L’Italia al tempo del batticuore

di Tiziano Scarpa

In questi giorni è tornato nelle sale il film di Emanuele Crialese, Respiro, che era passato fugacemente nei cinema l’anno scorso. E’ una bella occasione per andarlo a vedere in accoppiata con Io non ho paura di Gabriele Salvatores.

Questi due film hanno molti elementi in comune. Naturalmente non si tratta di insinuare che qualcuno ha copiato qualcun altro, sarebbe un discorso criticamente stolto e di nessun interesse. Forse però vale la pena di analizzarli in parallelo.

Sono due film che in apparenza propugnano un ritorno all’Italia premoderna. La poesia, la bellezza, il diritto di stare al mondo con grazia non ci appartengono più. Siamo irrimediabilmente adulti, corrotti, urbanizzati, mediatizzati e settentrionali nell’animo, ma continuiamo a sognarci nelle vesti di contadini e pescatori verghiani.

Queste due storie accadono in un paesaggio italiano pre-televisivo, in un’Italia ancora intatta, in un’atmosfera di nostalgia pasoliniana. Nel film di Salvatores, per la verità, il televisore c’è già. Anzi, il telegiornale è l’elemento decisivo che permette di capire a Michele, il ragazzino protagonista, che cosa sta veramente succedendo: il mostriciattolo che ha trovato in una buca per terra non è uno zombie, è un bambino rapito dagli abitanti del minuscolo paese dove abita Michele. Peggio: persino i suoi genitori sono complici del rapimento.

In entrambi i film i ragazzini sono legislatori del proprio tempo, decidono giochi, premi e punizioni. Io non ho paura (come Respiro) si svolge durante le vacanze: un tempo in cui, per il ragazzino protagonista, non c’è scuola, non c’è istituzione. Michele non ha nessuno con cui confidarsi, non può chiedere consiglio a nessuna autorità morale, meno che mai ai suoi genitori, che sono criminali anche loro. Si trova in una situazione di totale solitudine etica.

Nel film di Salvatores, Michele recita una filastrocca quando deve attraversare la notte spaventosa. Nel romanzo di Niccolò Ammaniti, il ragazzino si appellava al corpus mistico della cultura pop: dovendo decidere se scappare via o tornare nella buca a dare una mano a quel mostro che lo ha terrorizzato, Michele pensava a Tiger Jack, il “fratello di sangue” pellerossa di Tex Willer, e si dava coraggio emulando le qualità morali un personaggio del più famoso fumetto italiano.

In una situazione in cui crollano i più elementari parametri di giustizia, in uno stato di emergenza in cui la famiglia è corrotta e criminale, il senso del bene e del male viene comunque preservato da una comunità più vasta, apparentemente assente, di fatto presente nella sua sostanza mediatica: il telegiornale (e i fumetti nella versione romanzesca di questa storia), cioè i media vengono in soccorso del ragazzino, gli forniscono gli strumenti per capire ciò che gli accade, e in più gli somministrano coraggio e senso del dovere.

Il film dice allo spettatore: anche in uno stato di miseria morale, “noi tutti”, cioè “io” film che faccio parte del grande oceano mediale e “voi” spettatori, siamo comunque presenti e portiamo soccorso morale fattivo a chi si ritrova completamente solo di fronte al Male.

Nel film di Crialese la piccola comunità dell’isola di pescatori non è altrettanto malvagia, non escogita un piano criminale, però mette in atto un meccanismo di espulsione contro la protagonista: Grazia è una madre dal carattere esuberante che, in un’isola del Mediterraneo, a Lampedusa (dove non c’è traccia di televisione), fa il bagno nuda in spiaggia, ha delle crisi isteriche quando non sopporta il modo in cui suoi marito umilia i figli, e in generale si comporta in maniera sconveniente o eccessiva rispetto alla morale della comunità. Una volta, per vendetta, libera decine di cani rabbiosi nell’isola. La comunità la considera un capro espiatorio da scacciare, la vogliono mandare in clinica psichiatrica su a Milano, ma lei non ha nessuna intenzione di farsi esiliare. Anche qui il personaggio che trova una soluzione a questa impasse etica è un ragazzino: il figlio secondogenito, Pasquale, nasconde la madre in una grotta a picco sulla costa e la fa credere morta. Il ragazzino ha un progetto ambiguo: il suo comportamento lascia credere agli spettatori che lui voglia tenere la madre tutta per sé. Attratto da un’inconsapevole fascinazione incestuosa, la fa giurare di restare per sempre nascosta nella grotta.

Alla fine, tutto il paese ritrova Grazia durante un bagno collettivo in mare, e il film si chiude con una lunga sequenza subacquea, dove decine di gambe inquadrate dal basso scalpitano per tenersi a galla, in cerchio attorno alla protagonista simbolicamente resuscitata. Le immagini di questo finale sono indimenticabili, visionariamente potentissime. E’ una comunità di corpi che si ricompatta di fronte al miracolo della rinascita, un anello amoroso che galleggia faticosamente sul mare, lo stesso mare che aveva inghiottito la protagonista, quando tutti la credevano annegata. Siamo a galla per miracolo nel mare della morte, e a malapena preserviamo le nostre testoline invisibili sopra il pelo dell’acqua, le protendiamo nell’aria e nella luce, ma il motore di questa sopravvivenza è la forza vitale che si dimena ciecamente sotto la superficie, ed è da questo punto di vista abissale, sottosopra, che dovremmo considerare le nostre relazioni collettive, il nostro stare insieme, la polis.

Tutti e due questi film raccontano una storia simile: c’è un elemento debole (un bambino rapito, una donna ipersensibile) che subisce una grave ferita, una morte simbolica: una condanna a morte temporanea (la repressione della personalità con l’esilio in clinica in Respiro) o definitiva (in Io non ho paura si decide che il bambino rapito deve essere ucciso), in una buca o una grotta dentro il ventre della terra. Si tratta di salvare questo elemento debole, di farlo resuscitare, o di farlo credere morto proprio per farlo resuscitare: la comunità può accettare di reintegrarlo in quanto lo ha fatto morire. E chi sa mettere in atto questa strategia di resurrezione, in nome di qualcosa che non sa nominare, ma che di fatto corrisponde al Bene, è in entrambi i casi un ragazzino. Un personaggio in cui il senso della giustizia coincide con le pulsioni istintive (l’amore materno che sfiora la fascinazione incestuosa in Respiro) o con una suggestione puramente immaginaria (gli eroi dei fumetti, il pianto mediatico durante il telegiornale della madre del bambino rapito in Io non ho paura).

Nel film di Salvatores, Michele salva la vittima sostituendosi a essa, anche se non aveva pianificato di sacrificarsi al posto suo e di prendersi il colpo di pistola che era indirizzato al bambino rapito. Anche il ragazzino di Respiro, Pasquale, finisce per salvare la madre con una strategia non premeditata: lui voleva soltanto sottrarla a tutta l’isola che l’ha ripudiata, voleva tenerla nascosta, facendola giurare che non sarebbe mai più uscita dalla grotta.

Sarebbe riduttivo, però, affermare che si tratta degli ennesimi casi di mondi salvati dai ragazzini. Di che cosa sono fatti questi ragazzini? Di corpus mistico della cultura pop (fumetti, televisione, canzonette) e di pulsione edipica, che sono più vicine al Bene, molto più vicine al Bene di un’astratta e razionalistica idea di giustizia.

Che cosa dicono allora questi due film? Apparentemente, mimano un’estrema propaggine neorealistica, sembrano promuovere la vecchia idea pasoliniana di autenticità italica premoderna. La poesia, la bellezza, le storie intense si sprigionano nelle piccole comunità intatte, bisogna retrocedere storicamente di almeno trent’anni per trovare tragedia in Italia: tragedia, ovvero inevitabile catastrofe, ma anche una possibilità di catarsi. Da questi mondi di contadini e pescatori, da questi bambini del sud, dalla loro spontaneità, sono del tutto esclusi gli spettatori urbanizzati, adulti, autoriflessivi, velleitariamente illuministi. Non c’è meraviglia e senso della vita, non c’è pratica del bene e del male se non a queste condizioni: un’Italia ancora neorealista, pretelevisiva, in piccole comunità rurali o costiere, in una condizione di spirito ancora infantile, dove non si è ancora separato il concetto del dovere da quello della pulsione irriflessa.

Dobbiamo concluderne che gli spettatori godono di questi due film sentendosi masochisticamente alienati dalla poesia perduta? Al contrario, mi sembra invece che Io non ho paura e Respiro mostrino molto bene l’alleanza fondamentale dei nostri tempi: istinto e icone dei mass media saldati insieme, senza passare attraverso una mediazione intellettuale.

In altre parole: nel nostro paesaggio ci sono icone e cuori, ma non c’è legge.

Le pulsioni irriflesse (che sono quelle che tutto sommato, anche senza sapere bene come, risolvono le cose, salvano il singolo e la comunità e li conducono alla loro purificazione collettiva), funzionano grazie alle figure mediatiche. I ragazzini dei due film infatti non sono soltanto portatori di un impulso non ancora razionalizzato. Vale a dire: non sono semplicemente “i ragazzini” (coloro che non sono ancora corrotti), quelli che salveranno il nostro mondo.

C’è una presenza importante in questi due film: quella della musica pop. In Io non ho paura, la colonna sonora è affidata a un sublimante quartetto d’archi che rielabora reminiscenze classiche (si riconosce per esempio il Canone di Johann Pachelbel), ma in alcune scene, dall’ambiente in cui sono immersi i personaggi si riversano sulla storia, e sugli spettatori, spifferi di canzonette rivelatrici. A ben vedere, c’è una sotterranea guerra di suoni, un’invisibile ma udibilissima discrepanza musicale fra la colonna sonora fuori campo (il quartetto d’archi che commenta la storia quasi fosse una valutazione estetica: come se da fuori qualcuno giudicasse questa vicenda sommamente poetica e ne percepisse la sostanza sonora sublime), e le musiche ascoltate dai personaggi (le canzonette trasmesse dalla radio, la musica che c’è davvero nell’aria).

Il carceriere del bambino rapito è una figura molto spregevole. Nel romanzo di Ammaniti non aveva fatto la seconda dentizione, a trent’anni aveva ancora i denti da latte, tutti rovinati. Nel film di Salvatores, il carceriere conserva un elemento lombrosiano, un indizio fisiognomico di scelleratezza: un grosso porro nero al lato del naso. Fa tanto lo sbruffone ma è un vigliacco. Michele lo sorprende mentre balla da solo, all’aperto, con l’autoradio a tutto volume: sta improvvisando una coreografia molto sensuale di una canzone di Mina. Non se ne rende conto, ma ha un’evidente desiderio di femminilizzarsi, è il classico omosessuale latente. E non ha modo di esprimerlo, a sua stessa insaputa, se non attraverso una canzone di Mina.

Il film di Crialese si apre su una scenetta di armonia famigliare: i due piccoli figli maschi sono incantati dalla madre che canta e balla insieme a loro una canzone di Patti Pravo ascoltata con il mangiadischi, suscitano la gelosia della sorella maggiore che si intromette nel loro triangolo d’amore castamente incestuoso. Che cos’è la felicità? La felicità originaria, da cui comincia la storia, e che dà origine alla tragedia proprio in quanto questa felicità viene perduta, è raffigurata con una specie di frugale videoclip girato su una canzonetta.

Il corpus mistico della cultura pop (televisione, fumetti, canzoni), messo fra parentesi e sospeso per recuperare un’autenticità perduta di matrice neorealistica, premoderna, pasoliniana, in realtà è l’ingrediente che rivela l’identità dei personaggi a se stessi, o comunque catalizza le loro scelte, i loro stalli morali nei momenti critici. Ecco che allora due film, due opere d’arte mediali che sembrano abolire i mass media in nome di una riconquista dell’innocenza perduta, in realtà rinsaldano innocenza e mass media in un’alleanza fortissima. L’istinto combatte armato di icone pop: i “ragazzini” non sono soli, sono mossi dalle loro pulsioni ma possono contare anche sui mass media che vegliano su di loro. I valori dell’Occidente sono stati preservati da contenitori effimeri come un televisore o un mangiadischi, ma non per questo hanno smesso di agire.

Questo discorso i due film lo fanno essendo loro stessi mass media, immagini che ora girano nelle sale e domani saranno noleggiate in videocassetta e dvd, trasmesse in televisione, incellophanate nei giornali. La comunità degli spettatori può godere di questo cerchio che si chiude, e sentirsi parte di un corpo immateriale e onnipresente, irradiato dai valori di giustizia e verità preservati dal canone culturale pop. La profonda vibrazione di piacere estetico e di condivisione etica che comunicano queste due storie molto commoventi tocca la corda istintuale degli spettatori attraverso una iconostasi mediale: anche noi spettatori, come i protagonisti di Io non ho paura e Respiro, siamo fatti di istinto e icona, di pulsioni e media, di emozioni e ritornelli, di sangue e immaginario, possiamo fare a meno di passare attraverso la razionalizzazione: non abbiamo bisogno di aderire consapevolmente a una legge. Non è necessario appellarsi a un ideale astratto di giustizia, al puro senso del dovere: abbiamo dalla nostra le figure dei media e la nostra passione, che ci fanno agire per il meglio. In questo non siamo affatto alieni rispetto ai ragazzini protagonisti dei film, riusciamo a riconoscerci in loro e a godere di noi stessi.

Italia, paese di figure e batticuori, dov’è il poeta della tua legge?

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