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Ricordi propri e d’altri. Burri e i prigionieri italiani in Texas

di Elena Frontaloni

hereford

 Della difficile amicizia tra Alberto Burri e le “parole” dice l’artista stesso con le sue poche dichiarazioni e interviste – 3 pubblicate nel corso dell’intera sua vita  –, e dicono anche le testimonianze di critici e conoscenti (meno quelle degli amici intimi e della gente di Città di Castello, con cui pare fosse molto più ciarliero). Per l’ufficialità, in ogni modo, Burri fu uomo orgoglioso e fiero, incline al silenzio e senza dubbio a lasciar parlare da sola la sua arte. Famosa, esibita nel corso dell’intera vita, è la sua diffidenza nei confronti dell’autocommento e della parola critica che vorrebbero spiegare la pittura e non lo fanno o non vi riescono (fin dal 1956 accuserà le proprie eventuali parole e quelle dei critici d’impotenza e imprudenza nei confronti della pittura; e tra i suoi esegeti salverà più tardi, e con non poche riserve puntuali, solo Argan e Brandi). Altrettanto noto è il suo dialogo terso e teso con le parole della letteratura, sia come assiduo lettore, appassionato dei lirici greci, sia come artista che riuscì a creare il mondo parallelo della propria pittura lavorando in maniera insieme filologica e artigianale su testi di Dante, Ungaretti, Saffo in pregiati libri d’arte. Ma Burri dovette in qualche modo fare i conti, nel corso di tutta la sua vita, anche con un altro tipo di parole, che sono quelle che qui mi interessano: le parole del ricordo sui propri fatti e su come divenne pittore, da medico che era. Non fu probabilmente un rapporto facile fin dall’inizio. Perché gli altri in parte dissero verità e in parte crearono leggende, e Burri, come già andava facendo con i critici che leggevano le sue opere, o con chi gliene chiedeva ragione, forse ignorò, forse fece finta di ignorare. In ogni caso, per l’ufficialità, rimase a lungo zitto: col suo atteggiamento fece appunto crescere la leggenda e i “si dice”.

 

Facilmente l’oggetto primo e assoluto di mitizzazione fu questo: Burri divenne pittore dentro un campo di prigionia americano, quello di Hereford, detto “degli irriducibili”, motivo per cui si guadagnò l’etichetta di “fascista”, utilizzata ad esempio per lui dal critico Arturo Schwarz, al quale replicò non Burri ma il suo editore, Politi, mettendo avanti i nomi di Borges e Pound. Ecco, di questa nascita alla pittura dentro un momento tanto sensibile Burri arrivò a parlare solo alla fine della vita, nel 1995, con Stefano Zorzi, che pubblicò subito dopo la morte dell’artista la trascrizione di un lungo colloquio con lui, Parola di Burri, mentre gli storici già avevano iniziato ad accostarsi con i loro strumenti al problema dei prigionieri italiani negli Stati uniti tra il 1943 e il 1945 (un nome tra tutti è quello di Flavio Giovanni Conti, attivo fin dalla fine degli anni Ottanta e che ha recentemente aggiornato il suo grosso volume di studi) e mentre i compagni di prigionia di Burri, tra cui per esempio lo scrittore Giuseppe Berto e il giornalista Gaetano Tumiati, avevano già ricordato, scritto e riscritto: anche di lui, dello scontroso pittore della Città di Castello.

 

Ora la conversazione tra Burri e Zorzi, a mio modesto parere, è un documento molto discontinuo, che solo in parte dà ragione del genio di Burri, e forse anche della sua vita e del suo pensiero, i quali rimangono in qualche modo misteriosi e avvolti in un pudore stizzoso pure dopo la lettura. Burri in pochi casi racconta, e si limita perlopiù, ancora una volta necessariamente, dopo il suo lungo silenzio, a precisare quanto è stato detto della sua vita e della sua pittura. Ma anche in questo caso il suo dire è tanto deciso e chiaro in alcuni punti (quel che è successo) quanto elusivo in altri (quel che si ricava da quel che è successo). Burri infatti dice giusto finché bastano le parole, che non solo nella sua idea, ma anche nel suo modo di usarle per la pittura, il ricordo e la vita, non bastano mai, mostrano sempre la corda e non servono. Come quando gli si chiede del suo rifiuto a collaborare con gli americani al campo: “Certo, io non tradivo. Tutti quelli che allora collaboravano, secondo il regolamento militare, sarebbero dovuti andare sotto processo al loro rientro in Italia. Invece questo non è successo, anzi avrebbero voluto processare gli altri. Che cosa vergognosa: tutti i prigionieri al loro rientro venivano interrogati da una commissione, e a me chiesero: ‘perché lei non ha firmato?’. ‘Perché se avessi firmato sarei stato un traditore della patria, è contro il codice militare, mi avreste dovuto processare!’. Uno parte con un regolamento militare, mica glielo possono cambiare poi… E infatti mica l’avevano cambiato… ne davano ‘solo’ una nuova interpretazione, maledetti schifosi! Io sono andato volontario in Africa a 19 anni con la compagnia Principe di Piemonte. Era il 1935, guerra d’Abissinia, Ambaradan, altro che storie: da soldato semplice, a sparare in prima linea. Mi bucarono anche lo zaino con una pallottola. Poi, tornato in Italia, diventai medico e subito tornai in guerra come ufficiale medico. Ho perso in battaglia il mio unico fratello, che è un eroe militare. Altro che storie. Basta, per favore, vorrei parlarne il meno possibile…” (Parola di Burri, p. 64). Ma forse il succo dell’intervista è proprio questo che sta in queste righe, nella lunga tirata d’inizio e nell’interruzione finale: la precisazione su quanto è già stato detto (spesso da altri), da una parte, e dell’altra il silenzio di Burri, il suo essere sostanzialmente un deluso di destra, lontano dal voto sin dopo il referendum tra monarchia e repubblica e poi per tutta la vita, il suo stare appartato, il suo non voler tornare su argomenti che in tanti hanno voluto trattare con parole velate per difendersi o nascondersi e che sono insieme di storia personale e di storia nazionale. Cito ancora dall’intervista con Zorzi un passaggio utile a capire fin dove arrivano le parole di Burri, che partono sempre da una precisazione, netta, spesso stizzosa, e culminano di frequente in un silenzio, che evita tanto le scuse quanto l’altrui mestiere (il pamphlet, la politica, la chiacchiera, l’invenzione, il “romanzo”): “il re doveva morire alla testa del proprio esercito e non doveva esserci tradimento, perché la cosa che più odio, che più detesto e che più mi fa rabbia, è l’amico che tradisce l’amico. A un certo punto, costi quel che costi, bisogna andare in fondo. Non si discute. Queste sono le mie condizioni. Oramai le conosci… E non ci faccio su una polemica. Ti dico ora queste cose perché è giunto il momento di dirle, ma non le scriverei mai per farne questioni, anche perché, tra l’altro, non sono capace di scriverle. Poi gli altri ci faranno sopra i romanzi che vorranno”.

 

A questo punto vorrei velocemente ripercorrere la vicenda di Burri a Hereford mettendo in dialogo i fatti, i racconti degli altri soldati e prigionieri su quella storia e su Burri, il racconto di Burri su quella storia e sulla sua storia di pittore, tanto intrecciate. Alberto Burri negli anni Trenta aveva già partecipato alla guerra d’Etiopia, era tornato in Umbria come personaggio che s’era ricoperto d’onore. Nel 1940 divenne medico e ripartì per il fronte Africano, con l’intenzione di specializzarsi come medico tropicale. Sbarcò insieme al X battaglione M in Libia nel 1943 e dopo la rotta delle truppe italiane fu preso prigioniero l’8 maggio in una località vicina a Tunisi. Da qui, dopo lunghe marce, intervallate da soste in campi africani di smistamento, i prigionieri italiani che come Burri, lo scrittore Giuseppe Berto e il giornalista Gaetano Tumiati erano destinati ai campi di detenzione degli Stati Uniti, partirono nel luglio del 1943 dal porto di Casablanca. La traversata oceanica durò un paio di settimane. Sbarcati a New York, proseguirono il viaggio in ferrovia per le varie destinazioni. Per Burri e per altri tremila soldati la destinazione finale fu il campo di concentramento di Hereford, nel Texas, a trenta chilometri dalla città di Amarillo. Il campo era dotato di potentissimi fari, posti molto in alto, di acquedotti, di silos e di enormi capannoni che erano riservati al personale americano di custodia. Si arrivava al campo dopo aver attraversato due cancelli, ed ecco torrette con sentinelle e mitragliatrici, riflettori, una doppia fila di reticolati a far da perimetro a uno spazio vastissimo, diviso in quattro grandi sezioni, a loro volta recintate con filo spinato, con le torrette delle sentinelle e tante baracche nuovissime mai abitate. In questo contesto, i prigionieri vissero due momenti, come ricorda Conti. Il primo momento fu di grande benessere, con molto cibo e grandi spazi di tempi liberi specie per i non-collaboratori, che si diedero a una ricca serie di attività ricreative (riviste, mostre etc.). Nel 1945 subentrò un nuovo clima, in dipendenza di alcuni fatti che avvennero in Europa e in America: in Europa la scoperta dei campi di concentramento e l’esaurimento del numero di soldati americani in mano ai tedeschi (passibili dunque di ritorsioni); in America, negli Stati Uniti per la precisione, una forte crisi economica cui fecero seguito vivace rimostranze della popolazione autoctona. In questa fase, ai prigionieri e specie ai non collaboratori venne riservato un trattamento più duro: soffrirono la fame, subirono spaventosi dimagrimenti e versarono in condizioni di salute assai precarie fino al rientro in patria. Di tutto – come del senso di solitudine enorme evocato dal paesaggio, del silenzio, dei lunghi appelli mattutini, del vento che sferzava senza sosta il campo – hanno ampiamente raccontato Berto, Tumiati, e poi Armando Boscolo, Fernando Togni, Roberto Mieville, Adriano Angerilli, Mario Tavella, Renzo Barazzoni, Giovanni Davì, Nino De Totto, Silvio Astolfi, Aurelio Manzoni (ancora una volta riprendo in nomi dal lavoro di Conti). E tra le righe di questi racconti troviamo cenni anche al prigioniero Burri, che da medico divenne pittore.

 

Il primo dato da sottolineare è che Burri compare di rado, mai impigliato nelle diatribe politiche tra i vari gruppi di prigionieri al campo e sempre quale scontroso e silenzioso artista – quanto a presenza “in scena” fa eccezione l’episodio, raccontato da Tumiati, per cui nell’estate del 1945 le razioni furono ulteriormente ridotte a una pagnotta e un’aringa salata da dividere in quattro e dove si dice che con Burri, il futuro celebre pittore, mangiarono un serpente, cuocendolo nella brillantina per capelli. Rimaniamo su Tumiati, allora. È lui tra i primi a ricordare come le iniziali prove di Burri fossero figurative, dedicate ai paesaggi natii, quando parla della felicità dei pittori al campo, e di “Alberto Burri, un medico umbro schivo e malinconico, che popola colline e uliveti di personaggi piccolissimi”. Altri testimoni ricordano nell’agosto del 1945 una mostra d’arte figurativa, artigianato, scultura e pittura, che occupò un’intera baracca, e nella quale furono esposte 219 opere. C’è un segnale del Burri a venire in questo episodio, se l’artista “partecipò alla mostra con un lavoro artigianale Scacchi d’Africa, ovvero un totem di legno che si trasformava in scacchiera, con i pezzi raffiguranti la fauna africana, il tutto intagliato con una lametta” (sempre dallo stesso testimone sappiamo che “i prigionieri, utilizzando materiale di scarto, costruivano un po’ di tutto: sedie, tavolini, mobiletti, lampade, cassettoni, orologi, chitarre, tamburini, violini, oggetti in metallo, sculture, anche lavori d’uncinetto. Ogni tanto presentavano questi oggetti in mostre aperte anche ai cittadini di Hereford, i quali in questo modo potevano vedere i prigionieri sotto un’altra luce e cioè come persone reali, con i loro mestieri e capacità artistiche”, cito ancora dal lavoro di Conti). Burri non ha potuto commentare molte delle notizie venute dopo la conversazione con Zorzi: una più recente testimonianza, raccolta nel 2008 da Francesca Bacci, ci dice che il primo quadro in assoluto, secondo la testimonianza di un ex prigioniero, rappresentava l’interno di una casa “con un camino, una sedia, un fucile e un cane da caccia”; molti altri prigionieri riferiscono che Città di Castello era tra i suoi primi soggetti; emerge inoltre il ricordo di una serie di lezioni di disegno impartite da un veneto, Scattolin, “un acquerellista che usava dipingere a memoria piazza San Marco” e di una serie di acquerelli di Burri, secondo Vittorio Rubiu, “dipinti senza mestiere ma prima di tutto con il cuore a Città di Castello”, dei quali di cui si ricorda qualche titolo: Vecchio al sole, Festa dei morti, Tombola in piazza, Il Veglione. “Qualcuna di quelle tele”, si legge nell’ultima biografia dedicata a Burri, “arriverà dopo la guerra in Italia, grazie ai buoni uffici del’YMCA, Manuela Berto, vedova dello scrittore, ne conserva una, regalata da Burri al marito a garanzia di un’amicizia che durò fino alla morte” (Burri. Una vita, di Piero Palumbo, uscito nel 2007). Proprio a Berto, del resto, si deve forse il più vivido ritratto degli inizi dell’artista, e un ritratto tanto più importante perché nell’intervista con Zorzi viene letto per intero e integralmente discusso dallo stesso autore.

 

Prima vale la pena di tornare però sui temi e gli oggetti dei dipinti e su quel che ne dice lo stesso Burri a Zorzi: se da un lato non li sconfessa, dall’altro tiene a precisare che l’atmosfera del Texas non è stata sua musa più dei monti umbri e che non c’è alcuna relazione tra la sua pittura e il suo precedente mestiere, come avevano voluto diversi critici: “In verità non esiste alcuna relazione tra la mia attività di medico nel periodo della guerra e la mia attività di artista. Non ho mai avuto, come taluni hanno ipotizzato, flash back di alcun tipo su garze, sangue, ferite o altro ancora. L’unica relazione è di tipo consequenziale, e cioè che io, in quegli anni di prigionia nel campo di concentramento, mi rifiutai di esercitare l’attività di medico e mi calai completamente nella pittura. […] In Africa sì avevo fatto il medico: laggiù avevo esercitato la mia professione perché ce n’era davvero bisogno. C’era forse un medico su mille prigionieri, e io avevo una tendina da campo dove potevo esercitare. Fu per questo che, quando fui deportato in America, l’unico bagaglio che portai con me fu lo zainetto sanitario, che conteneva fiale, medicine, e altro ancora. Pensavo che ne avrei avuto bisogno durante la prigionia. E invece fu la prima cosa che mi tolsero […]. Poi ben presto notai che in quel campo anche come medico ero soggetto a forti restrizioni, forse temevano che potessi scappare. Figurarsi, in quel forte così isolato nel Texas… E comunque fu così che, schifato per questa situazione e per il comportamento di chi mi teneva prigioniero, cominciai a dipingere. La pittura era una cosa che mi divertiva moltissimo. Mi aveva divertito sempre molto, fin da quando ero ragazzo” (Parola di Burri, p. 14). La pittura dunque nasce per riempire le lunghe giornate della prigionia, per smemorarsi di quel che c’era intorno: “dipingevo tutto il giorno” dice ancora Burri. “Era un modo per non pensare a tutto quello che mi stava intorno e alla guerra. Non feci altro che dipingere fino alla Liberazione. E in questi anni capii che io ‘dovevo’ fare il pittore. I quadri fatti allora sono per me oggi validi come le mie ultime opere, né più né meno in termini di intensità pittorica. Ricordo che continuavo a cambiare soggetti, a dipingere nuovi quadri e a cambiarli ancora, un’infinità di volte. Questo è stato il mio vero inizio di pittore, e non c’entra le garze medicali, il sangue e le bruciature della guerra. Tutte storie” (ivi).

Come si diceva, quasi tutti i quadri dipinti da Burri durante il periodo di prigionia sono andati perduti. Venuto a conoscenza che, tramite la Croce Rossa, era possibile spedire in Italia i suoi dipinti, Burri li confezionò in un pacco che inviò al suo indirizzo di casa e in seguito ricevette. Più tardi però li distrusse quasi tutti e dei quattro o cinque che racconta di aver salvato, proprio per dimostrare che la sua era una pittura di qualità, non si conosce il destino, con l’eccezione del quadro intitolato Texas, dipinto nel 1944. Rappresentava proprio ciò che i prigionieri avevano sotto gli occhi ogni giorno: una distesa di terra arsa, un mulino, una casupola, le barriere di filo spinato, con il fumo di una locomotiva sullo sfondo. Gli altri, secondo i ricordi di Nello Sarteanesi, erano cinque-sei opere “che avevano tentato di classificare naif: erano macchie geometriche di colore, cominciava a stendere questi colori uno vicino all’altro, era un modo per esprimere un linguaggio, un linguaggio che più sentiva vicino a lui”.  Ma appunto riguardo al Texas, al paesaggio desolato del Texas e di Hereford, si possono leggere alcune righe significative dello stesso Burri, al solito deludente: “io l’Umbria ce l’ho dentro perché l’ho respirata. Questo è il punto. Certi uomini pensano in maniera diversa da altri di altri paesi proprio perché diverse sono le radici e l’aria che si è respirata. Cosa possiamo avere in comune io e Rauschenberg? Io sin da bambino ho respirato l’aria di Città di Castello e paesi circostanti, il che è ben diverso dal respiro di Rauschemberg nel Texas!”.

 

Torno alla voce di Giuseppe Berto. Pochi come lui sono tornati con più costanza e in più occasioni – vivente Burri – sul periodo del viaggio e della prigionia. Di questi temi e luoghi sono intrisi tanto il romanzo Il cielo è rosso quanto i racconti lunghi Il seme tra le spine (le cure mediche), Avvenimento ad Hereford (le conversioni), Prospettive (l’incontro in Italia, dopo la prigionia, con Gae, Gaetano Tumiati), Animali in prigionia (la fame dopo il 1945), 25 luglio in Texas (la caduta di Mussolini). Ma c’è anche un lungo testo integralmente dedicato agli inizi di Burri, come detto, apparso su “Vogue Italia” nel 1966. “Con Berto eravamo amicissimi”, dice Burri quando Zorzi si accinge a leggergli l’inizio del pezzo, e lo lascia fare: “Alberto Burri fu uno di mille prigionieri che, racimolati dagli americani sui campi di battaglia della Tunisia, vennero nell’estate del 1943 condotti a convivere nel recinto numero 4 del campo per prigionieri di guerra di Hereford, Texas, dove furono custoditi fino alla primavera del 1946. Straordinaria avventura, la prigionia, la quale, sebbene grosso modo disgraziata, può talvolta, siccome i detentori offrono del tutto gratuitamente vitto, alloggio e imponenti quantità di tempo libero, dare impulso spirituale alla vita d’ un uomo, offrirle perfino un nuovo indirizzo. In effetti, in quello stesso recinto numero 4 in cui Burri diventò pittore, io diventai scrittore, e se per me si trattò soltanto d’una occasione favorevole che mi consentì di mettere in pratica un’aspirazione che con ogni probabilità mi portavo dentro da un pezzo, per Alberto Burri fu il momento chiave della vita, l’accidente che lo spinse per una strada da lui mai immaginata prima. Io appartenevo alla stessa compagnia di Burri, cioè abitavamo coattivamente a non più di cinquanta passi di distanza, mangiavamo seduti nella stessa baracca, ci schieravamo ad ogni alba e ad ogni tramonto sulle stesse file per venir contati dal sergente americano. Tuttavia per molti mesi io non avrei saputo dire chi, tra i miei mille compagni di pena, fosse Alberto Burri. Non lo conoscevo, non sapevo la sua faccia, però ne conoscevo la leggenda. È abbastanza strano che un uomo terragno come Burri, cioè ancorato alla terra al pari di un contadino di buona razza etrusca, sia costantemente accompagnato da leggende: la leggenda di come dipingeva, di come abbia fatto fortuna, di come viva isolato e scorbutico nel suo casal di Grottarossa o sui mondi sopra città di Castello, dove ha una casa di campagna irraggiungibile solo con mezzi cingolati. La leggenda di Burri che circolava nel campo di Hereford era che v’era tra noi un medico il quale, schifato dell’umanità, aveva deciso che gli uomini non meritavano più le sue cure, e perciò s’era riproposto di non fare più il medico.” Come si vede, Berto sottolinea il sentimento di “schifo” per quel che c’è intorno che a detta dello stesso Burri lo ha condotto a dipingere, come Burri comprende l’ironia di Berto, il suo modo amaro di scherzare sul tempo libero e sullo “schifo” degli uomini: “Una parte di verità c’è in tutto questo”, commenta. “È vero che gli uomini mi avevano schifato. In guerra, e per di più in prigionia, si impara a conoscere gli uomini, e quegli uomini a me facevano schifo. Ma quello che non è esatto è che per me gli uomini non meritavano le mie cure. Questa è una forzatura nel tono ironico di quanto è scritto”.

La parola finale di Burri sui suoi inizi di pittore è dunque pittura come libertà tramite sottrazione: la pittura come arte che gli consente di essere libero senza dire il suo modo di essere libero, rimanendo tra gli uomini, ma distanziato da loro: una condizione, questa, che è la stessa prigionia ad avergli insegnato, come scopriamo dalla conversazione con Zorzi che è un testo scientifico e non uno di critica o di filosofia ad avergli ispirato la sua unica definizione d’arte: “la nostra stabilità è solo equilibrio e la nostra sapienza sta nel controllo magistrale dell’imprevisto”. Poco dopo c’è anche una precisazione su un altro mito di Burri a Hereford: l’essere autodidatta. Burri in effetti dice di non aver avuto maestri, ma di essersi in qualche modo affidato a un pittore piuttosto noto all’epoca, d’esperienze futuriste, di Genova, Dino Gambetti: “Ricordo in particolare quello che per me era l’unico vero pittore del gruppo: il capitano Gambetti di Genova. Gli altri si divertivano a sporcare le tele. Il capitano Gabetti dipingeva veramente, aveva già partecipato a numerose mostre importanti prima della guerra”; subito dopo questo ritratto, l’amarezza per i “sommersi” del dopoguerra, per questioni artistiche e d’adesione politica, ma tutta contenuta in un racconto, senza giudizi morali: “Un giorno venne a vedere quello che io facevo, e allora gli dissi: ‘Capitano, guardi che io ho deciso di fare il pittore, di non fare più il medico. Che ne dice lei? Che ne dice?’. ‘Lo puoi fare, lo puoi fare. Tu lo puoi fare. E anzi ti dirò di più: quando torneremo in Italia, sarà più facile fare il pittore per te che per me’. E fu proprio così. In seguito capii meglio quello che aveva voluto dirmi: sarebbero cambiati i tempi, le mode, e lui avrebbe fatto fatica a reinserirsi. Al rientro in Italia, poi, non ebbi più sue notizie: Genova era così lontana, lui era un tipo molto chiuso, io non ne parliamo… Molto tempo dopo, solo una volta, passò a Roma per salutarmi” (si può leggere su questo episodio, così laconicamente rammemorato da Burri, un ricordo di Luciano Caprile, apparso sull’Espresso qualche tempo fa).

Ecco, e qui Burri torna a starsene in silenzio. Senza maestri, senza odio per gli uomini, con lo “schifo” per gli “amici che fanno la guerra agli amici”, per chi gli ha impedito di curare gli uomini e di farsi onore in battaglia. Questo, da quel che sappiamo per bocca sua, gli ha insegnato la guerra e Hereford. Ma forse anche il rendersi irriconoscibile, irripetibile, come comprese bene nell’insolita veste di filastrocchiere Cesare Brandi, la prima volta che lo conobbe, nel 1960, scrivendogli questa claudicante poesiola, che qui trascrivo dall’autografo riprodotto dalla biografia Burri, una vita:

 

Burri, una lepre,

c’est la lèpre?

Burri, gli uccelli,

sono uccelli?

Burri – alle corte! –

la vita è la morte?

Non ci son le rime in urri:

è Burri una parola

che rima da sola

come la sorte

con la morte

come la vita,

che al principio e alla fine

ha lo stesso confine.

 

*

 

(Nell’immagine una foto del campo di prigionia di Hereford, Texas.)

 

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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