Il lato oscuro della forza

di Helena Janeczek

Questa guerra palesa una cosa che non avevo mai visto prima. Non l’avevo mai vista così.In tutte le occasioni precedenti in cui mi era capitato di interpretare le notizie e le immagini pervenute da una guerra, di rifletterci o di riflettere su guerre passate, di cercare informazioni su una delle molte guerre invisibili che si trascinano in ogni parte del mondo senza arrivare nei mezzi di comunicazione di massa più di massa a partire dalla tv, questo aspetto, questa cosa che si manifesta nella guerra, mi era sfuggita. Ripeto volutamente la parola guerra, perché la guerra è guerra e questa guerra, considerata nella sua sostanza, verrebbe a dire nella sua materia cruda di guerra, è una delle molte. Però solo questa guerra mi ha fatto saltare all’occhio la sua malvagità.

Ma guarda cosa scopre questa, direte voi, sembra arrivata ieri dalla luna. Mai visto quadri intitolati Guernica o Desastres de la guerra? Mai letto Johnny get your gun, Niente di nuovo in Occidente, le poesie di Robert Owen? Apocalype Now dice niente? Full Metal Jacket? Neanche de Gregori quando canta “che la guerra è bella anche se fa male”, con l’ironia che capisce pure un cretino, perché la guerra non è bella, è orrenda, è orrenda e fa male, è orrenda perché fa male. E questa, per giunta, è una guerra unilaterale, fuori dalla legalità internazionale, una guerra d’aggressione, una guerra ingiusta.

Il fatto è che anch’io mi sono sempre mossa fra questi termini: la ferocia, la brutalità, l’orrore della guerra e poi le considerazioni sulla sua legittimità o illegittimità, sempre tenendoci vicino l’altro lato, quello che afferma che la guerra, anche la più giusta della guerre, è orribile e fa male.

Non sono mai stata una pacifista in senso stretto, cioè una persona che rifiuta la guerra in modo assoluto e non lo sono neanche ora, neanche se ora mi ritrovo con lo sguardo fisso sul male mostrato da questa guerra. Che è il male presente in tutte le guerre. Però di solito quel male si nasconde. Si camuffa dietro esattamente questi due volti: quello della guerra che fa male e quello della guerra giusta o ingiusta.

Il male di cui parlo è un’altra cosa. Non coincide con la quantità di distruzione e morte disseminata, né con l’ingiustizia e l’illegalità. Non ha nemmeno, in senso stretto, i nomi e le facce di Bush e dei suoi strateghi, generali, ideologi e alleati. Tantomeno è l’America.
E allora attenzione! Stiamo lasciando il territorio ragionevole della politica, geopolitica, storia ed economia globale! Qui si parte per la metafisica del Male!

Di solito, e anche in questo caso, si riempiono la bocca della retorica del Male quelli che ne sono gli agenti. Non ne parlano gli intellettuali e gli specialisti autorevoli, con l’eccezione, questa volta, del papa, al quale si riconosce la qualifica di specialista autorevole, autorizzato a ricorrere alla parola “male”. Il papa si oppone a questa guerra con il suo linguaggio, per le ragioni espresse con quel linguaggio e per altre non espresse, così come con altri discorsi ritagliati sulle loro competenze, i loro ruoli e orientamenti fanno Cacciari, Chomsky e Chirac. Il che, nell’economia globale della divisione dei saperi e delle competenze, relativizza l’uso di quella parola facendo della nozione del male un sapere parziale, un punto di vista come un altro.

Fra i tanti campi del sapere specialistico trascurati da quelli che vengono definiti intellettuali c’è anche quello del male. E’ giusto, o perlomeno inevitabile che sia così, che del male possa parlare solo un papa notoriamente non progressista, i suoi vescovi più decrepiti e i suoi esorcisti, e semmai, in termini molto più generici, qualche dottore in teologia e in filosofia? E’ possibile ragionare sul male, sul male che emerge in una concreta circostanza storica, da non specialisti? Da non aderenti ai dogmi di una o di un’altra religione? Non dico da “laici”, perché è un termine di cui mi sfugge sempre di più il senso.

Oggi è necessario, anche se un ragionamento del genere non può approdare a nessuna spiegazione, perché il male comincia a manifestarsi precisamente nel punto dove non reggono più le spiegazioni.
Perché il governo americano ha scatenato questa guerra?
Per il petrolio? .
Per vocazione imperiale o imperialista?
Per controllare i Turchi e i Sauditi più da vicino?
Per la sicurezza nazionale che sarà tutelata solo quando si sarà agito in modo analogo contro altri Stati Canaglia quali, a secondo delle priorità e preferenze del momento, sono Corea del Nord (che non c’entra col terrorismo islamico), Siria e Iran?
Che razza di conti ci sono dietro all’ultima di queste possibili spiegazioni, quella più accreditata dai discorsi e piani e teoremi filogovernativi americani e dei loro alleati?
Li avranno fatto i loro wargames preliminari calcolando il worst possible scenario del quale cerco di riprodurre solo alcuni aspetti, dal loro punto di vista:

1) ulteriore aumento dell’odio nel mondo islamico con sicurissimo incremento delle reclute al terrorismo.
2) indebolimento di tutti i governi musulmani amici, variabile a seconda della durata e in genere dell’andamento della guerra con un rischio che va dalle rivolte all’allargamento del conflitto a tutta l’area, con necessità di mandare anche lì i propri soldati.
3) impossibilità di poter calcolare le perdite fra le proprie truppe dal momento in cui si decide per un invasione da terra.
4) calo dei consensi in relazione alla difficoltà di conseguire la vittoria e al numero di morti fra i civili iracheni e, soprattutto, dei propri soldati durante questa guerra, per non parlare di quelle ancora “programmate” per completare il piano.
5) impossibilità di controllare l’informazione ai livelli della guerra del ’91 per la diffusione globale di reti arabe, di internet ecc.
6) possibilità di contraccolpi con qualche rimasuglio delle famose armi non convenzionali e altissima probabilità che quegli arsenali siano stati smembrati con spostamenti fuori dall’Iraq finendo nelle mani di Al Quaeda e simili, ovunque essi abbiano le loro coperture e le loro basi, cioè possibilmente in tutto il mondo islamico e non solo.
7) conflitto turco-curdo: o la Turchia si prende una parte di Kurdistan iracheno e continua a reprimere i curdi del suo territorio o l’autonomia dei curdi iracheni rivitalizza il nazionalismo curdo e crea problemi all’alleato turco.
8) costi della guerra e della ricostruzione, peso di questi costi sull’economia americana, contraccolpi dell’andamento bellico sulle borse e sull’economia in generale.
9) amministrazione del paese conquistato, dei suoi conflitti etnici e religiosi oltre a quelli elencati al punto precedente. Legami e aiuti fra sciiti iracheni e Iran.
10) il rischio che se veramente si arrivasse a un sistema democratico, questo potrebbe far vincere la corrente che gode di maggiore consenso nell’area, cioè quella islamista. Quindi probabile impossibilità di mantenere una promessa fatta all’opinione pubblica in cerca di consenso per la guerra.

Tutti questi rischi e molti ancora che non mi vengono in mente o che non conosco, quelli che hanno deciso per questa guerra li conoscevano e hanno deciso di correrli o di ignorarli, così come hanno deciso di non modificare i loro piani in reazione all’opposizione dell’ONU, dell’Europa, del parlamento turco, del papa, dei centinaia di milioni di oppositori occidentali a questa guerra, inclusi quelli del loro paese. Perché?

Perché sono i soliti americani ignoranti e strafottenti, che standosene lontani sul loro mezzo continente e avendo visto troppi dei loro film non capiscono un accidente del resto del mondo? Questi luoghi comuni sembrano incarnarsi alla perfezione nel testimonial più in vista del campo americano, ovvero in George Bush, ma l’evidenza che il presidente abbia quell’aspetto da fantoccio poco intelligente e poco istruito, rende anche più visibile il fatto che la guerra non l’abbia decisa lui da solo.

Dietro alla decisione concreta c’è un gruppo di persone, un gruppo di persone finito, anche se non se ne conoscono probabilmente tutti i componenti – magari è importantissima la mamma di Rumsfeld – né il loro peso e le sfumature delle loro singole motivazioni. E dietro a questo gruppo fra cui non mancano quelle di intelligenza e di cultura o di competenza specifica c’è tutto l’apparato di servizi segreti, esperti, consiglieri e così via che messi insieme avranno fornito e continuano a fornire informazioni sovrabbondanti, non univoche e persino erronee, che però le forniscono senz’altro.

Ma sostenere che la guerra è stata decisa da un gruppo di persone significa qualcosa in più. Significa scavalcare, in questo ragionamento, ogni interpretazione di tipo complottistico per cui – faccio le esempio più rozzo e più lampante- la guerra la farebbero le compagnie petrolifere. Perché anche se tre quarti dell’attuale governo vi sono effettivamente implicati, non sono quelle ad aver dato l’ordine di attacco. E significa pure ritenere che l’impossibilità di stabilire quale fra le ragioni per la guerra sopra elencate sia quella “vera”, non costituisca un ostacolo per rifletterci sopra, visto che ognuno di quelli coinvolti nella decisione avrà avuto le sue “priorità”. La sola cosa importante che questa opacità di motivi fa vedere è il fatto che non si tratta di un azione completamente razionale, se includiamo nel razionale anche le ragioni più abiette e predatorie, quelle che tradizionalmente sono all’origine delle guerre: accapparrarsi le risorse del paese x, conquistare uno sbocco a mare ecc.

La figura che in questi anni ha più di ogni altra rappresentato il male per l’immaginario collettivo è una creazione della letteratura e del cinema americano che si chiama serial-killer. Certo che esiste nel mondo qualche maniaco solitario e compulsivo, ma basta guardare alle modalità con cui in ogni parte vengono commessi molti dei crimini, inclusi gli assassinii, di stampo pedofilo (sempre per stare in un campo ritenuto emblematico del male) e ci si accorge che il serial-killer è un mito che copre una realtà molto più diversificata e inquietante. La gran parte della violenza più terribile nasce da azioni di gruppo. Per l’esattezza: non sorgerebbe nemmeno senza una collettività, dalla più elementare dei gruppi paragonati al “branco” alle più sofisticate e strutturate organizzazioni..

Nel primo caso i fatti appaiono semplici: le singole persone si fondono in un’unica forza d’aggressione, in cui letteralmente l’unione fa la forza, senza residui, senza premeditazione. Ma ripensando ad alcuni dei più celebri delitti italiani recenti, si vede che le cose spesso non vanno proprio così: gli assassini della ragazza di Leno avevano deciso prima che dovevano “darle una lezione”; Erika e Omar rimuginavano da anni su come risolvere il problema della mamma oppressiva; le ragazze che hanno ammazzato la suora di Sondrio erano incollate da certi loro interessi satanisti anche solo musicali. In breve, tutti si erano creati una qualche sovrasstruttura collettiva, per quanto debole o delirante.

Questa digressione valga per sottolineare due aspetti che rendono più pericolose le azioni di gruppo.
Il primo – banalissimo – è che in gruppo ci si sente, anzi si è più forti.
Il secondo è più interessante perché è all’apparenza all’opposto del primo. Per programmare lo scatenamento della forza in gruppo, per agire come un branco, esseri umani distinti devono mettersi d’accordo, devono trovarsi delle “ragioni” condivise. Una volta raggiunto questo consenso, diventa difficile tirarsi indietro perché è stato fondato un soggetto collettivo.

Questa digressione non vuole stabilire un paragone piatto fra governanti americani e assassini adolescenti italiani, tantomeno fungere da espediente retorico per una condanna morale. Che chi ha la facoltà di mandare degli esseri umani a uccidere e farsi uccidere, possa essere definito “assassino”, è la scoperta dell’acqua calda. Sono assassini anche i predecessori di Bush, Blair e compagni che decisero lo sbarco in Normandia, anzi assassini più feroci perché le atomiche su Hiroshima e Nagasaki e i bombardamenti a tappeto delle città tedesche e quelli meno terrificanti delle città italiane furono azioni deliberate. Infatti non si giustificano, perché i mezzi non giustificano il fine, ma il fine obiettivo di quell’entrata in guerra resta un altro. Mia madre sarebbe morta in un campo di sterminio, io non sarei mai nata senza l’intervento americano. E’ solo un esempio, scusate se è personale. Però aiuta a ribadire meglio: io devo la vita agli americani, ma neanche ai soldati di allora devo l’adesione semplice, la giustificazione assoluta.

Non sono antiamericana: non solo per il debito di sopra, non per il consueto apprezzamento di non so quanti prodotti della cultura americana, dalla Coca-Cola a Don de Lillo, ma perché distinguere, valutare distinguendo è possibile e importante. Fino a quando è possibile: è importante puntare il dito sulle vittime tedesche e giapponesi deliberatamente bruciate nelle loro città, mentre il fatto che Hitler, prima di scatenere la guerra, aveva risolto il problema della disoccupazione, non ha più peso. C’è una quantità di male che rende ogni residuo del suo contrario talmente piegato e asservito da risultare irrilevante, di fatto, non solo nel giudizio morale. Il mio discorso non avrebbe alcun senso se non fossi convinta che Bush non è Hitler, né l’America di oggi la Germania del ’33. Anche nelle elaborazioni più preoccupanti non c’è traccia di un’ideologia simile a quella nazista, né piani che vi corrispondono, e il popolo americano, per quanto pattriotico, non mostra collettivamente segni di fanatismo. Guardando solo alle vittime civili, potremmo anche concludere che questi americani sono in realtà più buoni e più leali di quelli mai visti prima, perché cercano effettivamente di limitarne il numero e mandano il loro esercito ad agire apertamente, col rischio di sacrifici, anziché affidare i propri interessi a una giunta o a un tiranno senza scrupoli, fra cui figura chiaramente lo stesso Saddam Hussein. Ma quanto sta emergendo prepotentemente con questa guerra è allarmante, più del maccartismo, più del Vietnam, più del mezzo secolo abbondante di porcherie in politica estera, più di tutto questo messo insieme: l’idea e la prassi del dominio esercitato attraverso la forza, di un dominio ritenuto legittimo e virtuoso, tende per sua natura a strangolare lentamente ogni idea e prassi di libertà, di svuotare dall’interno la democrazia, di pervertire l’America .

L’immagine più compatta e complessa dell’America che io abbia in mente è quella mostrata di recente da Gangs of New York, che rivela la violenza nuda e cruda della lotta per il controllo di un piccolo pezzo di territorio cittadino fra i newyorkesi venuti prima e gli immigrati venuti dopo. Questa violenza sta alla base non dello spirito del West dove i cowboys ammazzano gli indiani, ma della città per noi tutti sinonimo della America cosmopolita, colta, multietnica e urbana. Martin Scorsese ha fatto questo film perché ha riconosciuto la propria esperienza di adolescente italo-americano del Bronx nel libro di Herbert Ashbury che ritraeva la città un centinaio di anni prima, perché ha riconosciuto che la sua esperienza non era che la riproduzione di un’esperienza pregressa, la ripetizione di una violenza originaria, anzi fondativa. Secondo René Girard, che ne ha coniato l’espressione, la raffigurazione, lo svelamento della violenza fondativa, la sua rappresentazione piena, è già l’inizio della crisi del suo funzionamento basato invece sull’occultamento mistificatorio.

Oggi un figlio di immigrati molisani gira a Cinecittà un epos che si misura e in tal modo relativizza i classici La nascita di una nazione e La conquista del West girati da registi WASP. Scorsese modella il suo racconto epico – e qui sta un’altra complicazione- sia sui canoni più aggiornati del kolossal hollywoodiano (la battaglia trucolentissima iniziale, obbligatoria ca. dai tempi di Braveheart e del Soldato Ryan; la citazione di un mondo da Conan il Barbaro) che sui capolavori feuilleton del ottocento, creando un film pomposo, ripetitivo, povero di finezze psicologiche e privo, pur con tutta la sua spettacolarità, di coperture estetiche, sociologiche, storicistiche ecc. alla violenza che è l’unico suo contenuto. Non si vedono buoni e cattivi da nessuna parte: polizia ed esercito ammazzano i poveracci in rivolta contro la leva i quali impiccano ogni negro trovato per strada, colpevole di trascinarli in guerra. In questo, è molto diverso dal cinema di denuncia degli anni settanta che rifaceva il western dalla parte degli indiani o di molti grandi film sul Vietnam: non, in senso stretto, un’opera di denuncia, ma semplicemente una dimostrazione di ciò che è stato. Proprio per questo è un segnale importante, un segno che riflette in maniera precisissima l’ambiguità dei potenziali di una società capace di rappresentarsi in questo modo. Noi, in Europa, non saremmo stati in grado di produrre qualcosa di analogo non tanto perché ci mancano i maestri del cinema ex-teppisti, ma perché, anche se li avessimo, l’origine violenta del nostro mondo non la tocchiamo più. Inutile precisare che siamo diventati pacifici da poco.

Secondo Girard la crisi che permette lo svelamento della violenza fondativa non coincide affatto con una sua diminuzione, anzi: quando il sangue che garantiva una certa stabilità non la garantisce più, ce ne vuole altro e altro ancora. Forse l’America è entrata in questo tipo di fase e tutta la sua parte libertaria, autocritica, e egalitaria, una parte che dal tempo del movimento per i diritti civili, pur con qualche contraccolpo, non ha fatto altro che crescere e consolidarsi, vi è tragicamente implicata. Ma è ancora una partita ambigua, una partita aperta, in cui bisogna entrare e lottare perché si tratta anche di noi. Se Bush, i suoi compari e padrini e il loro humus alla lunga vincessero non solo in Iraq o in altri luoghi remoti, ma nel loro paese – dove stanno già ampiamente demolendo le tradizionali libertà – , subiremmo tutti una perdita così terrificante da rendere obsoleta ogni postura d’orgoglio antiamericano. Stiamo ragionando sul nostro futuro e sulla nostra pelle.

Torniamo al punto di partenza. Qual è il male che si manifesta in questa guerra? E’ il disegno degli ideologi neoconservative, è la scoperta di piani per l’egemonia americana nel mondo che prevedono l’invasione in Iraq e che sono stati elaborati anni prima dell’undici settembre dallo stesso gruppo di persone che, trovandosi oggi al potere, ha cominciato a metterli in atto?

Secondo me è qualcosa che si trova ancora un po’ più sotto, qualcosa di molto semplice e banale, come è il male definito da Hannah Arendt. Se non fosse così banale nei suoi meccanismi, farebbe meno danni.
Da quando assisto sgomenta ai notiziari quotidiani della guerra, mi ronza in testa una stranota espressione che deriva da uno dei film-mito del cinema americano: il lato oscuro della forza.
In Guerre Stellari (il cui titolo non a caso fu ripreso per battezzare uno dei più costosi progetti di riarmo statunitense) si combattono il Bene e il Male ben distinti, con trionfo finale del Bene; solo che i signori del Male un tempo erano anch’essi campioni del Bene, cavalieri Jedi. Ma a un certo momento sono stati pervertiti, come direbbe il papa, dal lato oscuro della forza. La forza, quella sempre invocata – “che la forza sia con te!” – è una sola. Il suo lato oscuro – sarebbe meglio dire: parte oscura – si manifesta quando sfugge al controllo di chi la esercita, quando cerca di imporre un dominio infinito, fine a se stesso.

Lo so che è banale sostenere che il motore dell’attuale politica americana, il collante del gruppo al potere, il sostrato sotto la coperture ideologica delle teorie neoconservative sia “il lato oscuro della forza.“ Ma appare altrettanto evidente come tutti coloro abbiano creduto eccessivamente, quasi misticamente – non a un God On Our Side cristiano fondamentalista – ma alla loro forza: militare e tecnologica in primo luogo, poi economica e politica. E’ lo strapotere della loro forza che li ha convinti tutti a passare dal piano della teoria e dei giochi preliminari all’azione, dalla fantasia alla realtà, con la disinvoltura alienata che di solito si attribuisce ai ragazzini rintronati dai videogame, facendo apparire trascurabile fino all’inconsistenza ogni altro aspetto, a cominciare dalla mortalità e vulnerabilità psicologica dei propri soldati.

Robert Kagan, uno dei teorici di area neoconservative a mia saputa non coinvolto con l’amministrazione Bush e tutt’altro che un ignorante e cretino in un intervista di confronto con Daniel Cohn-Bendit allo Spiegel diceva più o meno così, perfettamente serio: “se uno ha un bel martello forte, gli viene da picchiarlo sui chiodi e per forza poi qualcuno non lo colpisce bene o gli entra storto”.
Quel martello citato in rappresentanza degli armamenti più sofisticati e costosi del pianeta mette in luce come non ci sia nemmeno da avere troppo timore reverenziale della tecnologia, perché il mito tecnologico non si rivela altro che una copertura per il solito meccanismo d’espansione della forza.
Quelli che credono di dominarla per dominare ne sono a loro volta dominati. E’ un’altra costatazione per niente nuovo, ma tenerla d’occhio sotto l’armatura pesantissima e terrificante di tecnologia e ideologia, aiuta a sentire meglio il pericolo in cui ci troviamo, noi esseri umani né dominatori né dominati.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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