Per soldi, non per amore. Contropiano dalle cucine

 

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di Jamila Mascat

“Lo chiamano amore. Noi lo chiamiamo lavoro non pagato. La chiamano frigidità. Noi la chiamiamo assenteismo. Ogni volta che restiamo incinte contro la nostra volontà è un incidente sul lavoro. Omosessualità ed eterosessualità sono entrambe condizioni di lavoro. Ma l’omosessualità è il controllo degli operai sulla produzione, non la fine del lavoro. Più sorrisi? Più soldi. Niente sarà più efficace per distruggere le virtù di un sorriso. Nevrosi, suicidi, desessualizzazione: malattie professionali della casalinga”.

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Nel 1975 il New York Wages for Housework Committee pubblica un opuscolo rosso intitolato Counterplanning from the Kitchen*, a cura di Silvia Federici e Nicole Cox.  Si tratta di due articoli  brevi (in tutto meno di trenta pagine):  il primo, che dà il titolo al fascicolo omonimo, e l’altro intitolato “Capital and the Left”. Il libretto viene tradotto in italiano tre anni dopo, nel 1978. Stesso titolo, ma copertina turchese, edito da Marsilio e curato dal Collettivo Internazionale Femminista, contiene in più il testo-manifesto di Federici “Salario contro il lavoro domestico”**.

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“Molto spesso le difficoltà e le ambiguità che le donne esprimono rispetto al salario per il lavoro domestico derivano dal fatto che lo riducono a una cosa, a un po’ di denaro, invece di considerarlo come una prospettiva politica. La differenza tra questi due punti di vista è enorme. Vedere il salario al lavoro domestico come una cosa invece che come una prospettiva politica significa scindere il risultato della nostra lotta dalla lotta stessa e quindi non coglierne l’azione di demistificazione e sovversione del ruolo a cui le donne sono state relegate nella società capitalistica.”  Al contrario, la richiesta di un salario esprime il rifiuto del lavoro domestico e la volontà di disintegrare il “ruolo femminile” costruito ad hoc per incarnare le virtù della cura. “In realtà, quanto poco naturale sia essere una casalinga è dimostrato dal fatto che ci vogliono almeno venti anni di socializzazione, un tirocinio giornaliero diretto da una madre senza salario, per preparare una donna a questo ruolo, e per convincerla che figli e marito sono il meglio che può aspettarsi dalla vita.”
CK5[Siamo Tante, Siamo Donne, Siamo Stufe!,  Collettivo Editoriale Femminista, 1975]


 Per le femministe protagoniste della campagna Wages for Housework, la battaglia per il salario è rivoluzionaria, nella misura in cui rivela i costi occultati della riproduzione sociale e rifiuta la divisione sessuale del lavoro (l’uomo in officina/la donna in cucina). “È importante riconoscere che quando parliamo di lavoro domestico non parliamo di un lavoro come gli altri, ma della più grossa manipolazione, della più sottile e mistificata violenza che il capitale abbia mai perpetrato contro un settore della classe operaia. Certo, nel capitalismo ogni lavoratore e ogni lavoratrice è manipolato e sfruttato e il suo rapporto con il capitale è completamente mistificato. Il salario crea l’impressione di un scambio equo: tu lavori e vieni pagato. Quindi tu e il tuo padrone siete uguali, mentre in realtà il salario piuttosto che pagare il lavoro che fai, nasconde tutto il lavoro non pagato che si traduce in profitto. Ma almeno, il salario riconosce che sei un lavoratore e puoi contrattare le condizioni del lavoro e l’ammontare del tuo salario, e puoi lottare contro le condizioni e la durata di questo lavoro. Avere un salario significa essere parte di un contratto sociale e non ci sono dubbi circa il suo significato: tu lavori non perché ti piace o ti viene naturale, ma perché è l’unica condizione a cui ti è permesso di vivere. Ma per quanto tu possa essere sfruttato, tu non sei quel lavoro. Oggi sei un postino, domani un camionista. L’unica cosa che conta è quanto lavoro devi fare e quanti soldi riesci a prendere.”

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[Siamo Tante, Siamo Donne, Siamo Stufe!,  Collettivo Editoriale Femminista, 1975]

Le “operaie della casa” osservano che “nel caso del lavoro domestico, la situazione è qualitativamente diversa. La differenza consiste nel fatto che il lavoro domestico non solo è stato imposto alle donne, ma anche trasformato in un attributo naturale del nostro corpo e della nostra personalità femminile, un’esigenza interiore, un’aspirazione, che si suppone derivi dal profondo della nostra natura. Il lavoro domestico è stato trasformato in un attributo naturale e non riconosciuto come contratto sociale, perché era destinato a non essere retribuito. Il capitale ha dovuto convincerci che si tratta di un’attività naturale, inevitabile e persino gratificante per farci accettare di lavorare senza salario. A sua volta, il fatto che il lavoro domestico non fosse retribuito, è stato il mezzo più potente per rafforzare l’opinione comune secondo la quale esso non è lavoro, impedendo alle donne di lottare contro di esso, se non durante le liti familiari che l’intera società è concorde nel ridicolizzare, svilendo così ancora di più le protagoniste di queste lotte. Siamo viste come bisbetiche, non come lavoratrici in lotta”. Esigere un salario dallo Stato è la maniera più efficace di denaturalizzare e desessualizzare il lavoro domestico e ricondurlo alle sue origini: non un gesto d’amore, bensì un mestiere imposto e ingiustamente non retribuito. Rivendicare il salario al lavoro domestico significa perciò “riconoscere che la forza-lavoro non è una cosa naturale, ma deve esser prodotta… e che ogni famiglia e relazione tra i sessi diventa un rapporto di produzione. In altre parole – conclude Federici in un’intervista recente su Viewpoint Magazine – il capitalismo non si sviluppa solo in fabbrica ma piuttosto nella società”***.

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[Siamo Tante, Siamo Donne, Siamo Stufe!,  Collettivo Editoriale Femminista, 1975]

Al 1975 risale anche l’uscita di un opuscolo cartaceo tratto dall’audiovisivo Siamo Tante, Siamo Donne, Siamo Stufe!, realizzato da Chiara Gamba, Franca Geri, Adriana Monti, Grazia Zerman del Gruppo femminista milanese per il Salario al lavoro domestico***. Il documento viene pubblicato dal Collettivo Editoriale Femminista, che nasce a Padova nel 1974. L’audiovisivo, composto da varie diapositive che vengono proiettate e sincronizzate con un nastro su cui sono incisi il parlato e le musiche, viene pensato come uno strumento di intervento più efficace dei volantini e dei giornali cartacei per discutere tra donne della propria condizione di sfruttamento (domestico e non). Viene ideato dal gruppo milanese di Lotta Femminista. Quando LF si scioglie nell’ottobre del 1974, la campagna per il Salario al lavoro domestico viene portata avanti dai Comitati di Padova, Venezia, Trieste e Trento, e dai Gruppi femministi di Ferrara, Milano, Modena, Firenze e Napoli.

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Infine, siamo ancora nel 1975, viene pubblicato a cura del Collettivo Internazionale Femminista di Padova, Le operaie della casa (Marsilio, 78 pagine). La copertina questa volta è rosa. Il salario è sempre al centro delle rivendicazioni. Si tratta di farne “una leva di potere per cui le donne riescano in una posizione di forza a contrattare le condizioni del lavoro domestico stesso, le condizioni del lavoro esterno, le condizioni dei servizi, le condizioni della procreazione e della sessualità.” Come spiega Mariarosa Dalla Costa in un intervento del 2006 (“Autonomia della donna e retribuzione del lavoro di cura nelle nuove emergenze”), “la maternità divenne un punto cardine del nostro discorso: se la produttività della famiglia capitalistica e del corpo femminile passava per la produzione di figli, la liberazione della donna passava anche attraverso il rompere con questa imposizione, con questa unicità di funzione ascritta, con la fissità di questo ruolo. Da cui lo slogan Donne, partoriamo idee non solo figli!, un grido di liberazione dal comandamento biologico, un invito a una creazione diversa, partorire idee che riuscissero a generare un altro mondo dove il ruolo di moglie-madre non costituisse l’unica identità possibile né fosse pagata a tale prezzo di fatica, isolamento, subordinazione, mancanza di autonomia economica”.


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Sul retro del libro si legge:

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Commenta Adriana Perrotta qui sotto: “Suonano datati lo stile sloganistico, siamo nel pieno degli anni Settanta (così si parlava e si scriveva per smuovere le coscienze e invitare alla lotta), il rubricare tutto a lavoro domestico (mentre il concetto di cura è ben più ampio e complesso, come hanno messo in luce le ricerche e gli studi degli ultimi 40 anni); sbrigativo non considerare l’interiorizzazione di un modello di codificazione dei ruoli sessuali (derivato dalla divisione dalla del lavoro operata dal patriarcato) con tutte le conseguenze psichiche indotte, sia per gli uomini che le donne (le interiorizzazioni di fantasie, attese paure, immagini di genere…., la naturalizzazione di un ruolo che costituisce comunque uno straccio di identità al quale aggrapparsi, per spremerne ogni goccia di contropotere). Non a caso l’iniziativa dello “sciopero” del lavoro domestico lanciata allora fallì, perché molte dicevano che non volevano andare contro le esigenze di figli,…e quanti/e dipendevano dalle loro cure quotidiane. Sembrava che il “nemico” diventassero i “familiari” e non il sistema. Infatti allora si era in pieno “separatismo” di analisi, teorie e pratiche; il non aver coinvolto gli uomini, ugualmente dimidiati nella loro potenzialità dalla divisione patriarcale del lavoro, e l’aver completamente sottovalutato il terreno delle relazioni tra donne e uomini, tra donne e donne, tra uomini e uomini, l’ambito dell’affettività della sessualità, della creatività, cioè la dimensione dell’”autocoscienza”, fieramente avversata da alcune come terreno “borghese( su questo si era separato in due spezzoni il collettivo di Lotta Femminista di Milano), ha determinato il fallimento di questo filone del femminismo che sarebbe stato allora molto importante e “rivoluzionario”.
Ma la prospettiva politica: il discorso della cura come effettivo e efficace motore di cambiamento radicale del modo di produzione e consumo capitalistico-patriarcale, è quello sempre più urgente oggi.”*****

La cura introduce una variante nel discorso inaugurato negli anni Settanta dalla campagna per il Salario al Lavoro Domestico. Per molti versi, le compagne d’allora contestavano un sistema patriarcale che imponesse loro la propensione alla cura, quintessenza del femminile naturalizzato. Ripensare la cura contro quello stesso sistema e pensarla addirittura come un’arma per scalfirlo è una scommessa non scontata, a fronte degli esercizi di valorizzazione della cura e dell’affettività in cui il capitalismo contemporaneo si dimostra  estremamente abile.

 

* Qui il pdf del fascicolo in inglese.

** Questi scritti (e altri più recenti di Federici) sono stati pubblicati da Ombre Corte in:  S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista (trad. it. e cura di Anna Curcio, Verona, Ombre corte, 2014, pp. 150).

*** Sempre su Viewpoint segnalo un approfondimento/dibattito sul rapporto tra patriarcato e capitalismo: Gender and Capitalism: Debating Cinzia Arruzza’s “Remarks on Gender”.

**** Qui il pdf dell’audiovisivo.

***** Se ne è discusso e scritto nel numero 9 della rivista in rete Overleft. Rivista di culture a sinistra, tutto dedicato a questo argomento, http://www.overleft.it

Molti dei documenti relativi alle lotte femministe per il Salario al lavoro domestico – opuscoli, libri, volantini, manifesti stampati tra il 1971 e il 1978, insieme a foto di quello stesso periodo– si trovano qui.

 

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19 Commenti

  1. Qualcun@ può spiegarmi quando si è diffusa questa idea evidentemente sbagliata che la divisione del lavoro è una faccenda che ha a che fare col capitalismo?

    • In realtà il punto è piuttosto il modo specifico in cui il capitalismo organizza la divisione sessuale del lavoro (e non se il capitalismo è l’origine della divisione sessuale del lavoro, questione interessante ma di portata storico antropologica su cui potrei dir poco). E il dossier di Viewpoint su gender and capitalism a cui rinvio nel post (https://viewpointmag.com/2015/05/04/gender-and-capitalism-debating-cinzia-arruzzas-remarks-on-gender/), approfondisce l’argomento (senza peraltro occuparsi nello specifico di Federici e Wages for Housework): cosa si intende per patriarcato e quale è il rapporto specifico che l’assetto patriarcale intrattiene con il capitalismo contemporaneo.
      L’intento di questo post, che non è nient’altro che una ricostruzione supersintetica di testi prodotti negli anni ’70 sul tema del salario al lavoro domestico, è sondare l’effetto fanno: come e quanto queste parole risuonano oggi nelle vite di uomini e donne variamente posizionati nello scacchiere dei lavori produttivi e riproduttivi. Se è vero che per molte donne in questa parte del mondo la condanna al lavoro domestico non è più vissuta come tale (si potrebbe poi approfondire il discorso sulla delega a terzi del lavoro domestico e di cura), mi pare che la questione della naturalizzazione e sessualizzazione della cura – e del lavoro in genere – sia una questione tutt’altro che tramontata.

      • Ma io non mi riferivo solo al capitalismo come origine, e non c’è bisogno di essere esperti, su qualsiasi libro di divulgazione o scolastico, e pure nei documentari sugli animali, si vede come la divisione dei compiti per sesso c’era prima del capitalismo (ed è nel capitalismo che le donne possono fare meno figli nella storia umana: meno delle donne delle società di caccia e raccolta, che già ne fanno meno di quelle delle società stanziali basate sull’agricoltura). E basta vedere le nostre vite per capire che non c’entra niente. Non riesco a capire perché dici che il capitalismo organizza. Il capitalismo non è un agente, non ha finalità. Le divisioni che possiamo talvolta riscontrare e la sessualizzazione di certi lavori dipendono ancora da strutture e mentalità passate, che con il capitalismo non hanno nulla a che vedere. Non c’è proprio alcun rapporto.

        Queste rivendicazioni suonano oggi più che anacronistiche, insensate come programma politico, proprio perché si basano sulla concezione sbagliata che il capitalismo abbia dato dei ruoli alla donna. Se le donne oggi hanno più soldi è proprio perché vivono in una socetà capitalistica, che produce ricchezza e possibilità di studiare e di lavorare fuori casa. Legare un reddito al lavoro domestico, e solo per le donne, sarebbe invece un incentivo a restare a casa e a fare solo quello. E oggi fare i salti mortali logici per riconoscere il valore del lavoro riproduttivo come rivendicazione di genere per me non ha molto senso.

        grazie per il link e per la risposta

        • Sì, ho presente i documentari animali e i manuali di storia sull’argomento. volevo dire che non so dire molto su società matriarcali, Malinowski e studi del genere. Ora quando dici il capitalismo non è un agente e non organizza, magari dovremmo capire cosa intendiamo: io direi che è un agente impersonale, ma diciamo che è un modo di produzione, cioè un sistema, e organizza eccome anche senza intenzioni, nel senso umano del termine. Questo non significa che è una cospiratore cattivo, solo che definisce il modo in cui il lavoro viene organizzato. Su cosa c’entrino le donne e il lavoro delle donne con tutto questo, rimando a Federici: https://intersezioni.noblogs.org/traduzioni/intervista-silvia-federici-e-la-caccia-alle-streghe/.
          Il punto non è dire che il capitalismo opprime le donne più del feudalesimo. Si potrebbe perfino dire provocatoriamente che la rivoluzione industriale immette le donne nel circuito lavoro produttivo e le libera dal lavoro domestico, ma non è così. Il lavoro domestico e di cura, come spiegano le femministe di Wages for Housework, resta un compito sessualizzato e naturalizzato al femminile anche quando si somma al lavoro in officina. La rivendicazione del reddito è un modo per dire: guardate qua, c’è lavoro non pagato che serve alla riproduzione della della forza lavoro, come la mettiamo?. E questo secondo me vale sempre, con la differenza – come dicevo – che esiste anche delega del lavoro domestico. Sono parzialmente d’accordo con te quando dici che in un certo senso le possibilità di studio e lavoro state offerte alle donne proprio da questo sistema, e infatti nessuno dice “il capitalismo non fa lavorare le donne”. Al contrario si parla di “femminilizzazione del lavoro” (http://economia.unipv.it/pagp/pagine_personali/afuma/didattica/sem_capitalismo_cognitivo/Materiale%20Didattico/Femminilizzazione%20del%20lavoro%20-%20Morini.doc.). Ma qui non faccio i salti mortali per far “riconoscere” il valore del lavoro riproduttivo (omaggio alle casalinghe) né le femministe di Wages for Housework ambivano a un riconoscimento di quel tipo: in realtà esigere che ci sia riconoscimento significa far ammettere che la società produce e si riproduce e i costi di questo secondo processo, tutt’altro che inessenziale, sono ricaduti e ricadono sulle donne.

          • Ma questi che chiami costi non dipendono dal capitalismo. I figli li fanno le donne e in genere li curano le donne perché così ci siamo evoluti. E anzi ancora è solo nel capitalismo che c’è abbondanza di ricchezza per cui una donna prende un assegno di maternità e può pensare solo a crescere suo figlio, perché c’è chi lavora per lei, mentre in tutte le altri parti del mondo e epoche farebbe e faceva più figli e nel frattempo lavorando. I salti mortali logici sono questa idea di voler chiamare lavoro una cosa che lavoro non è. Non è che se io mi alleno un’ora al giorno posso battere cassa per una presunta minore spesa futura della sanità. E se un@ a casa ha i pavimenti che risplendono o le formiche che banchettano sono affari suoi, indipendentemente dalla società in cui vive, perché a nessuno piace cedere risorse a gratis.

  2. Che vogliamo fare, sig. Stefano? Escludere a sciabolate un argomento così centrale nella vita delle persone, solo perché chiama in causa il totem del “capitalismo”? L’argomento merita meno semplificazioni di comodo e più attenzione. Non fosse per il fatto che bisogna augurarsi (e darsi da fare) che il futuro nostro e dei nostri discendenti sia almeno pari alle aspettative che ogni genitore, degno di quell’appellativo,ha per la propria prole. Non vedo il suo “capitalismo” poi così tanto prodigo di ricchezza da donare, anzi credo prorpio (massimalizzando né più né meno di come faccia lei), che se le persone, nei secoli (ecco che viene buono anche il manuale di storia), non avessero lottato con ogni mezzo contro la sopraffazione feroce, avremmo poco da pascolare… Anzi, sa cosa le dico? Ad aver lasciato fare al “capitalismo”, non avremmo proprio di che ragionare. Una sana barricata, a strozzargli il gozzo a sto andazzo, ogni tanto, è tanta salute. Mi creda.

    • Io posso certo semplificare l’argomento, anche se vorrei capire qual è l’argomento. Però vorrei almeno essere corretto per quello che affermo e non per quello che non affermo. Non considero il capitalismo un totem intoccabile, non sono per l’everything goes e neanche mi piace particolarmente. Solo non vedo cosa c’entra in tutto questo discorso.

      • Facciamo finta che non stiamo qui a discutere su “se il capitalismo è buono o cattivo” (facciamo finta, perché lo sappiamo che è una porcheria, benché costellata di invenzioni e innovazioni stratosferiche), e torniamo sulla questione. Io, Stefano, non capisco come faccia a sfuggirti il punto: il rapporto tra organizzazione del lavoro produttivo e riproduttivo. “I figli li fanno le donne perché così ci siamo evoluti” è una frase che non capisco: i figli li fanno le donne (allo stato attuale materialmente sì, è vero), ma questo non significa che il lavoro di cura dei figli e della casa sia naturalmente appannaggio delle donne a scopi evolutivi ( è fin troppo banale quello che dico, immagino tu sia d’accordo). Cosa c’entra l’evoluzione (naturale)? Il capitalismo c’entra invece perché checché tu ne dica le condizioni di riproduzione della forza lavoro stanno a cuore al capitalismo (e non è questione di gusti : pavimenti puliti vs scarafaggi sotto il letto) che per l’appunto le organizza. La famiglia moderna è la forma di organizzazione capitalista della riproduzione sociale, famiglia che poi assume tante forme, si trasforma, si evolve, e si “snatura” pure fortunatamente. Quando dici “chiamare lavoro quel che lavoro non è”: di nuovo questo è il succo. Le compagne di SLD dicevano: siamo la metà della classe, quella non retribuita, facciamo qualcosa che serve al modo di produzione perché gli consente di continuare a esistere, ovvero senza donne in cucina, niente uomini in officina (e spesso donne sia in cucina che in officina). Ripeto capisco l’effetto di anacronismo di queste parole, eppure credo che la questione al fondo, come interrogativo, vada posta oggi come ieri prioprio per snaturare quel che naturale non è.

        • La gestazione nella specie umana è toccata alle donne, così per milioni di anni la cura della prole. Oggi è differente per la cura, come è differente in varie specie per motivi naturali, per noi culturali. Tutto qua, non volevo attribuire destini naturalistici. Le donne pre era capitalista non facevano figli? Non lavoravano come tutti per sopravvivere? La loro sussistenza era dovuta al lavoro che facevano, non al fatto che facessero figli, anzi, cosa su cui non è che avessero molta opinione in capitolo. La riproduzione della forza lavoro, la riproduzione e basta direi io, sta al cuore della vita stessa, il capitalismo ne trae il motore, ma questa è sempre esistita e sempre esisterà, fino all’estinzione. Il capitalismo è un fenomeno di passaggio. Non è che la gente si riproduce per far esistere il capitalismo, si riprodurrebbe comunque e dovrebbe comunque lavorare per vivere. Se l’umanità si fosse evoluta in un solo sesso pensi che non ci sarebbe stato ugualmente il capitalismo? Si può certamente stabilire che il reddito spetti a chiunque già solo perché è vivo, ma questa è una decisione che attiene alla società, se le persone decidono di condividere le risorse, che è una decisione che si è sempre presentata ed è indipendente dal capitalismo. Ogni azienda paga i propri dipendenti e delle tasse, quello che si propone è di farle pagare più tasse, ovvero di perdere profitto in favore di un lavoro che non gli frutterà nulla e che le donne farebbero comunque perché la vita è fatta così (puoi non fare figli, ma se vuoi sopravvivere qualcosa devi fare). Va bene, mica mi dispiace.

          Se la famiglia fosse la forma di organizzazione capitalista della riproduzione sociale, non potrebbe cambiare forma. Se lo fa, e lo ha già fatto, è perché fra le cose non c’è la relazione che dici.

          L’anacronismo è il fatto che oggi i compiti domestici non sono divisi come allora, e quel disegnino con le varie faccende domestiche era già assurdo, poiché se una donna era sposata il suo lavoro domestico era già retribuito dato che il marito condivideva il suo reddito con lei. Oggi due ragazzi single, maschio e femmina, svolgono ognuno le proprie faccende, chi li dovrebbe retribuire? E per cosa e con cosa, se non lavorano veramente? Quello che è successo è che le donne hanno cominciato a percepire reddito per un lavoro che produce ricchezza, perché è questo che tiene in piedi il capitalismo, non la riproduzione sociale, che è sempre esistita e produce solo bocche da sfamare.

          • Mi permetto di prendere spunto esattamente da questa frase:

            “Il marito condivideva il suo reddito con lei”

            Questa penso sia una delle motivazioni più forti delle battaglie per retribuzione del lavoro domestico. La posizione sociale e culturale (prima ancora che produttiva) decisa per la donna come “colei destinata alla cura dei figli, della casa e del marito” la rendevano economicamente dipendente dal proprio coniuge.
            Non aveva nessuna possibilità di indipendenza economica e questo era uno dei motivi che non le permetteva di potersi staccare dal nucleo familiare in caso ne avesse desiderio che fosse per mancanza d’amore o per vera e propria violenza.
            La donna per sfuggire alle mura domestiche non aveva nessuna risorsa economica, quindi nessuna possibilità di farlo.
            Questo non vuol dire che c’è stato un momento nella società pre-capitalistica dove le donne stavano meglio o avevano più diritti o altro.
            Però attenzione a non confondere alcune cose: non è il capitalismo che “da la maternità” o altri diritti. La logica capitalista è profondamente lontana e contraria a ogni forma di stato sociale, che non genera profitto ed è solo spesa.
            Lo stato sociale è il frutto di anni e anni di cruente battaglie tra classi sociali, battaglie in cui sono state riportate molte vittorie tra cui proprio la maternità/paternità.
            Una forma di ridistribuzione del capitale che è costata diversi morti in piazza, scioperi e conflitti.

          • M. grazie per le precisazioni (doverose) sulle battaglie per lo stato sociale e i costi militanti.

          • m, cerco di spiegarmi meglio, per chiarire le cose di fondo sulle quali sono d’accordo e quelle sulle quali non lo sono.
            Ciò su cui sono d’accordo sono le rivendicazioni delle donne di allora, sia per quanto riguarda l’aspetto economico che quello dell’emancipazione. E certo conosco un po’, non in maniera approfondita, le vicende storiche legate alle lotte per lo Stato sociale.

            Detto questo non credo di far confusione, più che altro perché non volevo intendere che sia il capitalismo a dare o non dare certe cose. Questo credo di averlo detto, per quel che posso capirne, nel negare ogni naturalizzazione e antropomorfizzazione che cerca di descriverlo. Il capitalismo è un nome che abbiamo dato a un modo di fare, non può avere logiche. Quel che cercavo di dire è che differentemente dal passato, nel capitalismo si dà una certa ricchezza, e si può distribuirla. Senza capitale non c’è nulla da distribuire. Questo non vuol dire ovviamente che è solo nel capitalismo che si può produrre questa ricchezza. Ma qualsiasi sistema immagini, sono le persone che accettano o meno di condividere le risorse.

            Venendo al punto del lavoro domestico, l’indipendenza (diverso sarebbe il caso in cui una donna si creasse la sua indipendenza economica lavorando per estranei come domestica) e il riconoscimento che quelle donne cercavano non potevano ottenerle in quel modo, e infatti l’hanno ottenute in un altro modo, poiché avrebbero preso uno stipendio per essere mogli, che avrebbe significato ugualmente essere economicamente dipendenti. Il che non è di per sé una cattiva cosa, solo mi pare che volessero altro. Non è la logica capitalistica ad essere contraria allo Stato sociale, è la logica umana (più che contraria, con atteggiamenti conflittuali in merito). Se tutti siamo assistiti dallo Stato mi dici chi produrrebbe già solo il cibo che mangiamo? Se immaginiamo una società diversa, moderna, nella quale tutti partecipano alla produzione secondo le proprie possibilità e condividono le risorse secondo i propri bisogni hai comunque una società nella quale le donne fanno i figli, a meno che un giorno inventeranno degli uteri artificiali, e nella quale tutti lavorano, certo meno che oggi e senza la pressione e le ingiustizie di oggi. Mi dici cosa cambia dal punto di vista del lavoro domestico e del lavoro di cura? Forse si smetterà di educare i figli, fargli da mangiare, si lasceranno al loro destino gli anziani?

  3. Suonano datati lo stile sloganistico, siamo nel pieno degli anni Settanta (così si parlava e si scriveva per smuovere le coscienze e invitare alla lotta), il rubricare tutto a lavoro domestico (mentre il concetto di cura è ben più ampio e complesso, come hanno messo in luce le ricerche e gli studi degli ultimi 40 anni); sbrigativo non considerare l’interiorizzazione di un modello di codificazione dei ruoli sessuali (derivato dalla divisione dalla del lavoro operata dal patriarcato) con tutte le conseguenze psichiche indotte, sia per gli uomini che le donne ( le interiorizzazioni di fantasie, attese paure, immagini di genere…., la naturalizzazione di un ruolo che costituisce comunque uno straccio di identità al quale aggrapparsi, per spremerne ogni goccia di contropotere). Non a caso l’iniziativa dello “sciopero” del lavoro domestico lanciata allora fallì, perché molte dicevano che non volevano andare contro le esigenze di figli,…e quanti/e dipendevano dalle loro cure quotidiane. Sembrava che il “nemico” diventassero i “familiari” e non il sistema. Infatti allora si era in pieno “separatismo” di analisi, teorie e pratiche; il non aver coinvolto gli uomini, ugualmente dimidiati nella loro potenzialità dalla divisione patriarcale del lavoro, e l’aver completamente sottovalutato il terreno delle relazioni tra donne e uomini, tra donne e donne, tra uomini e uomini, l’ambito dell’affettività della sessualità, della creatività, cioè la dimensione dell'”autocoscienza”, fieramente avversata da alcune come terreno “borghese( su questo si era separato in due spezzoni il collettivo di Lotta Femminista di Milano), ha determinato il fallimento di questo filone del femminismo che sarebbe stato allora molto importante e “rivoluzionario”.
    Ma la prospettiva politica: il discorso della cura come effettivo e efficace motore di cambiamento radicale del modo di produzione e consumo capitalistico-patriarcale, è quello sempre più urgente oggi. Se ne è discusso e scritto nel numero 9 della rivista in rete Overleft. Rivista di culture a sinistra, tutto dedicato a questo argomento, http://www.overleft.it

    OverLeft
    Joomla! – il sistema di gestione di contenuti e portali dinamici
    OVERLEFT.IT

  4. Grazie Jamila per questa stimolante ripresa del dibattito degli anni ’70 sul salario al lavoro domestico. Allora la proposta mi lasciava perplessa, e così ora, non tanto per l’analisi politica soggiacente, anzi, ma perché anche se si riuscisse a minare la “naturalizzazione” del lavoro domestico, si finirebbe per istituzionalizzare la figura della casalinga. Neppure l’idea di valorizzare il “care” mi ha mai entusiasmato: il lavoro di cura richiede dedizione e sacrificio, virtù “femminili”; mi pare non abbia senso positivizzarle ed estenderle anche agli uomini. La società del “care”, che avrebbe per modello bambinaie, infermiere, badanti, assitenti etc. (che ha qualcosa di cattolico…) non farebbe che deresponsabilizzare lo stato dai suoi obblighi sociali. È la critica che ho mosso al libro, peraltro molto interessante, di Cristina Morini, Per amore o per forza.

  5. Non entro nel dibattito sul salario delle casalinghe (anche se lo trovo di difficile attuazione e problematico sotto molteplici aspetti) dico solo che omosessualità ed eterosessualità non sono condizioni di lavoro. E i rapporti sessuali tra due persone che si sono sposate per amore (l’amore, la passione, l’eros non è una sovrastruttura, è un sentimento che gli esseri umani provano) non sono “lavoro” sono l’espressione di una passione erotica e di un sentimento reciproco (quando questo sentimento c’è)..chiamatemi romantico ma io la penso così.

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jamila mascat
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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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