Articolo precedente
Articolo successivo

29 aprile 1993. Io c’ero

di Piero Vereni

Ho appreso, con un po’ di sgomento anagrafico, che sono passati dieci anni da quella sera in cui Craxi, parzialmente “assolto” dal Parlamento che non concesse l’autorizzazione a procedere su alcuni punti, venne subissato di monetine e buuuizzato all’uscita del Raphael. Quella sera io c’ero.

La cosa (mia presenza, e monetine) per quel che mi riguarda potrebbe tranquillamente campeggiare nella storica rubrica “Chi se ne frega?” del vecchio Cuore diretto da Michele Serra, ma pare che il senso comune stia spingendo verso altre direzioni. Ci si dice che abbiamo fatto male, che così non andava fatto. Senza scomodare quanti si battono per la beatificazione del Cinghialone, anche gli storici avversari dell’improbabile leader tunisino ora fanno nonnò col ditino keccosì non si fa. Non è buona cosa tirare le monetine. E giù sproloqui sulla folla, la piazza, l’irrazionalismo.

Giuro che non mi ero accorto di stare facendo la storia, ma le insulsaggini circolanti sugli eventi di dieci anni fa mi portano a credere di essere stato cieco. Effettivamente, è ora di accettare il fatto che quella sera abbiamo fatto la storia o, per come la vedo io, eravamo sul punto di stare per farlo (sulla soglia di una soglia).

Non sopporto le commosse nostalgie che confondono la floridezza dei propri ormoni e del proprio apparato digerente e riproduttivo con quella del mondo, ma tanto meno reggo le abiure dei convertiti, le battaglie antifumo degli ex fumatori (sono uno di loro). Come dice Sofri (quello buono, quello stagionato, quello in galera, non la smidollata versione giovanil-tecnologica in libertà) preferisco tenere il passato “ad affettuosa distanza”, senza pretendere per forza che “allora” si fosse capito tutto o che altrimenti non ci si capisse un cazzo. Visto dunque che mi vogliono far credere che dovrei vergognarmi di quella sera di dieci anni fa quando, schiacciato dalla polizia contro le pareti della chiesa che dà sulla piazzetta di fronte all’albergo, urlavo anch’io a Craxi di andare a farsi fottere e che era finita per sempre con il troiaio che si era costruito intorno, vorrei prendermi brevemente la briga di argomentare per la tesi opposta: abbiamo fatto bene, dovevamo fare quel che abbiamo fatto, le monetine sono state evidentemente troppo poche, e gli insulti pure. Dovevamo fare di più.

L’uccisione rituale del sovrano è una pratica comune a tutte le culture, di tutti i tempi. Anche se è vero che gli antropologi – da sempre in caccia di stranezze – ne hanno raccolte innumerevoli testimonianze nell’altrove spaziale o temporale, non fatevi infinocchiare: dalla presa della Bastiglia a piazzale Loreto, la nostra Modernità occidentale e razionale è piena zeppa di atti “efferati” di rivolta contro il corpo del potere, e non parlo di corpo metaforico, ma proprio del corpaccione villoso, adiposo, untuoso di colui che dice di essere il potere. Non c’entra nulla l’irrazionalità, la mistica, la religione o la folla in quanto belva incontrollabile: è una pura sequenza dialettica per cui il mutamento può e deve derivare esclusivamente dall’abominio della stasi. Quella sera, per parlare spiccio, stavamo facendo fuori il re, e in questo non c’è nulla di male o di sbagliato. Ma vorrei andare oltre e mi chiedo: cosa sarebbe successo se ci fossimo veramente impossessati del corpo di Bettino? Se lo avessimo fatto a pezzi sul serio, se l’avessimo magari mangiato a brani (era grande e grosso, ce n’era per tutti)? Io dico che alcuni di noi sarebbero morti negli scontri, altri andati in galera, ergastolani, ma il paese ne avrebbe beneficiato: avremmo dichiarato, scrivendolo sul corpo del potere, l’irrevocabilità di quello che stava succedendo. Mani Pulite (se avete meno di vent’anni e leggete, credetemi) non fu quel Terrore che stanno spacciando, non fu un’invenzione dei giudici comunisti. Fu il tentativo di una nazione di riprendere controllo di sé dopo 45 anni di bipolarismo. Fu la prova generale per divenire soggetti politici autonomi in quanto italiani, e non democristiani, comunisti, o fascisti. L’impunità della classe politica e lo squallore di quella imprenditoriale erano arrivati al termine. Quindici anni prima si sarebbe detto che il Sistema era finito.

Quando il Parlamento non concesse l’autorizzazione a procedere contro Craxi il messaggio fu chiaro: kissenefrega di Di Pietro, della fine di Gladio, della fine del fattore K: noi non vogliamo che tutto questo cambi. Di fronte a questa reazione simbolica al collasso, la controreazione doveva essere altrettanto simbolica: tu vuoi fregartene (se non c’è pane, dategli brioches) ma io ti sdereno, di smantello, ti annullo. Quella sera, insomma non stavamo facendo altro che il nostro dovere di italiani. Chi non è d’accordo è solo un nostalgico parassita di quel sistema che non aveva più le basi strutturali per sussistere. Il nostro vero errore è stato quello di non andare fino in fondo. Dovevamo sbranare Craxi, avremmo dovuto farlo fuori a pezzi, gettare le sue (mi immagino lunghissime) budella sulla porta del Raphael e trascinarle fino al Parlamento. Poi la polizia avrebbe (giustamente) fatto il suo dovere, ammazzato i più assatanati direttamente sul posto, e portato via un bel po’ d’altri. Mi preme chiarire che non ce l’ho particolarmente con Craxi, che in quell’occasione avrebbe potuto essere rimpiazzato da Forlani, o Andreotti. Certo, Craxi aveva la protervia tipica dei tiranni, oltre al fisico del ruolo (certo più del sacrestanico Forlani, o anche del mefistofelico Andreotti) ma quel che fece la differenza fu il segnale di disprezzo del principio di realtà che venne lanciato rifiutando l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti.

Avremmo quindi dovuto andare fino in fondo. Sacrificare Craxi e qualcuno di noi in nome del paese, per far capire a tutti che era finita, per segnare con la morte il punto di non ritorno di un modo fare politica e impresa. Non lo facemmo, e qualche mese dopo un signore sorridente e permaloso ci venne a raccontare che non era successo nulla, che tutto poteva tornare come prima. Molti gli diedero retta, spaventati dall’impresa titanica di fondare una nazione fuori dalle logiche della subalternità, delle clientele e della piaggeria al potere, e così ebbe fine la mai nata rivoluzione italiana, che vide il suo concepimento e il suo aborto di fronte all’hotel Raphael la sera del 29 aprile 1993. Io c’ero. E come tutti quelli che fanno la storia, non ho capito che occasione avevo per le mani.

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

In uscita

Condivido in pieno il messaggio di Antonio. Anch’io ho deciso di uscire da Nazione Indiana. Non descriverò qui le...

Busi: 4 sì ai referendum

di Flavio Marcolini A sostegno della campagna referendaria per i sì alla consultazione del 12 e 13 giugno...

Tutto su sua nonna e molto altro

Giuseppe Caliceti intervista Silvia Ballestra Con Tutto su mia nonna, da pochi giorni nelle librerie per Einaudi Stile Libero,...

I leoni

di Beppe Sebaste All’incontro torinese sulla Restaurazione dello scorso 9 maggio, Beppe Sebaste aveva inviato questo brano tratto da un...

Il male dell’America

Intervista a Emmanuel Todd L’ultimo numero di Una Città si apre con questa intervista allo storico e antropologo francese Emmanuel...

“Guadagno più di te e quindi ne so più di te”

di Aldo Nove Leonardo ha più di 30 anni e dirige una piccola e agguerrita casa editrice. Per vivere, dopo...
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: