Francesco Filia, “La zona rossa”

Francesco Filia, La zona rossa

Piazza Municipio

I

Un solo un unico immenso vortice

di teste e corpi tra cantieri infiniti

della metro e cespugli radi di birra e piscio,

l’umanità di tossici e barboni è scomparsa

– per quest’evento di inferriate e plexiglas

proiettili che rimbalzano sull’asfalto

e strie di gas e lacrime nell’aria –

come testimoni non graditi, occhi

che non vedono nel loro estremo

gran rifiuto se non il cuore

di ogni gesto, l’essenzialità di ogni

rapporto la catena

che ci tiene in vita, in morte. Dall’alto

di quest’impalcatura tutto è più vero

necessario come lo stormo di rondini

che ogni sera volteggia sulla piazza,

ogni singolo movimento atomo di un istinto

ancestrale tassello di necessità rivela

ciò che siamo: frazione di tempo ingoiata.

*

II

La folla avanza travolge, la zona rossa è lì

oltre il faccia a faccia con la prima linea

dei poliziotti. È lì cupa inaccessibile.

Quale tesoro giustifica questo rito

di forze contrapposte il fuggi fuggi

e le ondate successive di corpi

nuvole di gas, lacrime e bossoli, angeli

che fendono la folla con i bastoni del giudizio?

Sgominati chi cade dispersi arresi le mani

alzate e i pugni in faccia, chi è catturato

e annega nel sangue del proprio viso.

Andrea scivola arranca nella polvere

gli sono addosso muta di cani da presa.

Marco controcorrente lo raggiunge ma

è tardi. Il buio di un trauma improvviso si

squarcia sul fondo di una camionetta nell’acre

odore di lacrimogeni e bossoli, come ultimi

fuochi di questo rito sacrificale.

*

“Celerino assassino”

Siamo altro da questo slogan. Compatti

il sangue adrenalina casco e testa

tutt’uno braccio armato nessun mezzo

né strumento ma un’unica necessità

che marcia il tempo dello scontro

battendo su manganelli e scudi

che si abbatte su teste e corpi spalla

contro spalla fratelli a guardia di un ordine,

che voi intravedete dietro le mie spalle,

di cui non so nulla. Io eseguo, a volte

mi piace a volte no. Il prezzo da pagare

è questo, ora abbiamo in dotazione

anche la pazienza di aspettare un gesto

di troppo o un punto debole

su cui infierire. È così che si fa!

Panico per punire chi come questo

povero stronzo mi cade tra gli anfibi

e non resta che caricarlo, rumore sordo

l’impatto degli elmi armatura ossa.

*

Ciro esce dalla piazza

I

La piazza deflagra,  esplosa

ci arriva addosso a velocità

inaudita il rumore precede l’urto

e non so da che parte andare non so

come schivare questo precipitare

di eventi, il dettaglio impazzito

di un manganello brandito e poi

nell’aria a pezzi scuoiata

e poi la lastra dei volti, li ho visti

lo giuro, precipitare

scivolare in un risucchio d’aria esploso

la camionetta che impatta

scheggiati disarmati fuggiti

tra scudi e divise lacrime

artificiali, il selciato si abbatte sul viso

mentre la strada scorre via sotto

la suola in un inciampo, in questo

arrancare verso un millennio

che si squarcia ingoiandoci.

*

Prefazione al volume di Aldo Masullo

L’uno dopo l’altro, come contro gli scogli le onde di un’incessante risacca, i blocchi di scabri versi di quest’opera forte di Francesco Filia, incalzando s’avventano, per narrare in qual modo, compressa in una giornata, dall’alba al tramonto, si consumi una drammatica storia di formazione. A ragione si dice: «la vita ci accadde a velocità inaudita» (p. 20). Protagonisti sono quattro giovani poco meno che trentenni – Marco, Andrea, Ciro ed Elena – , coinvolti a Napoli il 17 marzo del 2001 nella manifestazione di molte decine di migliaia di persone contro i Governi di tutto il mondo, riuniti per il Global forum. Nell’occasione «avvennero scontri violentissimi tra manifestanti e forze dell’ordine».

«Trent’anni sono la soglia» (p. 20), la linea d’ombra, il limite della maturità, l’ora decisiva: «adesso in maschera / da combattimento vivrò un ultimo giorno / poi sarò vita che sopravvive a se stessa» (p. 30). Alla fine, ci si accorge d’averla varcata, la «soglia», non essendo però riusciti a passare nella «zona rossa», rigorosamente vietata e difesa a mano armata intorno al centro impenetrabile del Potere, bensì ridotti a sperimentare la frustrazione del tentativo fallito, l’amara durezza della sconfitta. Lo sguardo dei vincitori «trafigge / i nostri occhi abbassati e in fondo sappiamo / che questa città non sarà mai nostra» (p. 32). Bisogna confessare che «perdere è qualcosa di più / di più atroce di quel che credevi» (p. 55). Tuttavia si deve anche ammettere che «lo sguardo / che scivola sotto le braccia», «divaricate contro il bianco / sporco» di una parete della caserma di polizia, è ormai «unica via / di fuga dal collasso delle nostre esistenze» (p. 56).

In ogni modo, decisivo è diventare uomini. Il che avviene anche quando, in cambio della generosa illusione di un pubblico darsi, si prova il sapore acre della sconfitta. Qui all’individuo impietosamente si mostra «lo scarto tra un gesto e se stesso» (p. 56): la sproporzione tra il momentaneo slancio e l’abituale esistere, l’incolmabile distanza tra l’innocenza dell’ideale e l’infida realtà. All’illuso d’un colpo si fa chiaro ch’egli non ha vinto; anzi, ben peggio, che vincere non avrebbe potuto né mai potrebbe. Salvo il «sangue raggrumato sul cuoio capelluto» (p. 62), la sconfitta è incruenta. Tuttavia è tragica: l’ideale infatti è intrinsecamente necessario ma altrettanto intrinsecamente impossibile.

Comprendere tutto ciò, avere imparato che l’ideale, in quanto necessario, va comunque assunto come guida, indipendentemente dall’impossibilità del suo realizzarsi pieno, è avere maturato nell’umiliazione della sconfitta la propria umanità ben più di quanto si possa nell’esaltazione di una relativa vittoria.

Certo nella maturata umanità del vinto non sempre tace una voce sconsolata che avverte: «Adesso sai che la tua è la colpa / incancellabile di chi è innocente» (p. 62).

A questo punto tutto potrebbe essere perduto, se non restasse almeno l’amore, l’energia della durata,  «l’amicizia che non guarda / oltre il bene di ritrovarsi ogni volta» (p. 61). Questo in fondo è l’alfa e l’omega. Anche all’inizio, i quattro amici, insieme «per l’ultima volta» prima del prevedibile scontro con la polizia, parlano «d’altro / per non parlare d’amore» (p. 38).

In conclusione, se l’ordine politico del mondo è «incomprensibile» (p. 15), alla poesia non interessa. Non all’ordine politico, alla complicata matassa di azioni e reazioni da cui deriva l’evento, è attenta la poesia. Alla poesia ripugna la guerra. Essa è pietas. Ha a cuore gli individui, uno per uno, comprende le loro viltà e il loro coraggio, le loro speranze e i loro dolori. L’evento, per quanto enorme possa essere, è insensato: effettivo ma senza verità. Ogni essere umano invece, patendo la sua vita, sentendo, è incessante nascere di senso, segreta verità. Alla poesia non importa spiegare l’evento, ma ascoltare le voci degli uomini che vi si trovano impigliati: appunto i parlanti «anelli di una catena / che sprofonda nel cupo cuore di un evento» (p. 15).

Il testo di Filia è propriamente, per quanto breve, un poema. Il suo fascino è dato dall’innesto non meramente tecnico ma sostanziale di testi lirici minimi in un contesto epico. Immediatamente, ancor prima della preziosità lirica e della dolente forza civile, del poema colpisce il ritmo incalzante. Esso si legge come si vedrebbe un film. Ogni verso è un fotogramma che, pur eloquente in sé, attivamente unisce ai prima il poi. Il fiato quasi vien meno nell’inseguire la corsa.   Questa straordinaria dinamicità sembra simboleggiata, come in un sigillo stilistico, da quattro versi del poema stesso: «Un ultimo accordo tra il respiro e la vita / il ritmo dei passi aumenta la frequenza / della falcata, la sospensione tra un appoggio / e l’altro, la cadenza dei pensieri precisa, leggera» (p. 24)!

Però alla medesima pagina, poco più sotto, si evoca «il parlare di tutto per parlare d’altro / di un desiderio oltre ogni qui e ora». Qui sembra udirsi in un grido sommesso la rivendicata dignità del lavoro letterario, che non è solo gioco tanto affascinante quanto abile, bensì modo della mai esausta tensione con cui l’umano desidera oltrepassarsi.

*

Francesco Filia, La zona rossa, Il laboratorio/le edizioni, 2015.

A questo link una recensione di Gianni Montieri.

*

Il 17 settembre alle 21, alla Libreria Popolare di Via Tadino (Milano), doppia presentazione:
La disarmata (CFR edizioni, 2014) di Viola Amarelli, Francesco Filia, Vincenzo Frungillo, Gianni Montieri, Immo
La zona rossa di Francesco Filia (Il Laboratorio/Le edizioni, 2015)
Interverranno Viola Amarelli, Francesco Filia, Vincenzo Frungillo, Gianni Montieri.

Libreria Popolare, Via Tadino 18, 20124 Milano
Tel. 02 29513268
info@libreriapopolare.it

 

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2 Commenti

  1. veramente emozionante il pezzo della poesia (soprattutto per chi era a Genova 4 mesi dopo!)e molto bella e stimolante la recensione… fa anche venire voglia di seguire il flusso del poema (cioè di comprare il libro, anche se di una piccola casa editrice, quanto trovabile?)

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