Il male della banalità

di (vedi sotto)

Siamo un gruppo di studiosi e docenti universitari di storia, letteratura e cultura dei paesi arabi, africani e islamici, e scriviamo dopo la pubblicazione di alcuni articoli sulla stampa italiana a seguito dei fatti di Colonia. Da essi è scaturito un dibattito pubblico superficiale, incentrato sulla paura dell’Islam, dell’immigrato, dell’arabo; focalizzato, in senso lato, sulla costruzione dell’arabo-musulmano come “altro” e, in quanto tale, “pericoloso”.

Si tratta di un discorso che, come insegna uno dei testi fondanti degli studi post-coloniali (Edward Said, Orientalismo), ha radici storiche profonde, riproponendosi con recrudescenza in ogni momento di crisi.

Riteniamo importante prendere posizione contro la stampa generalista che fa della banalizzazione e della schematizzazione, antitesi di ogni forma di analisi complessa e articolata, il mezzo di un progetto di disinformazione di massa quantomeno preterintenzionale.

In particolare ci ha colpito, il 10 Gennaio scorso, l’editoriale intitolato “Da dove viene il branco di Colonia” di Maurizio Molinari, già corrispondente da Gerusalemme per La Stampa e suo neo-direttore, oltre che autore del controverso instant book Il Califfato del Terrore Varie critiche sono state subito mosse al testo, un vero e proprio pamphlet. Ad esempio, il collettivo di scrittori WuMing osserva come “nel generale squallore e servilismo”, sia tuttavia “importante segnalare passaggi di fase, salti di qualità, ulteriori salti in basso e spostamenti a destra”[1].

Concordiamo sul fatto che questo articolo sia un punto di non ritorno dell’informazione di bassa qualità che da anni sedicenti “specialisti” offrono al pubblico italiano.

Ci pare che esso condensi in maniera esemplare una serie di strategie di riduzione del pensiero, di cui riteniamo gravi le ripercussioni sulla formazione dell’opinione pubblica. Nel suo articolo, in un crescendo di affermazioni a dir poco peregrine, Molinari inventa una vera e propria “genealogia della barbarie” araba, che sarebbe, a suo dire, basata sull’ “ancestrale” e “atavico” elemento tribale.

Egli individua nel cosiddetto “senso di appartenenza tribale” la causa degli atti violenti contro le donne a Colonia. Tale sentimento (che Ibn Khaldūn, uno dei precursori della sociologia moderna nel XIV secolo, denomina asabiyyah), sarebbe stato temporaneamente “domato” dalle forme di controllo sociale esercitate dagli stati-nazione mediorientali, e sarebbe ora rinascente in seguito alla parziale disgregazione dei poteri statuali dell’area dopo le rivolte del 2011.

L’editoriale-pamphlet si distingue per i toni caricaturali, per la totale a-storicità della sua fantasiosa teoria, per il disprezzo del più basilare fact-checking, anche in relazione ai fatti di cronaca dei quali pretende di fornire un’interpretazione storica e socio-antropologica.

A fronte di questo pericoloso riduzionismo, crediamo necessario introdurre una riflessione più ampia sul significato e sugli obiettivi del tipo di narrazione mediatica proposta non solo da Molinari, ma da molti giornalisti e intellettuali italiani.

Nel testo succitato, l’autore ribadisce come le violenze sessiste di Colonia siano state causate dal riattivarsi “dell’atavico tribalismo arabo”. I problemi di questa interpretazione sono fondamentalmente due: da un lato si presuppone un “eccezionalismo arabo” che non è fondato su alcun dato empirico; dall’altro emerge una totale ignoranza delle dinamiche storiche di sviluppo sociale e politico dei mondi mediorientale e africano moderni e contemporanei.

Indubbiamente il lealismo tribale è un fenomeno sociale esistente nelle aree geografiche in cui si sono sviluppate la civiltà arabo-islamiche. D’altra parte, esso ha caratterizzato l’organizzazione dei gruppi umani in altre aree del globo le cui società tradizionali erano di tipo segmentario e basate sul concetto di parentela, così come avveniva in Europa perfino all’interno degli imperi plurinazionali ben oltre il tardo Medioevo.

Il tribalismo, quindi, non è ascrivibile specificamente al contesto semitico (pensiamo ad esempio ai clan celtici, alle gentes romane originarie, ai Baschi, alle popolazioni migranti dall’Asia centrale durante il III e IV sec. d.C….) così come pretende una cattiva divulgazione di una certa antropologia de-storificante o pseudo-folklorica intrisa di imperialismo coloniale – dalle cui scorie sarebbe necessario affrancare il discorso pubblico italiano e europeo.  Allo stesso modo, usanze come la razzia o la vendetta sono correlate con l’economia politica di società – per lo più nomadi – con una precaria disponibilità di risorse alimentari e non, come sembra ribadire il direttore della Stampa, con una supposta inferiorità culturale .

Altri usi o istituzioni citati dal giornalista, sempre a dimostrazione della primordialità, dell’atavismo e della “genetica” incompatibilità tra cultura araba e cultura occidentale, non sono esclusivi delle popolazioni arabo-musulmane (pensiamo all’uso del velo nell’antica Grecia, o a Bisanzio) e vanno invece visti come indicatori di una fase storica associabile alla sedentarizzazione e alla crescente stratificazione sociale ed economico-politica. Tali processi non avvennero certo nel deserto – che fa invece da sfondo a tutta la narrativa di Molinari – ma in ambito urbano.

L’uso del velo – indicato nel testo pretestuosamente come chador, un tipo di velo specificamente iraniano che poco ha in comune con il “branco” stigmatizzato in quanto proveniente dal Medio Oriente arabo e dal Nord Africa – o l’istituzione dell’harem, sono costruzioni sociali che vanno contestualizzate nel tempo e nello spazio, e che con alcune varianti, sono comuni a tutte le forme di patriarcato.

Nello stesso ordine di riflessioni, la questione di genere nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (generalmente indicati dall’acronimo MENA – Middle East and North Africa region), rappresenta un nodo molto complesso intorno al quale si articola l’evoluzione ugualitaria della società, ma è molto rischioso trattare tale argomento in modo culturalista.

Se è vero che la sessualità è un tabù in molti contesti pubblici (così come avviene, d’altronde, anche nei paesi di tradizione cattolica), affermare che i diritti delle donne nella regione MENA siano minacciati dall’Islam, inteso come entità astorica e misogina in sé, è fuorviante, perché in tal modo si trascura sia l’uso patriarcale dell’Islam a scapito di popolazioni in buona parte analfabete e in condizioni socioeconomiche precarie, sia il ruolo di primo piano svolto dalle donne nelle lotte di liberazione contro l’oppressione coloniale, sia gli sforzi di una parte delle società di quei paesi che attualmente combatte per l’affermazione e il rispetto dei diritti delle donne.

Movimenti femministi, intellettuali, accademici e militanti, di ispirazione religiosa e laica, denunciano da decenni, in varie forme, le discriminazioni di genere; chiedono riforme ai governi, sono promotori di progetti di sensibilizzazione ai diritti umani all’interno delle loro stesse società, propongono reinterpretazioni coraggiose delle Sure del Corano. Quale spazio viene concesso a questi attori sociali sui nostri media? Molto poco.

Esaminare la questione di genere nelle società a maggioranza islamica in modo culturalista significa trascurare i molteplici fattori che determinano la discriminazione e ignorare gli sforzi della società civile in favore dell’uguaglianza.

In una fase così delicata del multiculturalismo europeo e del più ampio contesto geopolitico, una simile analisi è funzionale a una rappresentazione razzista ed eurocentrica dell’Islam e delle culture arabe e dei molteplici mondi “altri” dai quali provengono gli attuali flussi migratori che si cerca di stigmatizzare in massa.

Ci appare pericoloso e irresponsabile, da parte di chi è consapevole di avere una considerevole capacità di influenzare l’opinione pubblica, diffondere rappresentazioni come quelle qui descritte, che contribuiscono non solo alla cattiva informazione, ma spesso alla determinazione degli indirizzi politici e strategici dei governi italiani.

Gran parte della stampa odierna sembra completamente ignorare che gli stati arabi moderni non sono nati attraverso il “magico” contatto con l’Occidente per mezzo di  figure come quella, ridicolamente idolatrata, di Thomas Edward Lawrence, ma da processi di cooptazione dell’autorità locale assai complessi, funzionali a specifiche pratiche amministrative proprie delle potenze coloniali (la cantonalizzazione, il mantenimento di sistemi legali multipli, nazionale e consuetudinario nelle aree tribali, per fare due semplici esempi).

La storia del Medio Oriente e dell’Africa contemporanei non è basata sulla contrapposizione di paradigmi assoluti: tradizione vs/modernità  tribù vs/ Stato.

In quelle regioni, come ovunque, la storia politica e sociale risponde ad un plasmarsi e riplasmarsi di valori simbolici e pratiche di potere, in processi indotti o maturati dall’interno, frutto di dinamiche alle quali non è estraneo il colonialismo europeo – colonialismo che ha spesso impedito l’emergere di strutture di potere alternative a quelle indotte dalle amministrazioni europee. In Africa e in Medio Oriente, cosi come ovunque nel mondo, tradizione e modernità non si configurano come opposti inconciliabili: segmenti di continuità tradizionale si alternano a fratture, in una dialettica che caratterizza tutti i processi culturali.

Tristemente, ci sembra che gli unici soggetti che appaiono impermeabili a queste dinamiche, replicando stereotipi risalenti almeno a duecento anni fa, rimangano i giornalisti e gli intellettuali mainstream, forse più attenti a costruire narrazioni avallanti pratiche securitarie e neoliberiste, che non a spiegare i processi politici in corso.

In effetti, è intellettualmente meno impegnativo accontentarsi di paradigmi interpretativi che imbrigliano la complessità entro categorie fisse e contrapposte, che cercare di restituire le intersezioni della mutevole e molteplice natura dei fenomeni sociali.

Non sono le analisi, giocate su dicotomie e logiche binarie, diffusissime sui maggiori mezzi d’informazione, che offriranno all’opinione pubblica gli strumenti necessari per comprendere il presente.

Al contrario, ora più che mai, familiarizzare con l’idea di complessità e interdipendenza è imprescindibile per evitare logiche di scontro e demonizzazione di differenze reali, e più ancora, immaginate.

Come cittadini e cittadine che da anni si dedicano allo studio del mondo arabo-islamico e delle società a maggioranza musulmana, animati da un forte senso di responsabilità civica, siamo pronti a dare il nostro contributo per svolgere un’azione di divulgazione che consideriamo essenziale nella presente congiuntura storica.

Tuttavia, notiamo con sgomento e con crescente sdegno il proliferare di un giornalismo insinuante e sciatto che strizza l’occhio al sensazionalismo e alla spettacolarizzazione, che parla di alterità culturale e complesse dinamiche storiche, sociali e politiche con disarmante banalità e ignoranza niente affatto ingenua.

Con uguale preoccupazione osserviamo che, da un lato, questo tipo di giornalismo evita sistematicamente di porre questioni critiche ai nostri governanti sulle loro responsabilità in materia di politica estera e migrazione; dall’altro, l’irresponsabilità dei nostri governanti li spinge ad attingere al giornalismo più approssimativo con l’intenzione di illustrare la complessità del mondo arabo-islamico.

Peraltro, le nuove sfide politiche e sociali che i grandi flussi migratori ci presentano attualmente vengono raramente discusse in relazione al modo in cui le società mediorientali, africane e l’islam sono raccontate e rappresentate.

Troppo spesso tale crisi dell’informazione in Italia e altrove viene giustificata dalle leggi di un mercato in continuo cambiamento, che esige puntualità e celerità della notizia, nonché la sua spettacolarizzazione.

Se la tirannia di una notizia veloce, semplice, e capace di destare interesse pubblico porta al tramonto di analisi capaci di informare in primis, invochiamo un maggior coinvolgimento degli studiosi di queste aree nel processo di creazione dell’informazione, facendo ben attenzione a distinguere tra chi si dice “specialista” senza minimamente entrare in contatto con le società delle quali propone analisi generaliste e sommarie, e chi invece interroga queste società quanto la propria, producendo quello che in gergo si chiama un “sapere condiviso”.

Per aderire all’appello:informabene2016@libero.it

[1] Si veda anche la recensione di tutti gli editoriali comparsi sul tema realizzata dal sito “Valigia Blu”.

Primi firmatari:

Giuseppe Acconcia, Il Manifesto e Università di Londra

Anna Baldinetti, Prof.ssa associata in Storia dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente, Università di Perugia

Marta Bellingreri, ricercatrice, reporter Medio Oriente

Erika Biagini, PhD student at Dublin City University, School of Law and Government, Ireland.

Francesca Biancani, Docente a contratto, Storia e Istituzioni del Medio Oriente, Università di Bologna

Sara Borrillo, Post-doc, Dip. Asia, Africa e Mediterraneo, Università L’Orientale di Napoli

Estella Carpi, Ricercatrice, Lebanon Support e New York University (Abu Dhabi)

Marina Calculli, Fulbright research fellow, Institute for Middle Eastern Studies, The G. Washington University

Clara Capelli, economista esperta di Medio Oriente e Nord Africa, Cooperation and Development Network- Pavia

Francesco Correale, CNRS – UMR 7324 CITERES, Tours

Luca D’Anna, Assistant Professor of Arabic, The University of Mississippi (Oxford)

Cecilia Dalla Negra, Giornalista, Vice-direttrice di Osservatorio Iraq – Medio Oriente e e Nord Africa 

Giulia Daniele, ricercatrice, Instituto Universitário de Lisboa (ISCTE-IUL)

Enrico De Angelis, American University in Cairo

Lorenzo Declich, Ricercatore indipendente in Islamistica e Islam contemporaneo

Sara de Simone, Dottoranda in Africanistica, Università degli Studi di Napoli L’Orientale

Rosita di Peri, Ricercatrice, Università di Torino

Anna Maria Di Tolla, Prof.ssa associata in Lingue e letterature dell’Africa e dell’Asia, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

Leila El Houssi, Prof.ssa a contratto di storia dei paesi islamici- Università di Padova

Sara Fani, post-Doc, Dep. of Cross-Cultural and Regional Studies, University of Copenhagen 

Ersilia Francesca, Prof.ssa Associata in Storia dei Paesi Islamici, Università L’Orientale di Napoli

Gennaro Gervasio, Lecturer in Middle East Politics, The British University in Egypt – Il Cairo

Elisa Giunchi, Università di Milano

Jolanda Guardi, Ricercatrice, Universitat Rovira i Virgili. 

Laura Guidi, Università di Napoli Federico II

Marco Lauri, Docente a contratto, letteratura e filologia araba, Università di Macerata. 

Pietro Longo, Ricercatore in Storia dei Paesi Islamici, Università L’Orientale di Napoli

Chiara Loschi, Dottoranda in Scienze Politiche Università degli Studi di Torino

Adelisa Malena, Università degli studi di Venezia Cà Foscari

Antonio Manieri, post-doc, Dip. Asia, Africa e Mediterraneo, Università di Napoli “L’Orientale”

Nicola Melis, Università di Cagliari

Beatrice Nicolini, Prof.ssa Associata di Storia e istituzioni dell’Africa, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Maria Elena Paniconi, Ricercatrice in Lingua e letteratura araba, Università di Macerata

Chiara Pavone, Università di Roma.

Nicola Perugini, Brown University

Daniela Pioppi, Prof.ssa associata, Storia contemporanea dei paesi arabi, Università degli studi di Napoli ‘L’Orientale’

Gabriele Proglio, Assistant Professor in Contemporary History and Postcolonial Studies, Università di Tunisi ‘El Manar’, Research Fellow, European University Institute.

Marco Reglia, Università di Treiste

Paola Rivetti, School of Law and Government, Dublin City University

Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista freelance e ricercatrice indipendente

Marina Romano, Docente a contratto, Storia e Istituzioni del Mondo Musulmano, Università di Bologna

Monica Ruocco, Professore di Lingua e Letteratura Araba, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

Azzurra Sarnataro, Dottoranda Civil, Building and Environmental Engineering, Università La Sapienza di Roma

Simone Sibilio, Docente di letteratura araba Ca’ Foscari di Venezia, direttore master MiLCO

Maria Giovanna Stasolla, Prof.ssa Ordinaria di Storia dei Paesi Islamici, Università di Roma “Tor Vergata”

Serena Tolino, Post-doctoral fellow, Università di Zurigo

Emanuela Trevisan Semi, Università di Venezia Ca’ Foscari

Rossana Tufaro, dottoranda, Studi sull’Asia e sull’Africa, Università Cà Foscari, Venezia

Hamadi Zribi, collaboratore Tunisia in Red

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3 Commenti

  1. Se è vero che la sessualità è un tabù in molti contesti pubblici (così come avviene, d’altronde, anche nei paesi di tradizione cattolica), affermare che i diritti delle donne nella regione MENA siano minacciati dall’Islam, inteso come entità astorica e misogina in sé, è fuorviante, perché in tal modo si trascura sia l’uso patriarcale dell’Islam a scapito di popolazioni in buona parte analfabete e in condizioni socioeconomiche precarie, sia il ruolo di primo piano svolto dalle donne nelle lotte di liberazione contro l’oppressione coloniale, sia gli sforzi di una parte delle società di quei paesi che attualmente combatte per l’affermazione e il rispetto dei diritti delle donne.

    Parole, parole, parole …Non riesco a capire come gente che chiede asilo, senza un lavoro e una casa, possa comportarsi in quel modo. Repressione sessuale atavica? Voglia di “fare casino”? Sicurezza dell’impunità?Lasciamo stare la religione, c’entra poco.
    E’ proprio un un fatto culturale

  2. Le donne non devono pagare
    le guerre degli uomini.
    Stupri e molestie sessuali sono inaccettabili.
    La discussione non è di sapere se il discorso è contro arabi o no.
    Questo occulta la tragedia di una ragazza che ha subito violenza.
    Non mi piace “la récupération politique” come si dice in francese.
    Non sopporto chi mette tutta la colpa sui profughi, ma non sopporto un discorso che allontana il fatto.

    Donne devono essere rispettate e potere vivere senza paura.
    Punto e basta.

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