Peggio per tutti. Di Charlie Hebdo, della République e dell’apocalisse.

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di Jamila Mascat

Sulla Settimana enigmistica c’era un gioco, che forse esiste ancora: “Aguzzate la vista”. Si trattava di scovare i 20 particolari che distinguevano due vignette molto simili e densamente popolate, disposte una accanto all’altra.

Io, che non ho un talento per la visione e sono sempre stata miope, ci mettevo un sacco di tempo, poi spesso mi spazientivo al quinto particolare. Ma chissà perché non demordevo e ogni settimana sceglievo di provarci di nuovo. Del resto, si sa, ci vuole pazienza con i dettagli.

Di Charlie Hebdo

Ora non è facile soffermarsi sui dettagli mentre l’orrore e la commozione per le vittime dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, e poi ancora l’orrore delle ultime ore per gli altri morti e gli altri ostaggi, ci stringono in un raccoglimento corale senza se e senza ma.

Siamo tutti sotto choc; siamo tutti inorriditi per l’attentato più letale che Parigi abbia mai subito dalla fine della seconda Guerra Mondiale – le decine di persone uccise il 17 ottobre 1961 durante una tristemente famosa manifestazione pro-Algeria – all’epoca ancora francese – morirono, come ricorda Libé, non per mano dei jihadisti ma sotto i colpi della polizia; dicesi repressione quindi, non attentato). Siamo tutti ragionevolmente con la plume contro i kalashnikov. E nel giro di qualche ora siamo diventati tutti Charlie (perfino il Nasdaq).

Confesso che je ne suis pas Charlie (senza hashtag, e fuori da twitter, dove pare che la formula sia stata recuperata con intenti ben diversi da quelli di questo post), non lo sono oggi più di quanto non lo fossi una settimana fa e sarebbe perfino ipocrita fare finta del contrario. Avevo un debole per Charb, a cui devo uno dei migliori funerali a cui ho  assistito (si trattava in realtà della commemorazione della morte di Daniel Bensaïd, filosofo, docente universitario, fondatore della Ligue Communiste Révolutionnaire e, tra le altre cose, co-autore insieme a Charb di Marx, mode d’emploi). Mentre nella sala della Mutualité Edwy Plenel, Alain Badiou e molti altri ricordavano Daniel e i suoi trascorsi, Charb lo disegnava in diretta riuscendo perfino a strappare qualche risata contagiosa, che per un’occasione del genere è un risultato niente male. Ma a parte questa affezione personale, je n’ai jamais été Charlie da quando in modo più o meno intermittente vivo a Parigi, dal 2001. Erano gli anni di Philippe Val alla guida del giornale (1992-2009), gli anni del dopo-11 settembre, gli anni bui che conosciamo e che in Francia sono stati ulteriormente rabbuiati dai Lumi del laicité di stato.

Le vignette, le più sconce e le più blasfeme, non mi hanno mai offeso; ridere è un’altra storia e io fatico un po’ a farlo con cazzi e culi, e putes e pédés, per indole, più che per inclinazione al politically correct. Per intenderci: questo finto-Maometto qui, sul set di un film hard costretto a scoparsi una testa di maiale “per mancanza di troie di 9 anni” non mi piace un granché, ma non perché è Maometto, fosse anche il Maresciallo Rocca o Lino Banfi sarebbe lo stesso.

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Allora preferisco Maometto affranto, con le mani nell’immancabile turbante, che deplora la qualità dei suoi proseliti – C’est dur d’être aimé par des cons (e ancora più tosta, forse, è essere odiato dai coglioni, così coglioni che un giorno vengono a trovarti a sorpresa e finiscono per farti secco).

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Non ho avuto nessun sussulto per le illustrazioni di Charia Hebdo, per le vignette danesi ripubblicate da Charlie, né di fronte alle consuete caricature dei miei correligionari, ritratti di solito in versione barbus (gli uomini) o niqab (le donne, generalmente maldestre, impossibilitate a farsi la ceretta come si deve, incapaci di trovare il punto G, e più spesso incinte per meglio procacciarsi i sussidi destinati alle famiglie numerose).

Ma CH non è e non è stato negli anni solo un giornale di vignette di buono e cattivo gusto. È stato anche un giornale di editoriali (come questo di Val, che nel 2002 rimproverava Chomsky di essere un traditore della patria, alias “l’un de ces Américains qui détestent le plus l’Amérique) e di prese di posizione (come questa, sempre Val, all’epoca della guerra in Libano nel 2006 :”Se guardiamo una carta geografica, muovendoci verso Est, [vediamo] che oltre le frontiere dell’Europa, cioè oltre la Grecia, il mondo democratico cessa di esistere. Resta solo un coriandolo in Medio Oriente, lo Stato di Israele, e poi nulla fino ad arrivare in Giappone. Tra Tel-Aviv e Tokyo regnano solo poteri dispotici, che riescono mantenersi in piedi alimentando, presso popolazioni analfabete all’80 per cento, un odio feroce nei confronti dell’Occidente, perché composto di democrazie”); parole che non condivido oggi, più di quanto non riuscissi a condividerle ieri.

Non ero Charlie nemmeno nel 2006 quando il giornale pubblicava il Manifeste des douze contro il totalitarismo islamico, firmato dal direttore (Val), insieme a Bernard Henry Levy, Ayan Hirsi Ali e Caroline Fourest tra gli altri – per chi non li conoscesse googlare per credere. 

Né ero Charlie quando, a luglio del 2008, Val, sempre lui, decideva di licenziare Siné, un collaboratore storico della testata, per colpa di una chronique pubblicata due settimane prima, che commentava così le nozze di Jean Sarkozy, figlio di Nicholas, con Jessica Sarah Fanny Sebaoun,  ereditiera della famiglia Darty

“Jean Sarkozy, digne fils de son paternel et déjà conseiller général de l’UMP, est sorti presque sous les applaudissements de son procès en correctionnelle pour délit de fuite en scooter. Le Parquet a même demandé sa relaxe ! Il faut dire que le plaignant est arabe ! Ce n’est pas tout : il vient de déclarer vouloir se convertir au judaïsme avant d’épouser sa fiancée, juive, et héritière des fondateurs de Darty. Il fera du chemin dans la vie, ce petit !”

Il vignettista, accusato di antisemitismo, era stato immediatamente espulso dalla redazione. L’iter giudiziario avrebbe scagionato Siné e condannato Charlie a risarcirlo cospicuamente, ma intanto un gesto del genere, da parte di un giornale che si è sempre vantato di cantarle a tutti e non risparmiarle a nessuno, avrebbe suscitato più di qualche reazione sgomenta in redazione e fuori. Alcuni già allora rimpoveravano a Val, di lì a poco destinato a essere nominato dall’allora presidente Sarkozy alla guida di France Inter, di aver punito l’antisarkozismo di Siné piuttosto che il suo presunto antisemitismo. E nel momento in cui CH progressivamente scompare dalla rassegna stampa dell’emittente radiofonica France Inter, lo stesso Charb se la prende con il suo predecessore accusato di obbedire supinamente ai precetti dell’Eliseo: “Da quando la rassegna stampa [….] è in mano a sarkozisti impomatati, Charlie Hebdo non è più stato citato. Boycottaggio quasi totale.[…] Si vede che non serve essere iscritti all’albo dei giornalisti per fare la rassegna a France Inter, basta avere la carta dell’UMP».

Nato sulle ceneri di Hara Kiri, censurato dal ministero degli interni nel 1970 per una copertina poco ossequiosa pubblicata in occasione della morte di De Gaulle, e cresciuto all’indomani del maggio francese con spirito anarco-rivoluzionario, persecutore irriverente dei potenti e del potere, CH è stato un settimanale di culto per una generazione, e forse più di una, di gauchistes impenitenti che preferiscono ricordarlo per come era agli inizi.

Lhebdo che ho conosciuto io, invece, è stato un giornale più controverso e più chiacchierato. Al punto che nel 2013 Charb, ormai da quattro anni alla guida del settimanale, mentre le polemiche montavano e le vendite precipitavano, era stato costretto a ribadire dalle colonne di Le Monde che Non,Charlie Hebdo n’est pas raciste !

E in effetti non credo neanch’io che CH sia un giornale razzista. Credo solo che in diverse circostanze abbia abdicato alla tanto celebrata inclinazione dei bei tempi andati, l’inclinazione ad assumere una voce fuori dal coro. Strano a dirsi, mi rendo conto, a proposito di un giornale la cui redazione è stata orribilmente decimata tre giorni fa, per aver osato rappresentare l’irrapresentabile e sfottere l’insfottibile. Ma la Francia non è l’Arabia Saudita e questo dettaglio dovrebbe consentire di prendere le misure.

 


Della République

La questione del coro e delle voci è un altro dettaglio non trascurabile.

Il quotidiano online Mediapart (il cui direttore, Edwy Plenel, ha pubblicato pochi mesi fa un inatteso plaidoyer Pour le musulmans) riporta sul blog Indisciplines un’intervista a Michel Houellebecq, originariamente apparsa sulla Paris Review, e rara nel suo genere per il tono insolente (e apprezzabile) delle domande rivolte all’autore in occasione dell’uscita del suo libro Soumission, di cui si parla ovunque in questi giorni. Il titolo scelto da Sylvain Bourmeau – Un suicide littéraire français – fa volutamente eco al tanto dibattuto Suicide français di Eric Zemmour, il bestseller-scandalo del giornalista francese licenziato meno di un mese fa da I-Télé per le dichiarazioni espressamente razziste rilasciate al Corriere della sera e poi a distanza di qualche tempo rimbalzate in Francia per suscitare un putiferio (tra queste l’auspicio di una prossima cacciata dei musulmani francesi dal territorio nazionale). 

Se nel suo saggio Zemmour addita il pensiero debole e il decostruzionismo, rei di aver eroso “le fondamenta di tutte le strutture tradizionali: famiglia, nazione, lavoro, stato, scuola” fino a rendere “l’universo mentale dei nostri contemporanei ….un campo di rovine” e cedere il paese in pasto all’insolenza delle minoranze, il romanzo di Houellebecq immagina la Francia del futuro che inverosimilmente capitola nella mani dell’islam politico, tanto da ritrovarsi a fronteggiare nel 2022 un deuxième tour presidenziale Le Pen vs Ben Abbes (nome, quest’ultimo, inventato di un immaginario leader carismatico del partito della Fraternité Musulmane). Dopo la vittoria schiacciante del partito religioso, la nazione cambia volto: le donne smettono i pantaloni e cominciano a coprirsi, lasciano il lavoro e si rintanano in casa, le scuole e le università vengono islamizzate e progressivamente tutti sono costretti ad arrendersi e sottomettersi.

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E così Bourmeau incalza Houellebecq:

-Pourquoi tu as fait ça?

-Je n’aime pas le mot mais j’ai l’impression que c’est mon métier.

E più avanti:

– Peut-être oui. Oui il y a un côté peur. J’utilise le fait de faire peur.

-Donc tu utilises le fait de faire peur à propos du fait que l’islam devienne majoritaire dans le pays ?

-En fait, on ne sait pas bien de quoi on a peur, si c’est des identitaires ou des musulmans. Tout reste dans l’ombre.

-Tu t’es posé la question des effets d’un roman qui contient une hypothèse comme celle- là ?

-Aucun. Aucun effet.

-Tu ne crois pas que cela va contribuer à renforcer les portraits de la France que j’évoquais et pour lesquels l’islam pèse comme une épée de Damoclès, comme la chose la plus effrayante ?

-De toute façon, c’est déjà à peu près la seule chose abordée par les médias, ça ne peut pas être plus. C’est impossible d’en parler plus qu’aujourd’hui, donc cela n’aura aucun effet.

-Ce constat ne te donne pas envie d’écrire autre chose ? De ne pas t’inscrire dans ce conformisme ?

-Non ça fait partie de mon travail de parler de ce dont les gens parlent, objectivement. Je suis inscrit dans mon temps.

Houellebecq dichiara di volersi esimere dal dovere di scegliere di cosa parlare e come farlo. Pare nascondersi dietro un dito e dire: parlo di ciò di cui si parla. Come se il mestiere di scrivere si riducesse al compito miserabile di ricopiare dal mondo tel quel, contentandosi di straparlare di quel di cui già si parla.

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A poche ore dal primo attentato, ad esempio, la leader del Front National, Marine Le Pen, ventilava l’ipotesi di un referendum sulla pena di morte. Suo padre Jean-Marie suggeriva con un tweet una soluzione assai più composta: Keep calme and vote Le Pen (e sullo sfondo una bella foto di sua figlia che sfoggia un gran sorriso).

Nel frattempo il Parti Socialiste ha tentato con successo di resuscitare dal torpore autunnale sotto l’egida del repubblicanesimo. La République per bocca del presidente Hollande e del premier Valls ha chiesto a tutti di raccogliersi in silenzio e rendere omaggio alle vittime innocenti di questi morti atroci.“Dans ces moments-là, le débat doit être un peu au-dessus et pas dans les petites polémiques”, ha ribadito il primo ministro, sapientemente abile in queste ore a dosare le parole e redarguire ogni eccesso, ineccepibile ago della bilancia nazionale.

Anche il filosofo Bernard Henry-Levy dalle pagine di Le Monde ha cavalcato l’onda repubblicana rilanciando  la posta un gradino più su: “C’est le moment churchillien de la Ve République”, ha scritto, “è l’ora del dovere implacabile della verità di fronte a una prova che s’annuncia lunga e terribile. E’ l’ora di tagliare corto con il discorso lenitivo che ci propinano da tanto tempo gli utili idioti [fautori] di un islamismo che si risolverebbe nella sociologia della miseria”.

E Sarkozy gli fa eco: “La nostra democrazia è sotto attacco, e dobbiamo difenderla senza esitazioni. … La Francia è stata colpita al cuore, la Repubblica deve riunirsi; chiamo tutti i francesi a […] un fronte unico contro il terrorismo, la barbarie e gli assassini”.  

A tutti noi è richiesto di associarsi (e ai musulmani di dissociarsi e espiare, prima di associarsi) per prendere parte a questa santa alleanza politica che formalmente mantiene a debita distanza solo il FN per evitare di conferire una patente di rispettabilità a un partito pericoloso e a cui in questa fase i consensi non mancano di certo.

Chiunque tenti di opporsi all’ “impératif d’unité nationale” invocato da Sarkozy, obiettando che il guaio della Repubblica è che predica male e razzola peggio, non disdegnando di impugnare all’occorrenza liberté-égalité-fraternité come un’arma letale di discriminazione e d’oppressione, di guerra e di conquista, viene accusato di islamogauchismo, di giustificare l’ingiustificabile o anche solo di non saper tacere in un momento così tragico e ostinarsi cercare il pelo nell’uovo.

Con che coraggio ci si può sottrarre al Je suis Charlie, intonato dal coro polifonico repubblicano che si vuole erede e depositario delle ultime volontà di Charb, Wolinski, Cabu, Tignous e degli altri, e in cui ahimè sono confluiti il dolore, la paura, lo sdegno e la sacrosanta determinazione a resistere di milioni di francesi?

Le Monde per la copertina del dopo-attentato ha scelto un titolo rivelatore: Le 11-septembre français, un titolo confermato dalle parole di Valls che poco dopo ha prontamente evocato l’impresa di una nuova “guerra contro il terrorismo”,  une guerre pour nos valeursUn altro dettaglio non insignificante. Infatti, se davvero si tratta di un nuovo 11 settembre, allora ripensiamo al precedente e meditiamo: per una crociata lanciata ormai 14 anni fa, e combattuta con tanto dispiego di mezzi ed energie, bisogna ammettere che si è trattato di un fiasco colossale. Il terrorismo, a quanto pare, non è mai stato meglio.

Domenica prossima a Parigi sfileranno anche Merkel, Renzi, Rajoy, Cameron e altri leader politici europei.  Vedremo l’Europa di destra e sinistra prendersi per mano “Pour la liberté de la presse, pour la république, pour la liberté de conscience et d’opinion, pour lutter contre l’obscurantisme, pour ne pas capituler face au terrorisme…”. United we stand si diceva all’indomani di 9/11. Con le conseguenze che tutti conosciamo e abbiamo ancora modo di toccare con mano. 

Dell’apocalisse

A helicopter with members of the French intervention gendarme forces hover above the scene of a hostage taking at an industrial zone in Dammartin-en-Goele, northeast of Paris

C’è un breve saggio di Derrida intitolato Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia (1983) che fa il verso a uno scritto di Kant di duecento anni prima  pubblicato sulla Berliner Monatsschrift – D’un tono da signori assunto di recente in filosofia  (1796).

In questo saggio Derrida punta il dito contro le retoriche dell’apocalisse per gli stratagemmi che adottano; per le “astuzie criptiche” che mobilitano, per la fine imminente che annunciano e a cui poi non tengono fede, per quell’annichilamento distruttivo che promettono e non mantengono al solo scopo di garantirsi una sopravvivenza più duratura.

Al pari di un’accorta strategia di comunicazione, infatti, i toni apocalittici sottintendono più di quel che narrano esplicitamente, e agitano lo spauracchio della fine proprio allo scopo di poter preservare le cose come stanno. Nulla insomma finisce davvero con l’Apocalisse e molto si perpetua immutato, a discapito delle apparenze.

E allora, Derrida si domanda cui prodest: Quale beneficioQuale premio di seduzione o di intimidazione? Quale vantaggio sociale o politico? Vogliono fare paura? Vogliono far piacere? A chi e come?” Vogliono terrorizzareFar cantare? Attirare in nuove promesse di godimento? È contraddittorio?”

Nelle ultime ore ovunque ci hanno raccontato l’apocalisse. L’attentato, e poi la fuga dei colpevoli, e lo spettacolo terrificante delle squadre speciali che li inseguono. I volti e le storie degli assassini, microcrimnali, macrocriminali, convertiti, bramosi di uccidere e pronti a morire per Isis o per Al Qaeda non importa. Lo Yemen un condimento onnipresnte, l’Afghanistan pure, mentre le vittime innocenti si moltiplicavano tra un attentato e un braccaggio. La fine della rincorsa, l’uccisione dei fratelli Kouachi e del loro complice Amedy Coulibaly, le loro (incredibili ma vere?) interviste in diretta con i giornalisti di BFM Tv  in cui rispondono alle domande come fosse un gioco a quiz, dichiarano i moventi e i mandanti. Il mistero di Hayat Boumedienne. E ancora il récit allarmato della procura, gli istigatori di odio che scorrazzano sui social network, i plausi al coraggio degli attentatori morti per una buona causa che arrivano dai soliti sciroccati criminali. I sondaggi d’opinione, le risposte a scelta multipla. Le prevedibili ripercussioni quotidiane – meno eclatanti, ma certo non meno preoccupanti –  dalle scuole alle moschee passando per le banlieue dove non sono mancate fin da subito le intimidazioni, gli insulti contro l’islam e l’islam contro tutti.

Quando pareva che le cose andassero già molto male, sono andate peggio (cosa c’è di peggio di una prise d’otage qualsiasi? Una prise d’otage orchestrata da un musulmano in un épicerie kosher, tanto per gradire). E quando è così, è peggio per tutti.

Il problema di atti indifendibili come gli attentati dei giorni scorsi è che oltre a lasciarci in bocca il gusto amaro dell’apocalisse, non ci lasciano via di scampo. Non ci permettono di rigettare la logica binaria, ma poi al fondo monopolistica, del ritornello “chi non salta terrorista è”. Ci tolgono le parole di bocca. Ci condannano, nel migliore dei casi, a ingoiare più sicurezza, più vigipirate e più panopticon per sentirci protetti o, nel peggiore dei casi, a fare il tifo per le teste di cuoio affinché catturino i criminali (e non importa che le forze dell’ordine tre mesi fa abbiano ucciso per sbaglio con una granata un giovane manifestante ecologista a Sivens, e che il ministero dell’Interno dopo l’omicidio di Remi Fraisse abbia vietato qualsiasi manifestazione di protesta e promosso arresti e condanne a gogo per punire chi osasse infrangere le regole; quella ormai è acqua passata, riscattata dalle prodezze dei blitz di ieri). Ci spingono a schierarci con quelli che non possono essere i nostri alleati (il governo Valls e l’opposizione Sarkozy). Ci costringono a blaterare in ritirata che il razzismo, che l’islamofobia, che la discriminazione nei quartiers populaires, che la guerra in Mali e la Françafrique, che l’imperialismo, che lo sfruttamento, che la povertà e la disoccupazione, che Gaza, che quel che resta del colonialismo, che non solo i musulmani, ma anche gli altri, che un salafita non è un terrorista, che Obama e Guantanamo…e così via in dissolvenza. E chiunque replicherà, con ragione, che non ci sono scuse che tengano.

Le scuse in effetti non servono, servono antidoti a una strategia della tensione – tu-mi-uccidi-a-casa-mia/io-ti-uccido-a casa-tua – inscenata tra terroristi jihadisti e politica del terrore globale, che evidentemente giova alle parti in causa più che a chiunque altro in questa storia. Servono strumenti per sottrarsi alla morsa infernale del “con noi o contro di noi”, che puntualmente si ripropone. Per questo la libertà d’espressione deve consentire la libertà di sottrarsi all’amalgama dell’union sacrée per soffermarsi sui dettagli – che alla fine non sono un dettaglio e fanno la differenza – senza che nemmeno questo costituisca un atto blasfemo né criminale.

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31 Commenti

  1. Grazie Jamila. Quando scrivere sull’onda dei fatti, dall’interno del fuoco o molto vicini a ciò che brucia e che annerisce tutto o offusca, riesce a mantenere anche quella giusta distanza che permette un’estrema lucidità e capacità di analisi. Mettendoci la faccia. Tutta. E l’intelligenza.

  2. Cara Jamila, dissento dalle tue parole. Secondo me, la solidarietà a Charlie non implica accettare i loro contenuti né entrare in un’unione sacra: per quanto mi concerne, li conoscevo poco, avevo letto 3 o 4 numeri e semplicemente non mi facevano ridere molto. Poi tu, come altre persone in rete, aggiungi che come molti ex sessantottini erano diventati di destra. Bene ne prendo atto, ma questo non cambia il fatto che sono stati ammazzati per quello che scrivevano o disegnavano e per questa ragione a loro va la mia solidarietà. Piaccia o meno l’oggetto di questo attacco è la libertà di espressione, che è un valore che ho in comune anche con personaggi di cui non condivido le idee, i quali magari sono degli ipocriti e in altre circostanze non la difendono. E’ un problema loro non mio.
    Quanto al fatto che la destra, sia populista sia liberltecnocratica, cercherà di sfruttare per i propri fini quei morti non solo è facilmente prevedibile, ma sta già succedendo ( basti pensare alle parole di Renzi sulla Libia ieri sera) ed entro certi limiti era verosimilmente nelle aspettative degli attentatori, ma questo non è un motivo per non essere solidali con quei morti. Ci sarà un momento per la critica e la denuncia, oggi sento che è più giusto stare con chi è morto per avere scritto le proprie idee

  3. Grazie per questa acuta analisi che va oltre l’immediato presente e ci ricorda con logica inappuntabile il nostro passato prossimo
    Grazie per aver trovato le parole per esprimere quello ceh in maniera confusa provavo anche io

  4. a Jamila,
    grazie per il tuo articolo, che contribuisce a dettagliare uno scenario francese, che non credo sia così nitido in Italia, considerando il modo in cui viene filtrato dai nostri media.
    Grazie perché in un momento del genere è importante che gli scrittori tra i primi siano attenti a conservare la particolarità della loro voce. Abbiamo assolutamente bisogno di contrastare le forme inevitabili di propaganda che stanno nascendo in seno alla istituzioni, per poter mantenere il quadro aperto, aperto in termini sia di profondità storico-politica e di scenari sociali presenti.
    E tutti gli elementi che tu fai riemergere, sia relativo al conformisno di Charlie o all’omicidio del giovanissimo manifestante ecologista Remi Fraisse da parte delle forze di polizia, sono importanti.
    Mi ritrovo anche in questa tua frase su Charlie Hebdo: “E in effetti non credo neanch’io che CH sia un giornale razzista. Credo solo che in diverse circostanze abbia abdicato alla tanto celebrata inclinazione dei bei tempi andati, l’inclinazione ad assumere una voce fuori dal coro.”

    Voglio però aggiungere una considerazione. Non ho brandito lo slogan “Sono Charlie Hebdo” né ho partecipato alle veglie collettive e spontanee (ma per motivi contingenti) che si sono viste a Parigi e altrove in Francia. Da miscredente totale ho omaggiato una banda, a cui in certi momenti mi sono sentito affine, in altri no. Dico però, da persona che vive in Francia, che sono contento che ci sia stata una reazione spontanea e di massa. La propaganda del governo o l’utilizzazione politica di questa reazione NON vanno secondo me confusi con questa reazione. Inutile sottolineare che in strada non si sono gettati gli elettori della destra o dell’estrema destra. Sarebbe stato ben peggio, se la genete se ne fosse tornata a casa, o fosse rimasta a casa. Non ritengo che le emozioni collettive siano una cazzata o solo molle materia per una manipolazione politica e mediatica. (Per carità Jamila, non è certo quello che tu dici. Ma è un discorso ulteriore che io faccio.) Certo scendere in piazza silenziosi, dire “Io sono Charlie Hebdo” non ci salva dalle trappole che già si stanno preparando, e che ci riguarderanno tutti.
    Allo stesso modo, è stato importante che emergessero, proprio in un contesto d’emozione così forte, delle voci di dissenso, su Charlie. In alcuni casi, ho trovato queste voci faziose e riduttive. Poco importa. Hanno svolto anche così un loro ruolo positivo.

    Le emozioni delle persone, in questi giorni, insomma, di per sé non significano un assegno in bianco al governo, alle politiche di sicurezza, alle guerre occidentali in medio-oriente, alle politiche discriminatorie all’interno del paese.

    Le emozioni collettive potevano anche essere altre. Certo sono cominciati gli attacchi alla moschee. Ma le persone, ancora una volta, pur con molta ingenuità e anche grande disorinetamento, si sono comportate meglio – almeno per ora – di coloro che fanno propaganda politica sulle loro teste.

  5. A me non sembra che Jamila additi la solidarietà collettiva a CH, ma che faccia un passo oltre e inizi a mettere un po’ d’ordine nello scenario che vedremo nei prossimi giorni.
    Il “je suis” di questi giorni non significava cieca approvazione o completa identificazione, ma la difesa, una volta tanto, di un principio indiscutibile. E poco importa il modo in cui lo slogan si sia propagato, importa invece che place de la République fosse gremita. Dopodiché, per un’analisi costruttiva, inizia sì una delicata operazione in cui tenere conto di ogni “dettaglio”: il che non implica e anzi non deve implicare una spaccatura sulla base dell’opinione sui contenuti di Charlie, ma la presa in considerazione dello scenario che si apre con uno sguardo a 360 gradi.
    [Non sono però d’accordo con la presunta debolezza della risposta di Houellebecq nell’intervista citata: in quel caso, a mio avviso, è la domanda che è debole, e insostenibile da un punto di vista letterario]

  6. Un riflessione intelligente.
    Ho vissuto gli eventi con emozione, senza possibilità di ragionare.
    Mercoledi, dopo le lezioni ho avuto la notizia: primo l’incomprensione, poi un colpo nel cuore.
    Tutto la serata con France inter.
    Un sentimento che la cosa che mi è cara: la libertà di scrivere, di creare aveva stata massacrata.
    Nessuno immagine. Non ho la Tv. Ma lo fragore delle armi.
    Nella mente.
    Una notte insonne.

    Le lacrime.
    Il ricordo del grand Duduche.

    Giovedi
    vestita in lutto come la maggioranza dei miei amici alla scuola media.
    I volti tristi.
    La minute de silence.
    Con la gola stretta, gli occhi pieni di lacrime. Ma tratenevo le lacrime, perché non potevo piangere davanti gli alunni.

    Un ambiente di tristezza. Non di paura
    ma inquietudine: che sarà la conseguenza di questa carneficina?
    La paura che il FN sia ancora più influente nell’opinione.

    Ma la sera un po’ di consolazione.
    François Hollande ha saputo riunire i cuori.

    Notte insonne.

    Venerdi tutta la giornata alla scuola ignorando gli eventi.
    Poi con il ritorno dalla scuola, la notizia dei quatro morti nel supermarket cacher.

    Un sentimento d’orrore. Vengono alla mia mente la carneficina nella scuole ebrea a Tolosa.
    Un sentimenti di compassione immensa per gli ebrei che vivono in Francia nel paura di essere bersaglio.

    Angoscia.Provo segni nel corpo. Nausea. Male di pancia.

    Sabato. Compro il giornale Libération et la Provence. Leggo gli articoli sugli eventi. I Mulsumani provano paura. Paura dell’ amalgame.

    Ho vissuto questi giorni con emozioni diversi: tristezza, angoscia per il futuro, fiertà di essere francese, desiderio di resistere.

    Domani raggiungerò la marche silencieuse nella mia piccola città di Provenza. Con nel cuore la voluntà di dire: siamo in piedi per difendere la libertà di espressione, la libertà di creazione e di vivere insieme.
    Insieme.

  7. Ringrazio Jamila per la profundità della sua riflessione.
    Ho voluto scrivere di come ho vissuto gli eventi. Una cappa di tristezza. L’emozione era più grande della riflessione.

  8. Penso alle vittime. Mi viene sempre il volto di Cabu. La sua dolcezza.
    Immagino la vulnerabilità degli occhi.
    Immagino l’istante dove hanno capito che la vita era finita.

  9. Non più di tre giorni fa, due poveri mentecatti, armati e indottrinati da un’organizzazione che non può essere definita altrimenti che nazista, hanno radunato una dozzina di persone indifese, tra cui un vecchietto di ottant’anni, e le hanno massacrate senza la minima esitazione.
    A quanto pare non è questa la cosa più importante: la cosa più importante è andare a fare le pulci su quello che queste persone hanno detto e scritto in questi ultimi quarant’anni, per trovare qualche motivo per poter dire che no, non si può essere d’accordo al 100% con quello che loro scrivevano e dicevano.

  10. al momento il tuo articolo Jamila è il migliore per guardare le cose da una angolazione opposta, o meno.
    complimenti.

  11. a poco serve l’Ipocrisia di un Paese come l’Italia, che oggi, in tutti i suoi rappresentanti politici, difende la libertà di satira, quando si è sempre distinto per l’arroganza dei potenti nei confronti di chi li critica.

  12. Sulla solidarietà a Charlie Hebdo.
    In tutta la Francia hanno manifestato 700.000 persone in manifestazioni in gran parte spontanee.
    Sono d’accordo con Giorgio Mascitelli: non esprimere solidarietà ai vignettisti ammazzati (considerati dalla popolazione che si è mobilitata come pars pro toto – sineddoche delle vittime civili, della giovanissima guardia municipale d’origine africana e del poliziotto accorso spontaneamente e trucidato per terra d’origine araba) significa secondo me non credere e non difendere il principio della libertà d’espressione. Questo principio deve valere anche se fossero stati trucidati dei vignettisti apertamente di destra, ossia che esprimono opinioni contrarie alle mie.
    I francesi questo lo hanno capito molto bene. E la mobilitazione mostra che intorno a questo principio i francesi riescono a ritrovarsi persino al di là del fossato politico destra-sinistra. Tali numeri, infatti, mostrano che siamo ben al di là di una mobilitazione puramente di sinistra.

    Proprio perché io credo che il principio della libertà di espressione sia un’acquisizione fondamentale anche nelle democrazie molto imperfette o molto corrotte come le nostre, mi sembra altrettanto importante che oggi, inopportune o meno, si esprimano anche delle voci di dissenso come quelle di Jamila. E che ci parlano di un dibattito minoritario, ma che comunque esiste in Francia e che riguarda una certa area della sinistra radicale.

    Il paradosso è che questa area si ritrova, oggettivamente, in compagnia di un’altra minoranza di “non sono charlie hebdo”. Sono costoro, ad esempio, giovani liceali musulmani e cattolici, che rifiutano l’idea della libertà di dissacrazione (rifiutano l’idea di satira “blasfema”). E anche loro non credono ovviamente nel principio della libertà di espressione.

    La critica politica che posso indirizzare a Jamila è questa. La esprimo in sintesi, perché il discorso sarebbe molto lungo. L’errore di una certa sinistra radicale per me è questo: lo stato opprime ed è di classe, allora siamo contro lo stato; la costituzione è disattesa, allora abbandoniamo la difesa e il lavoro sulla costituzione; il mercato è parassitato dalla logica capitalista, allora immaginiamoci una società senza mercato; la democrazia è una paravento dell’oligarchia, allora odiamo la democrazia; la libertà di stampa, in Occidente, comporta ipocrisie, manipolazioni, conformismi, allora non difendiamo più questo diritto.
    Qui non c’entra la bontà delle analisi – quelle di Jamila sono molto buone -, qui c’entrano le conseguenze politiche che si tirano. Quelel conseguenze per me sono sbagliate strategicamente.

    Un’ultima cosa. La sinistra, quella radicale in particolare, di cui mi sento parte, ha il fantasma del popolo, della classe, della moltitudine – quello che volete voi – autonomo, spontaneo, in grado di esprimersi. Ora, in questi giorni, se c’è qualcosa che assomiglia a questo lo stiamo vedendo in Francia. Mettere tutta questa gente “fuori-gioco”, da un punto di vista politico, mi sembra il solito autogol.

  13. Risponderò più puntualmente a tutti appena posso, perché davvero non vorrei che si pensasse che per qualche motivo voglia prendere le distanze dallo shock, dal dolore e dal senso di rabbia e disperazione che questa cosa suscita in tutti noi, e in tutti quelli che dicono oggi Je suis Charlie. E sono d’accordo con Andrea, sono contenta che ci sia stata una reazione di massa, spontanea, e che se non ci fosse stata sarebbe stato un segno allarmante. Mi interrogo solo su come nel giro di poche ore questa spontaneità abbia cominciato a prendere forma, o abbia cominciato a “ricevere” forma, e i limiti di questa forma “repubblicana”. Chi conosce la Francia sa che République non è una parola scevra di implicazioni politiche forti. A me sembra che si assista a un rapido incanalamento di questa protesta di massa in quella direzione e vedremo cosa ne sarà in futuro. Mi pare anche che questo stia avvenendo in modo pacato (per capirci le parole di Hollande e Valls non sono le parole di Bush, c’è una ricerca del giusto mezzo e della moderazione che meriterebbe di essere osservata per quel che esprime e per come evolverà).
    Quel che mi premeva con questo post non era dire che la condanna assoluta dell’attentato (e anzi degli attentati) e la solidarietà ai disegnatori di CH non abbiano ragion d’essere, sarei completamente cretina (né penso che i disegnatori di CH fossero dei 68ini finiti male, a destra per questioni di senilità, credo però che il clima politico mutato degli ultimi decenni abbia riposizionato anche la satira e che CH abbia fatto negli anni scelte editoriali che non ho condiviso, ma questo non toglie e non aggiunge nulla all’orrore di quello che è successo e alla legittima solidarietà con chi è stato ucciso per motivi infami).
    Mi premeva insistere su un aspetto, che magari può sembrarvi secondario nell’urgenza della commozione e della mostruosità dell’accaduto, ma che per me non lo : riflettere su quello che ci si sta costruendo “sopra” la protesta (come dice Ornella nel commento qui sopra) e non prendermela con chi dice Je suis Charlie (i manifestanti, le perosne solidali ecc.). Ho delle perplessità su quello che si sta costruendo intorno a questo slogan, capitalizzando sconforto, paura e rabbia nell’unione repubblicana si sta profilando all’orizzonte (vedremo che ne sarà, non amo le profezie).

    Segnalo un paio di link:
    http://www.liberation.fr/politiques/2015/01/10/la-tentation-d-un-patriot-act-a-la-francaise_1177894
    e

    e soprattutto:
    http://www.lesinrocks.com/2015/01/10/actualite/luz-tout-le-monde-nous-regarde-est-devenu-des-symboles-
    11545315/

    in cui Luz (disegnatore CH) accenna ai limiti di questo maxi-fenomeno di unità nazionale repubblicana che si sta costruendo con lo slogan Je suis Charlie:
    (Les Inrock) : Vous êtes devenus les étendards de l’unité nationale.

    (Luz): Cet unanimisme est utile à Hollande pour ressouder la nation. Il est utile à Marine Le Pen pour demander la peine de mort. Le symbolisme au sens large, tout le monde peut en faire n’importe quoi. Même Poutine pourrait être d’accord avec une colombe de la paix. Or, précisément, les dessins de Charlie, tu ne pouvais pas en faire n’importe quoi. Quand on se moque avec précision des obscurantismes, quand on ridiculise des attitudes politiques, on n’est pas dans le symbole. Charb, que je considère comme le Reiser de la fin du XXe siècle et du début du XXIe, parlait de la société. Il dessinait ce qu’il y avait sous le vernis, des gens avec un gros nez, un peu moches. Là, on est sous une énorme chape de vernis et ça va être difficile pour moi.

  14. Ho letto tardi il secondo commento di Andrea. Risponderò meglio anche a quello però due cose, essenziali a caldo:
    – le mie posizioni non credo che si ritrovino oggettivamente “in compagnia di un’altra minoranza di “non sono charlie hebdo”. Sono costoro, ad esempio, giovani liceali musulmani e cattolici, che rifiutano l’idea della libertà di dissacrazione (rifiutano l’idea di satira “blasfema”). E anche loro non credono ovviamente nel principio della libertà di espressione.”

    perché credo nel diritto dellla libertà di espressione, perché non ho alcun problema con la satira blasfema né con le dissacrazioni, e perché ahimè quella minoranza che tu indichi non ha alcuna voglia di essere in mia compagnia e anzi possibilmente nel confronto (che sia politico, o familiare) mi respinge e mi insulta. La mia posizione non è, sia chiaro: CH ha esagerato. La mia posizone non è: se la sono cercata. la mia posizione non è: non sono solidale con i morti e con i manifestanti solidali con i morti. La mia posizione è solidarietà con i morti e con quelli scioccati e disgustati come me, ma non con Valls né con la Repubblica.

    La mia posizione non è nemmeno:” la costituzione è disattesa, allora abbandoniamo la difesa e il lavoro sulla costituzione; il mercato è parassitato dalla logica capitalista, allora immaginiamoci una società senza mercato; la democrazia è una paravento dell’oligarchia, allora odiamo la democrazia; la libertà di stampa, in Occidente, comporta ipocrisie, manipolazioni, conformismi, allora non difendiamo più questo diritto.”
    Cioè non odio la democrazia, la libertà di espressione, lo stato. Odio del resto è una parola un po’ fuori luogo. Né è vero nche on difendo conquiste democratiche, costituzionali, misure progressiste perché le ho in odio. Penso che sia necessario difenderle criticandole. questo è essenziale. Penso che non voglio scegliere tra la difesa e la critica, perché l’unica difesa è la critica di queste stesse istituzioni/diritti ecc.
    questo è il problema: posso difendere la libertà di espressione denunciandone i limiti? o posso difendere la democrazia dimostrandone le contraddizioni? Io credo di sì, credo che sia l’unico modo. Non vedo altre difese della democrazia possibili, o meglio le vedo, esistono, ma le trovo davvero poco democratiche.

    E quanto allo Stato, il discorso è diverso: difendo lo stato sociale, difendo i diritti elargiti dallo stato, ma perché devo difendere la Repubblica? la repubblica che discrimina, la repubblica dal passato coloniale e dal presente imperialista, la repubblica laica che usa quella laicità come un bastone contro le sue minoranze. La repubblica che si incarna nelle forze dell’ordine che picchiano, che uccidono, indistintamemnte, anzi distintamente, scegliendo sapientemente i propri bersagli.
    Io non la sento mia quella Repubblica, anzi.

    Pero ripeto il punto fondamentale non è disprezzare e rifiutare la democrazia e le libertà di…perché puntulamente intrise di ingiustizia. Il punto è poterle criticare per questo, difendendole e possibilmente migliorandole (cioè non posso difendere la democrazia così come è perché non la reputo “abbastanza” democratica. per difenderla devo criticarla)

  15. Il I febbraio 2014 su NI commemoravo la scomparsa di Cavanna ricordando che persino Hollande aveva detto che questo spirito caustico e irridente di Charlie Hebdo aveva in certo modo nutrito la sua generazione…Io, come tutti, confidavo anche nella moderazione degli arabi-francesi dopo l’incendio della redazione dell’ebdomadario. Ma poi i rituali macabri delle decapitazioni, dell’affermarsi mediatico dell’IS. Nessuno è immune da colpe a cominciare dalla Francia (noi non ne parliamo…). Fra poco la grande cerimonia di Parigi. Anche dopo l’immane attentato alle 2 torri sembrava che il mondo si sarebbe ravveduto. Ma durò qualche giorno appena. Sarà quest’occasione l’inizio di qualcosa di diverso?

  16. Cara Jamila,

    penso che il tuo intervento sia molto utile perché permette un confronto tra ideali (o principi) generali e concreti contenuti, e permette altresì di vedere questi ultimi non tanto misurandoli sui primi in maniera statica( grossolanamente il concetto del “predicare bene e razzolare male”) ma di coglierne le oscillazioni, la loro storicità in qualche modo.
    Insomma è utile sapere che Charlie Hebdo ha avuto certe premesse politiche e culturali e poi è slittata, almeno in parte, più a destra: all’epoca del pappa e ciccia di un tale direttore con Sarko e poi è stata un po’ così e un po’ cosà.
    Questo non inficia per nulla ogni discorso a livello dei principi – la libertà e la libertà d’espressione – ma per una società (o polis) un principio non è prezioso in astratto, bensì nel momento in cui io posso valutare come viene applicato, e anche lì, possibilmente, con discernimento e attenzione ai dettagli.
    Quindi grazie al tuo pezzo credo di aver capito che non si tratta di dover scegliere in modo binario: o stai con Charlie, la laicità, la libertà d’espressione senza limiti e autocensure, tutta questa roba di cui la Francia è stata e rimane la massima espressione storica, o stai su posizioni più simili a quelle diffuse nel mondo anglosassone, dove pur in presenza del primo emendamento statunitense, sia i “liberal moderati” (vedi il commento critico su certe vignette definite addirittura “stupid” sul Financial Times) che i radical abbracciano, in modi e per motivi diversi, una visione che – per farla semplice – pensa opportuno non offendere i sentimenti religiosi della tal o tal altra communità o non poter far a meno di tenere conto della sensibilità culturale di gruppi minoritari e/o subalterni.
    In questo senso, mi pare che il tuo testo entri davvero in una dialettica viva con quello di Andrea Inglese: perché lui difende “gli autentici miscredenti rompicoglioni” ma scrive pure ” Penso alla libertà d’espressione sempre in termini dialettici. Tale libertà è tanto più meritoria e urgente, quanto più dà espressione a voci e punti di vista che sono minoritari, o resi minoritari dai rapporti di forza all’interno di una società data. “.
    E qui, su questo punto centrale in cui i ragionamenti collimano, torniamo al punto di partenza: il tuo pezzo usa il discernimento critico per dire che, in certi momenti, Charlie Hebdo usava la propria libertà non più principalmente per andare contro il potere ma anche diventandone in una certa misura alleato.
    Scusa se da qui faccio un salto: per me sembra importante capire oggi, importante in chiave politica prima di tutto, quanto possiamo riconoscerci ancora in certi principi che in questa vicenda sono implicati e poi anche – come stiamo vedendo – in parte strumentalizzati.
    Parlo di quelli fondativi della Répubblique – Liberté Egalité Fraternité- ma che, per me, non sono affatto suo appannaggio esclusivo: non sono “valori” nazionali e non sono nemmeno “valori dell’Occidente”. Ragion per cui non esiste nessun diritto e tantomeno dovere di esportazione, però nemmeno alcuna scappatoia paternalistica, orientalistica o chiamala come vuoi tu (anche razzista, per dire), che cerca di ridurre i moti in Tunisia o in Egitto a “rivolte del pane”, perché a quella gente lì mica può davvero importargliene qualcosa di un bene di lusso così occidentale come la libertà.
    Naturalmente – e lo stiamo vedendo nel concreto esempio, così come l’abbiamo visto sotto altri aspetti in questi decenni liberisti – porre l’accento esclusivo o perlomeno molto prioritario sulla libertà contiene già una modificazione importante, se non un tradimento.
    Infatti, i distinguo fatti sia da te che da Andrea possono forse essere presi come ispirati dal criterio dell’uguaglianza e fratellanza che è stato in parte disatteso a vantaggio della libertà (d’espressione oggi, e di tante altre che, messe assieme, rendono la libertà stessa una cosa sempre più piccola sino a farla spesso scomparire).
    Questo per dire che – anche se può sembrare molto astratto rispetto a una strage di persone in carne e ossa e alle sue conseguenze – questa storia orribile ci da un’occasione per ripensare a certe questioni che sono quanto mai urgenti anche per reagire alle molte brutture che sono nell’aria.
    Credo che il contributo del pensiero che si è sviluppato negli Stati Uniti (soprattutto) intorno ai Gender e Subaltern (o “Postcolonial”) Studies sia stato importantissimo, ma che possa comportare delle trappole, dove c’è chi, con successo, sta chiamando in causa scontri di civiltà (e di Culture) apocalittici.
    Se io posso parlare soltanto dal punto di vista del mio gruppo, della mia comunità (di donne, gay, neri, musulmani, minoranze varie ecc.) io contro questi che conoscono i Valori e Principi veri e giusti (dell’Occidente o del Vero Islam) temo di aver già perso.
    Non è un osservazione critica, ma la voglia di discutere con te che hai masticato tanto Hegel quanto – immagino – Spivak, Butler o Angela Davis, e che a tutto ciò può aggiungere quel ingrediente del pensiero non secondario che si chiama esperienza personale. :-)

  17. a jamila
    anch’io ho fatto un passo avanti, ho messo altra carne al fuoco in termini prospettici, nel mio secondo commento. Non intendevo assoldarti tra chi odia la democrazia, ecc. Ho fatto una lista di alcuni errori strategici che, a sinistra, partono da giuste analisi. Intendevo dire che vedo un rischio, in coloro che oggi da sinistra vogliono ribadire il loro “non essere charlie”. E’ come se si potesse oggi in piazza difendere un tale principio, solo se Charlie H. fosse stato irreprensibile nella sua applicazione politica di tale principio. Ma per me non si pone in questi termini la questione. Lo si difende perché questo principio è stato attaccato, in modo inedito in Francia, in modo brutale e fascista.
    Facevo poi altri esempi, che non rigauradano per nulla il tuo pezzo, ma che secondo me applicano una logica simile. Quando durante la primavera araba, i tunisini, i libici, gli egiziani, i siriani, ecc. gridavano “democrazia”, molte voci a sinistra hanno espresso il loro scetticismo, hanno parlato di manipolazione occidentale, ecc. Tutti avevamo in testa il modo in cui l’anmministrazione Bush ha utilizzato il termine “democrazia”, ciò non significava però che fosse risibile la rivendicazione del principio democratico da parte delle popolazioni arabe.
    Insomma, le questioni di oggi, pongono anche delle questioni di strategia politica, di scelta. E per me è inevitibaile che si arrivi a parlare anche di questo.

    Sui giovani liceli che non si riconoscono in Charlie. Ho parlato di un oggettiva alleanza. Il termine alleanza, hai ragione, è forzato. Diciamo oggettiva prossimità, pur ovviamente nella massima disparità soggettiva delle posizioni (politiche).

    Sull’unanimità repubblicana. Sì, hai senz’altro ragione. Per questo d’altra parte il tuo pezzo è utili e importante. Il governo, anzi i governi (non solo quello francese), ecc, stanno capitalizzando questa reazione ppopolare. Eppure, c’è un elemento positivo in questa mobilitazione che non va sottovalutato e guardato con sufficienza. In un clima come quello francese, le cose avrebbero potuto anche partire molto male, per divisioni e opposizioni nette, ma delle peggiori, in senso comunitario. Sono partite, invece, in questo modo. E non mi sembra che questa partecipazione sia per forza un segno di subordinazione piatta alla propaganda politica. Penso che spazi di critica sia riapriranno presto, e che non sono, per forza, venuti meno oggi.

  18. Andrea scusa se insisto (e non vorrei trasformare il tutto in dialogo a due), ma questo punto ci tengo a chiarirlo

    io non sono “prossima oggettivamente” a gente che per quello che dico e faccio, per come vivo, per dove e come milito, perché sono comunista, perché combatto il fanatismo e le cazzate che inculca in testa alla gente, perché accetto la blasfemia delle vignette senza problemi, e per mille altre ragioni mi sputerebbe in un occhio (non dico i liceali che sono giovani e c’è speranza, diciamo i fanatici irrecuperabili). Io rigetto loro tanto quanto loro rigettano me e non c’è prossimità oggettiva, ma scontro. Può parere prossimità a chi guarda da lontano, ma se uno si avvicina e vede bene di cosa sto parlando, vede che in realtà ci sono delle enormi barriere, eccome. Barriere che non mi hanno impedito di protestare contro la legge che vietava di indossare i simboli religiosi nelle scuole, per capirci, ma che spesso (generalizzo volutamente) impediscono a tanti giovani musulmani di partecipare a manifestazioni che secondo me li riguarderebbero, ma che molti di loro invece guardano con sospetto proprio perché popolate da gente come me (o “peggio” di me) e perché meglio la moschea (che a sua volta scoraggia i giovani alla partecipazione al tipo di iniziative politiche a cui partecipo). Della serie magari ci fosse stata più banlieue, più quartiers populaires (e quindi anche più giovani musulmani) alle manifestazioni contro l’assassinio di remi fraisse. e invece no.

    Altra cosa importante per me da chiarire: mi rendo conto che è colpa mia e di come ho costruito il post, ma c’è una distinzione che voglio ribadire visto che si è persa per strada. nel dire “non sono charlie” nella prima parte del post volevo contestualizzare perché non sono stata una fan di Charlie in questi anni. Ma questo non mette in discussione che sono solidale senza se e senza ma con tutti i morti di queste stragi, l’ho già detto anche nel post. Non ho detto: “visto che hanno pubblicato in passato editoriali che a me facevano cagare, non posso solidarizzare con loro quando si fanno ammazzare, perché io difendo la libertà di espressione solo di chi dice cose giuste o per me condivisibili in toto”. Non ho detto questo, mi pareva evidente, mi sbagliavo se devo continuare a ripeterlo.
    Nella seconda e terza parte spiegavo invece che “Je suis Charlie” è diventato lo slogan di una manifestazione che ha, come dici tu giustamente, superato divisioni comunitarie inauspicabili, ma che sta anche facendo sfilare oltre un milione di persone in una marche républicaine cordonata e guidata da illustri leader politici di mezzo mondo da cui credo sia necessario prendere risolutamente le distanze (e non mi riferisco solo a Ali Bongo). Difendere criticando, come dicevo prima, in questa circostanza per me significa manifestare per dire “in omaggio ai morti di CH e gli altri, contro Merkel, contro Lieberman, contro Valls, Renzi e via dicendo”. E in questo non revoco il diritto alla libertà di espressione, ma per quel che mi riguarda lo difendo.

    Anche Le monde nota il paradosso:
    http://www.lemonde.fr/societe/article/2015/01/11/a-la-marche-republicaine-des-dirigeants-peu-attaches-a-la-liberte-de-la-presse_4553626_3224.html

    Un paio di tweet:
    Eric Fassin
    Viktor Orban et M. Rajoy viendront défendre la liberté d’expression avec Ali Bongo et Erdogan. Des nouvelles de Poutine? #MarcheRepublicaine

    Marion Van Renterghem (Le Monde)
    Netanyahu, Lavrov, Orban, Davutoglu, Bongo à la manif pour la liberté de la presse!!! Pourquoi pas Bachar Al Assad?#Mascarade #PauvreCharlie

    Spero poi che questo milione e mezzo di persone non venga usato come consenso preventivo e non autorizzato per una nuova war on terror che alcuni già invocano (Valls). per ora ufficialmente siamo ai rinforzi antiterrorismo: http://www.lemonde.fr/societe/article/2015/01/11/l-europe-et-les-etats-unis-determines-a-renforcer-la-lutte-antiterroriste_4553674_3224.html

    Helena dopo rispondo anche a te, perché è un discorso più complicato e per oggi sono esausta. grazie per il tuo lungo commento intanto.

    • le tue parole non risultano ambigue. Semmai è il senso che appare un po’ opaco. nel momento in cui qualcuno solidarizza dicendo “io sono” e tu rispondi “io non sono” anche se le parole sono chiare qualcosa sfugge. Forse avrebbe più senso chiedersi cosa significa dire “io sono”. Per cui il tuo discorso che non accetta che in nome della solidarietà e della difesa della libertà d’espressione si facciano politiche che reputi sbagliate, appare più chiaro. Forse avrebbe più senso dire a coloro che contesti “no, voi non siete”.

  19. D’accordo Jamila, lasciamo perdere le “prossimità oggettive”, che è alla fine è una formula ambigua e poco utile.
    E poi mi hai chiarito anche meglio la tua posizione. Anch’io, poi, sono un po’ partito su miei temi fissi :)
    In ogni caso, ripeto, sono contento di potermi confrontare con pezzi ricchi e densi come il tuo, sopratutto in un momento simile.

  20. Cara Jamila,
    (Mi permetto tanta confidenza conoscendoti di persona.) La tua analisi dello stile e della linea editoriale di “Charlie Hebdo” è esemplare: dimostra che la satira si giudica sulla base del “lavoro” che fa, se lo fa bene, male o in modo unilaterale. Che non si tratta di ridurre al “politically correct” ciò che per definizione vuole mettere in discussione il bon ton mediatico. Ma proprio per questa ragione, perché la satira si giudica se fa (o non fa) buona satira, non con la violenza, personalmente oggi mi viene di dire “Je suis Charlie”. Resta un punto: al di là di letture globali che rischiano di farci perdere di vista l’evento di per sé, perché tre europei, tre cittadini francesi, di origine maghrebina o africana sentono il bisogno di fare un simile attentato? Non c’è una perdita di senso della realtà in tutto questo?
    Ti saluto e ti abbraccio,
    Dario

    • Caro Dario, capisco la sensazione della perdita di senso davanti a tanta violenza feroce, gratuita e improvvisa. Però credo che il terrorismo, per proporzioni, capacità di penetrazione della società ed effetti, non possa essere considerato un’epifania dell’assurdo. C’è tanta “logica” e tanta ratio nella crescita esponenziale di questo fenomeno, anche in Europa. Insomma un senso c’è, purtroppo, e va cercato nelle dinamiche terrificanti e desolanti che possono spingere i fratelli Kouachi (e molti altri come loro) a operazioni del genere. Non è una logica giustificazionista la mia (del tipo “poveri figli di immigrati emarginati, rigettati dalla Repubblica, che trovano conforto nelle braccia di Al Qaeda o simili”). E’ però una logica realista: considerando l’ampiezza del fenomeno non possiamo trattarlo semplicemente come un’insensatezza, altrimenti rischiamo di banalizzarlo, ma come un fatto allarmante di cui sforzarci di comprendere le cause ricostruendo analisi complesse. Giacomo Sartori nel suo post evoca le ferite coloniali mai rimarginate (e io direi perpetuate), e chiama in causa la scuola, ad esempio. Ed è un discorso secondo me giusto. Ci sono varie linee di frattura che traversano la società francese (provenienza sociale/banlieues/istruzione/violence policière/razzismo di stato) e meriterebbero di essere indagate, perché individuano punti di collisione potenzialmente esplosivi che assumono forme conflittuali di varia natura, e il terrorismo è diventato una di quelle (non lo sto naturalizzando, spero sia chiaro. insisto solo sul fatto che questo fenomeno non è un ufo caduto sul territorio francese). Un abbraccio anche da parte mia

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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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