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Tiziano Scarpa si (e mi) chiede se…

di Mauro Covacich

Tiziano Scarpa si chiede e mi chiede, rivolgendosi direttamente a me nel suo intervento del 13/5, se valga la pena scrivere un romanzo e farselo pubblicare da un grande (diciamo grosso) editore, per poi non trovarlo nemmeno in libreria.

Scarpa si riferisce a una catena che io intuisco essere Demetra o qualcosa del genere – nelle librerie librerie il libro c’è – ma la questione rimane. Uno scrive per essere letto, ed è abbastanza difficile che qualcuno ti legga se manco ci sei nel posto dove dovrebbe accorgersi di te. Questo è il terzo libro che pubblico con Mondadori, prima ero stato con editori più piccoli. Quando ho cambiato ho pensato che fosse una bella cosa: mi davano più soldi, mi garantivano una maggior visibilità. Nei discorsi del dirigente con cui ho firmato il contratto (Andrea Cane), gente come me, Giulio Mozzi, eccetera, avrebbe dovuto rinnovare l’offerta narrativa della casa editrice in risposta al rinnovarsi del pubblico, una specie di cambio generazionale insomma. I lettori di Tomizza e Sgorlon invecchiano con i loro autori – e muoiono anche (all’epoca però Tomizza era ancora abbastanza in forma) – ergo, servono nuovi autori per i lettori under sessanta. Questi erano i discorsi “editoriali”. Poi c’erano anche i discorsi “letterari”. Scegliere me e gli altri come me (scelta di Antonio Franchini) rispondeva a una filosofia di continuità rispetto al catalogo, rispetto a collane di alto prestigio come la vecchia Medusa, per esempio.

Ora, sul piano editoriale siamo andati male (ma perché mai i figli dei lettori di Sgorlon avrebbero dovuto leggere noi?): Giulio ha cambiato editore, io ho venduto seimila copie tra prima edizione e tascabile e sono rimasto. Sul piano letterario invece, siamo andati bene (riconoscimenti, critiche, eccetera). Il risultato è che la Mondadori continua a pubblicare i miei e i libri di molti altri con tirature a dir poco prudenti, che al 99% segnano in partenza il destino di quei titoli. Invece di fare dieci titoli tirati a dodicimila copie, preferisce fare venti titoli tirati a seimila. Beninteso, si tratta di un metodo condiviso da tutti i grossi editori: più numeri copro sulla ruota, più possibilità ho di vincere. Ovviamente le tue probabilità di essere il loro numero vincente, date le seimila copie distribuite su tutto il territorio nazionale, sono appunto dell’1% (mentre scrivo mi accorgo che è una stima molto, molto ottimistica). Anch’io sono convinto che A perdifiato non sia un libro per pochi (e non siamo solo io e Scarpa a pensarla così), ma l’editore ormai mi ha preso le misure: in partenza, non rischia più delle solite seimila copie e, naturalmente, su questo cabotaggio calibra poi il volume di energie da investire anche in ambito promozionale, mediatico, eccetera.

Come possono spingere il mio romanzo, i venditori Mondadori, se devono sbattersi come dannati per piazzare quelli da venti trentamila copie? E avanti così. Con il romanzo precedente, dopo un mese appena dall’uscita, mi è capitato di chiedere in una libreria di Bologna, a metà di via dell’Indipendenza, come mai non ci fosse. Il commesso è andato al terminale, ha digitato e poi mi ha detto: “l’abbiamo esaurito, comunque è andato bene, guardi anche lei, ha venduto tutte e venti le copie che abbiamo ordinato”. Dopo un mese, in quella libreria si parlava già al passato, era andato bene, per loro ormai il mio romanzo era un discorso chiuso. Rifornirsi? E perché mai? Erano già arrivati altri splendidi titoli, la roulette continuava a girare. Poi magari capita, contro ogni genere di avversità, che il libro metta fuori la testa (adesso A perdifiato è in ristampa: altre duemila copie, wow) e allora le cose cambiano un poco.

Lo so, lo so, non sto rispondendo alla domanda di Scarpa. Io sto spiegando perché il libro di un grosso editore può anche, paradossalmente, non essere distribuito in alcune grosse librerie. E lui mi ha chiesto se vale la pena consacrare tre anni della propria vita per scrivere un romanzo che poi la gente non ha neanche la possibilità di vedere, figurarsi di leggere. Sono due cose ben diverse, lo ammetto. Il fatto è che, per me – e credo anche per Tiziano e per tutti coloro che scrivono non perché vogliono scrivere ma perché non sanno farne a meno – questa è una falsa domanda, nel senso di una non domanda, di un falso problema. Io vorrei che il mio libro venisse letto dal maggior numero di persone possibile, come tutti. E come tutti, provo un dolore sotterraneo, incessante, muto, perché questo non accade. Però la pena di questa delusione non ha valore, non posso metterla su nessuna bilancia. Io dovevo scrivere A perdifiato a qualsiasi costo. Io ho bisogno di scrivere, come di respirare. Potessi smettere, smetterei. Le vicende del mio protagonista non c’entrano niente con le vicende della mia vita, eppure la sua storia è la mia esperienza. Ogni volta che racconto qualcosa, questo qualcosa passa prima dentro il mio corpo, attraversa in lungo e in largo ciò che sono, e ne esce come l’anidride carbonica nella nostra espirazione: forse non proprio necessario, ma inevitabile sì. La convenienza di un simile gesto, il suo valerne la pena, è un aspetto che non credo di poter considerare.

Mauro Covacich

www.maurocovacich.it

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