempre semplici e ludiche. E questa è anche la ragione per cui i Mezzi Adulti sono così ricettivi alla transmedialità, altro termine di marketing. Il romanzo che è potenzialmente anche un videogioco, una App, un film, un album di figurine, si vende meglio e si diffonde meglio.

Ma non si tratta solo di una strategia di vendita. Tornando a quanto diceva il New Yorker, questa semplificazione transmediale sta diventando una tipologia di produzione dell’opera. Si può chiamare Moby Dick e L’isola del Tesoro degli Young Adult quanto si vuole, se li aiuta a vendere meglio; restano dei capolavori. Ben diverso quando il libro lo si scrive puntando alla semplificazione in modo ludico e per adulti.

Sia chiaro, nulla di sbagliato nel gioco: ma quando è puro, fine a se stesso. Per questo la premeditazione a tavolino di libri Y.A. –non l’etichettatura a posteriori– ci sembra una perversione, perché sminuisce tutte la parti in causa.

Adulti infantilizzati, bambini già nostalgici e incapaci di immaginare da soli, questi sono i fruitori ideali del marketing. Come scrive Christopher Beha, alla fine la scelta della semplificazione a tutti i costi è solo un po’ triste, la nostalgia per una semplicità presunta che un tempo era mistero. E quindi, tutt’altro che semplice.

——————————

[1] http://www.newyorker.com/books/page-turner/henry-james-great-ya-debate

[2]J.R.R. Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Bompiani, 2003

[3]L. Mumford, Storia dell’Utopia, Donzelli, 2008

[4]G. K. Chesterton, Ortodossia, Lindau, 2010

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9 Commenti

  1. Molto interessante, ma non capisco perché il cinema sarebbe “intrinsecamente meno collaborativo” – per poi precisare “Almeno nella sua versione spettacolare”, che sarebbe in fondo il corrispettivo della letteratura “di consumo”. Non ho insomma capito perché fare una distinzione che dopo viene confutata dall’autore stesso.

    • Perché il cinema si lascia fruire anche da un lettore distratto e passivo: le immagini scorrono comunque. Il libro invece costringe sempre e comunque il lettore a uno “sforzo” fruitivo.

    • Mea culpa, sono stato poco chiaro. Intendevo che la mente collabora di meno a seguire una sequenza di immagini che non a leggere un testo. Anche un testo scadente/di consumo. (La parola collaborazione in questa accezione la rubo ad Eco). Comunque hai ragione distinguo era abbastanza inutile, volevo solo evitare l’obiezione “ma Lynch/Tarkowskij”?

  2. Sapete che il saluto ‘Ehi tipo, Ehi tipa’ dello slang giovanile ha origini colte, viene dall’argomentazione per classificazioni umane (detta anche ‘per scatole’ o ‘argomentazione logistica’)che utilizzano ancora oggi gli intellettuali analitici. A Vienna nei primi del novecento molti allievi freudiani si salutavano in quel modo.

    Un esempio di argomentazione per scatole per esempio è questo:
    ‘per un bambino ogni porta è magica’.

    Detto questo, a me Il Mangianomi non era dispiaciuto.

    • Buongiorno! Innanzitutto mi scusi per il ritardo (qui c’è stata un attimo la fine del mondo) e grazie per la sua (tiepida) stima. Quanto alle sue scatole: fantastico soggetto di indagine! Sia per chi gioca a costruirle sia che per chi gioca a romperle (l’esito del gioco dipende casomai dall’abilità del costruttore o del distruttore). In effetti io da piccolo consideravo le scatole sommamente interessanti, molto più delle porte di cui parlo nell’articolo. Mi chiedevo: quanto spazio possono contenere? Contengono solo spazio o anche tempo? Una scatola è un oggetto o un luogo? Immaginavo scatole che fossero persone, case, auto, giorni…

      Tornando all’articolo. Lei ha parzialmente ragione a ritenere che “per ogni bambino una porta è magica” sia una affermazione apodittica (questa almeno la mia lettura del suo “ragionamento a scatole”). L’apodissi sta nell’aver preso la frase di Tolkien fuori contesto, dandola come inconfutabile e universalmente valida, senza spiegarla. Anche se in seguito cerco di spiegare cosa intendo come mistero , (ovvero l’orizzonte metafisico di un oggetto) ciò che non spiego è proprio il ‘magico’, dandolo appunto per sinonimo di mistero. A ben rifletterci non lo è.

      Per magia qui intendo: l’intuizione profonda che un evento o un oggetto funzionano per mezzo di regole universali il cui nesso non (ci) è chiaro. Per questo la mia accezione di magia, in questo contesto, è connesso al senso del mistero. Da bambini si sente che una porta (o una scatola etc) costruisce un universo di possibilità, e che queste possibilità hanno delle regole, regole universali che esistono anche se io non ne capisco la logica. E’ proprio il paradosso “intuisco delle regole che non capisco” che credo sia un grande stimolo per la mente umana.

      Si gioca con il fantastico nel momento in cui si comincia a intrattenere un rapporto plastico con queste regole. Per esempio un animale nascosto in una scatola non può essere contemporaneamente vivo E morto. Il dentro di una scatola non può essere più grande dello spazio che circonda la scatola stessa. Etc etc. E se cambiassimo le regole? Avremmo, per esempio, una scatola che “it’s bigger on the inside” (eh sì, sto citando)… In altre parole se si alterano, da adulti, le regole della ‘scatolità’ si sta colpendo il punto centrale della percezione infantile di una scatola. Per un attimo siamo di nuovo bambini e il mondo si apre a un universo di possibilità, divenendo il qualche modo ‘plastico’…

      Forse lei si chiederà a cosa serva poi a noi adulti questa plasticità mentale, ammesso poi che uno stato simile esista. Beh, parafrasando: e se un gatto in una scatola fosse contemporaneamente vivo e morto, almeno fino all’istante in cui io aprissi la scatola? Come vede riflettere sulla metafisica delle scatole può portare lontano…

      Comunque sì, l’argomento ‘meraviglia /percezione’, andrebbe esplorato per bene, senza apodissi, magari in un articolo a sè, magari con un minimo di sostegno scientifico. Chissà cosa avrebbero da dire le neuroscienze sul rapporto tra la ‘meraviglia’ e la capacità del cervello di apprendere nuove regole, o di cambiare le stesse regole con le quali si percepisce il mondo? Chiederò, approfondirò.

      Grazie per lo spunto e per la metafora delle scatole.

  3. Quel che temo di questa ripartizione in Quasi Adulti e Mezzi Adulti è l'(almeno) apparente staticità, mentre invece voglio sperare che un Mezzo Adulto possa sempre diventare un adulto maturo e pur plastico e insomma simpatico :)

    Ho anche qualche problema con questa affermazione: “Io credo che tutta la letteratura sia, se non fuga, almeno momentaneo allontanamento dal reale. Perché nello stesso momento in cui esperiamo l’opera, qualunque essa sia, noi non siamo nella realtà, ma fuori da essa.” Difatti non sono per niente sicura che noi esperiamo la realtà solo come immanenza materiale immediatamente circostante, mi pare che “le chimeriche idee del paese dei sogni” rientrino a pieno titolo nella realtà (io penso che stiamo vivendo anche mentre leggiamo, insomma).

    L’idea di intenzionalità semplificante mi piace molto invece, e penso che meriti molta attenzione (io ho in mente i libri per bambini, dove la semplificazione è necessaria, ma – bisogna chiedersi – la semplificazione *di cosa?* mi sembra lì la questione interessante.)

    grazie!

    • Buongiorno. Nemmeno io ne sono sicuro; certamente leggere è vita, e certamente sognare è anche vita, però non è realtà. Può entrare in seguito a diventare realtà (attraverso la ‘ricostruzione’ come dice Mumford) ma è un momento diverso dalla realtà. Questo è un confine importante, che certo va continuamente attraversato ma che ha valore proprio in quanto limite; oltre ad essere spunto per la letteratura stessa dal Don Chisciotte in poi…

      Quanto ai MA e QA: certamente non sono statici! Sono in effetti solo modelli teorici come ‘il lettore ideale’, qualcosa che esiste in potenza, ma non esiste davvero nella realtà. Molti nerd possono avvicinarsi parecchio ai MA, ma avranno comunque interessi attivi, stimolanti, che nulla hanno a che fare con la nostalgia e il rimpianto.

      E lo stesso questi ‘plastici’ eroi dei QA avranno lampi di nostalgia e di facili ritorni, magari in un giocattolo per il figlio, o in un film di intrattenimento. Non mi sembra ci sia nulla di male. Male è solo pensare che tutta la letteratura che interagisce con questo lato dell’esperienza umana, la meraviglia e il fantastico, sia per forza un infantilismo per adulti.

      Se recentemente è sempre più così è perché ci sono editori e multinazionali dell’entertainment che ci speculano sopra, non perché la materia trattata si presti intrinsecamente. E anche perché è facili impigrirsi in forme ‘collaborative’ (veda sopra) modernizzate, semplificate, se non ci si incuriosisce un po’ delle forme originali…

      Un saluto.

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Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
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